Il Foglio Letterario
2003
9788888515397
“Guarda la faccia di Baricco, guarda la faccia di tutti i fantastici scrittori italiani, guarda che belle facce di culo, col capello mediamente non curato, lo sguardo volutamente assassino, la battuta pronta o la posa da dandy. Non ce n’è uno che non faccia una citazione che conosce solo lui, non ce n’è uno che al primo libro non parli dei dischi rock che gli hanno cambiato la vita e che al secondo già cominciano ad inserirti una frase di Leopardi, Cechov e compagnia bella. Dovrebbero imparare da Carver, dal suo modo di scrivere nello stesso tempo di Cechov e sigarette, di alcool e solitudine, di vita e morte. Dovrebbero imparare da Carver che essere scrittori non significa essere più intelligenti degli altri” (p. 85)
“Wrong” è un romanzo nichilista, nell’accezione che il concetto ha assunto dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti: ossia disperato, e fedelmente rappresentativo d’un atteggiamento di rivolta totale. Convenzionalmente, registriamo l’incarnazione – nel protagonista del romanzo – di ateismo, immoralismo, pulsioni distruttive e autodistruttive; a illuderci che si tratti di un sentimento nuovo ed esclusivamente contemporaneo, l’ambientazione (hinterland brianzolo) e una serie di richiami espliciti a personaggi del mondo politico, letterario, giornalistico e catodico di differente spessore e rilievo.
L’impatto – a questo proposito – è più prossimo ad una prosa welshiana – o a certa aggressiva narrativa di Palahniuk (trasparenti omaggi al suo notevole “Fight Club”) che alla recente produzione italiana; da un certo punto di vista, questo romanzo costituisce l’analogo – ma da una prospettiva piccolo borghese (o proletaria, ammesso che questa definizione, pur spogliata dalla primigenia valenza ideologica, abbia ancora senso) – di quel grido di dolore, di disperazione e di autodistruzione che si poteva distinguere nell’esordio di Paolo Mascheri, “Poliuretano”.
Accompagna questo livido sconforto esistenziale una lingua che sembra potersi contraddistinguere per due aspetti fondamentali: in prima battuta, è priva di qualunque freno inibitorio – sia esso estetico, etico, o almeno limitato o circoscritto da un contesto: il vuoto descritto dal narratore in prima persona è maledetto e oltraggiato da un lessico condito da volgarità e trivialità talmente reiterate e – a volte – gratuite da assicurare al lettore l’impressione che l’artificio è stato meditato e avallato, confidando forse in una maggiore fedeltà al parlato (di certi contesti, e determinati ambiti) della quotidianità, o in uno choc che però – congetturiamo – può riguardare una frangia di lettori che difficilmente, di norma, s’avvicina a questo tipo di narrativa. Difficilmente, ed erroneamente: perché l’impressione – una volta chiuso il libro – è quella d’aver testimoniato una rappresentazione di malessere esistenziale, dettato da vuoto ideologico, franca e umana opposizione al neo-sfruttamento dei lavoratori nelle aziende e nelle fabbriche, aporia ideologica o fideistica, disgregazione del sistema dei valori e negazione d’ogni principio: immaginiamo che tanti uomini politici, e tanti intellettuali, avrebbero un gran bisogno di confrontare i loro pre-giudizi con chi giudica norme e consuetudini di questa vita, e questo sistema stesso, questo sistema tutto, un inferno; e si sgretola, giorno dopo giorno, soffocando nella decadenza e nella fatiscenza, come la sua nazione: che gaia, arrogante e incosciente s’avvia alla rovina.
È un romanzo che potrebbe costituire un piccolo caso letterario: qualora venga letto con un taglio sociologico, o esistenzialista, o politico. E questo al di là del suo valore estetico, pure almeno apprezzabile (a dispetto della trasandatezza dell’edizione, e dell’inadeguato editing; spiace doverlo segnalare, ma certe incurie sono eccessive e danneggiano l’artista: ingiustamente): è un documento della tenebra che soffoca quella parte della nuova generazione che vorrebbe credere, ma non può più credere in nulla; non in una chiesa, non in un partito, non nei sentimenti. È la generazione che vive tra le rovine del sogno, e soltanto intuisce utopia; utopia che si giura perduta per sempre, e rimane – come idea – a distruggere l’ipotesi che si adotti altra, ed edonistica (ad esempio) partecipazione e interazione con l’alterità.
L’incipit squassa. “Non me ne frega un cazzo” – scrive il narratore. E giù una sequenza di concetti: e una valanga di parole. Futuro, amici, nemici: niente, tutto morto. Andrea si sveglia e si sente morto. Si reputa una persona disgustosa: pensa che dovrebbe essere rispettoso, e uccidere tutti. È un metro e settantotto per cinquantotto chili; non basta, vuole diventare uno scheletro senza più imperfezione. L’imperfezione è carne e sangue: la carcassa dello spirito. Che pure s’è dimenticato: qui – apparentemente – si nega del tutto. Andrea vuole farsi “male vero”, mangiarsi (p. 23). Non vuole un lavoro migliore, una fidanzata comprensiva: non vuole accontentarsi di volere (p. 38).
La sua esistenza è vuota. Non accade niente.
Penseremmo: quel che è accaduto in passato ha cristallizzato le sue percezioni, sospendendole in una depressione e in una disperazione che sembrano non avere altra consolazione che non sia il martirio del proprio corpo, la volgarità detta per provocare o per cercare – chissà – di scuotere un ambiente che dorme; altro sollievo che non sia il rock, o la lettura del divino Drieu La Rochelle. E la solidarietà – quasi animalesca, per quanto istintuale e fondamentalmente immotivata: tutta epidermica – della sorella, Sarah. Che sta con uno dei – riconoscibilissimi – pseudo-alternativi che infestano piazze e concerti. Un tizio che si diletta a pestarla non appena contraddetto, rimanendo – è ovvio – impunito; e poi pontifica, grottesco, uncinato a un’ideologia sconfitta, umiliata e morta.
Andrea – ed ecco la prova della resistenza della sua intelligenza al nulla che va annichilendolo – osserva, legge e ascolta molto. Nega il sistema, ma del sistema sa molto: ha maturato giudizi pure estremi, e non va lesinandoli; è sprezzante nei confronti di De Carlo (p. 10), di Moretti – “idiota che si scopa la vespa” (p. 11), di Olmi (“scassapalle”), dei nuovi “noir” italiani (“schifosi”), dei P.O.D. (p. 19: e varie e molteplici sono le bastonate a MTV), del “fascista da salotto” Rossella (p. 31), dell’ambizione alla sodomia della Senette (p. 32), della “merda” che ha scritto Culicchia dopo “Bla, bla, bla” (p. 65), dei telegiornali da “regime sudamericano” di Fede (p. 32). Insomma: il sistema che si critica è fin troppo famigliare: è stato studiato, indagato, analizzato e adesso viene sommerso da schiette palate di merda.
Chi salva Andrea? Un amico che rispetta, Carlo; la sorella, Sarah; i nonni, che hanno trasmesso qualche valore – e l’epica della Resistenza – senza che questo sia più vivo, perché il narratore non crede più in niente; si fa di tutta l’erba un fascio, Rossella e Gramsci, Culicchia e Baricco, lavoro interinale e rivendicazioni politiche: tutto al rogo. No future. Da leggere. Brucia.
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PAROLE D’AUTORE (di Andrea Consonni)
“Ossessione. John Wayne in Sentieri Selvaggi, Céline in gabbia alla fine della guerra, Mussolini appeso a testa in giù a piazzale Loreto e la mia voglia di staccargli la testa, di prenderla e di correre fino a casa, accarezzare nonna e dirgli “Guarda! Lo stronzo che ha spedito tuo marito in Germania ora è qui. Puoi usarlo come orinatoio”. Ossessione. Non dormire per mesi interi, a dieci anni, le tabelline imparate a memoria, i morti di tumore impilati sugli scaffali. Cumuli di ossa ogni volta che chiudevo gli occhi. Le mani che ora puzzano di proteggi-filetto, utilizzato nel montaggio dei serbatoi Ducati. Ossessione. I tre chilometri di macchina per arrivare al lavoro. Il blu del telone del camion che guido due volte al giorno per consegnare pezzi di moto e manici di padelle. Ossessione. L’Ospedale dove lo zio è morto con la tromba in mano, il fegato scoppiato di domenica pomeriggio. Il centro commerciale dove hanno appeso Gesù Cristo con le mutande abbassate e i ministri con camicia nera, rossa e verde salutano feti che già conoscono il passo dell’oca. Ossessione. Sveglia su un lettino d’ambulanza, una flebo scavata in vena, l’infermiere fatto di coca che mi prende a pugni, la mia mano che gli stringe la gola. “Chi ti ha dato il permesso di salvarmi la vita?”. Un negozio in fiamme. Il monologo in replay di uno schizofrenico con una telecamera in mano che spiega al mondo cosa è giusto e cosa non lo è. La gente ascolta con le orecchie targate Mediaset. Ha paura del silenzio. I soffitti scrostati. Le zanzare che riposano sulle tende. Ossessione. Rivoluzionari. Controrivoluzionari. Costruirei immensi forni crematori, ai meccanismi di accensione Drieu e Charles. Gatti e alieni si accoppiano in piscina. Cacciaviti, scarpe con la suola bucata in pieno inverno perché mio padre non ne aveva più, senza lavoro e addormentato sul divano da 6 mesi. Ossessione. Strade vuote di provincia, fuochi artificiali, bancarelle con dolci e tiro al bersaglio. La bocca cucita dalle vostre parole, passi inerti. La voglia di cambiamento ridotta a un’asta di ferro scaraventata contro la prima macchina incontrata sul cammino. Gocce di sudore che crollano a terra aprendo fosse di aerazione. WRONG è un cumulo di immondizia che custodisco nello stomaco. È il disprezzo giusto e sacrosanto, perché di sacrosanto a questo mondo non c’è proprio nulla” (Andrea Consonni, settembre 2004).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Andrea Consonni (1979), scrittore italiano. Ha esordito pubblicando nel 2001 “Settantanove punti di fuga” (Besa Editrice).
Andrea Consonni, “Wrong”, Il Foglio Editore, Piombino 2003.
Gianfranco Franchi, 23 settembre 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Romanzo nichilista