Mondadori
1997
9788804434368
“Non è un libro di guerra, questo. È il libro di un uomo che fin dai primi giorni è entrato, come volontario, nel cerchio della guerra, a capo chino, bestemmiando (non Dio), e che ne è uscito all'ultimo giorno, benedicendo Dio, a capo chino, come un francescano; di un uomo che ha lasciato la trincea assetato d'amore e di pace, ma avvelenato fin nelle radici d'odio e di disperazione. È il libro di un uomo, un uomo qualunque, che è andato in trincea, fante tra fanti, come altri va in chiesa o all'officina o al podere per la confessione o la fatica quotidiana. È il libro di un uomo normale, di un uomo in carne ed ossa che tutto ha accettato come un sacrificio, come un dovere istintivo, che ha sfogliato la sua complessa mentalità, fino a ridurla al più semplice boccio, per poter comprendere gli umili e i primitivi con i quali frangeva il pane e divideva la paglia. Non tutti potranno leggere questo libro, perché non tutti avranno disperato” (Malaparte, “La rivolta dei santi maledetti”, ex “Viva Caporetto!”)
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“Viva Caporetto!” apparve originariamente nel 1921, a Prato: fu subito sequestrato per il suo contenuto antipatriottico e disfattista. Malaparte – leggiamo nella nota al testo del Meridiano Mondadori 1997 – lo ristampò subito, a Roma, col titolo “La rivolta dei santi maledetti”: pure in questo frangente incappò nel sequestro. Terza edizione, due anni più tardi, con integrazioni ed emendamenti: terzo sequestro. Insomma: Giolitti, Bonomi o Mussolini, poco cambiava per il giovane Suckert-Malaparte. Cos'aveva di così provocatorio e così antitaliano il libello in questione? Cos'era a stabilire i presupposti per cui fosse proibito? Vediamo.
Malaparte, già volontario tra i rivoluzionari della Legione Garibaldina delle Argonne, fronte francese, era tornato in Italia nel 1915, per arruolarsi come “soldato di fanteria, cioè come proletario”, perché aveva capito che “la civiltà proletaria sarebbe uscita dalle trincee, dalla fanteria” (p. 25), e sapeva che nella fanteria si entrava “per destinazione o per vocazione”, o “per punizione – come aveva stabilito Cadorna” (p. 42). E così, l'artista racconta d'aver assistito con meraviglia e gioia alla “placida serenità” con cui lavoratori e braccianti s'erano messi all'opera in guerra, mutando mansioni e abitudini come niente fosse. E spiega d'aver osservato la loro rabbiosa e dolorosa accettazione del destino della morte facile al fronte, stupendosi della capacità di rassegnazione, della “normalità” del pensiero d'esser parte d'una “fatalità”. Malaparte capisce che al fante non importa sapere: il fante non chiede mai niente a nessuno, nemmeno a Dio. Figuriamoci allo Stato.
Nel libro sostiene che la storia della disfatta di Caporetto sia stata vittima d'un uso “immondo” da parte di “dirigenti e partiti”: considera l'accaduto un “aspetto orrendo e sanguinoso” della rivoluzione nazionale intrapresa nel 1821, soffocata nel Settanta e ripresa nel 1914. Ripete che i soldati sono andati arrancando per petraie e costoni, in guerra, senza eroismo e senza lamentarsi: che ci si è battuti per “bontà e virtù naturale”, “per nessuna ragione speciale”, senza fede, senza odio. E che la nazione non ha fatto niente per dimostrare gratitudine nei confronti del sacrificio di questi cittadini. E che quando, man mano, la fanteria ha compreso tutto questo, ha deciso di prendere e di buttarsi contro la legge. E cioè?
“Cioè contro la nazione che non lo capiva, contro gli imboscati, contro gli inabili alle fatiche di guerra, gli esonerati, i patrioti retorici, gli speculatori del sacrificio altrui, contro il Governo disfattista, contro i nemici della fanteria, contro i nemici dell'Italia, del Carso e degli Altipiani. Caporetto” (IX, p. 72).
Caporetto è stata, nell'interpretazione di Malaparte, una rivolta di classe: “la rivolta della contro i retoricamente patriottici e umanitari”: una forma di lotta di classe, antiborghese e antiretorica. “L'Italia-trincea contro l'Italia-bordello”, insomma. Caporetto è stata “la rivoluzione che ha sferzato a sangue, smascherato, bollato a fuoco tutti i ruffiani e le sgualdrine che riempivano l'interno del paese” (nota 1, cap. X, p. 75). Caporetto è stato un gesto disperato, non un atto di vigliaccheria. È stato, a sentir Malaparte, il principio della formazione d'una coscienza di classe prodromico a una rivoluzione socialista: ma individualista, e non collettivista. In questo sta la sua fondamentale distanza rispetto a quanto stava avvenendo in Russia.
La narrazione è contaminata da tutta una serie di bordate contro la cultura italiana, e da una sassaiola rivolta al popolo: Malaparte denuncia che l'Italia, patria del diritto, sia un paese incivile, privo del senso del diritto. Nessuno – ribadisce – si sente cittadino: nessuno rispetta lo Stato. Siamo l'espressione d'una “sudicia democrazia latina”, che invece d'insegnare rispetto per la collettività insegna a ridere dello Stato. Siamo una nazione che fatica a diventare patria: proprio come in questi nostri giorni, quasi un secolo più tardi.
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Difficile davvero riuscire a immaginare un tempo, come quello vissuto da Malaparte, in cui un libro stampato in poche centinaia di copie, inizialmente addirittura autoprodotto, potesse riuscire a guadagnare tante attenzioni da parte delle istituzioni, sino al (ripetuto) sequestro. Più difficile ancora riuscire a immaginare quale polveriera dovesse essere la cultura del nostro paese, e quanto complicate le condizioni di larga parte dei cittadini, se le parole di denuncia – provocatorie, ma non certo insensate – di questo libello potevano costituire ragione di rivolta sociale, o di ribellione. Chiaro è che Malaparte era riuscito, con immediatezza ma non senza retorica, a interpretare e demistificare con chiarezza e sensibilità le ragioni della rabbia, del dolore e del dissenso dei nostri soldati mandati al fronte senza capire perché. Le ragioni patriottiche, vale a dire il riscatto delle nostre Trento e Trieste, erano davvero difficilmente comprensibili per chi non aveva un grado di istruzione accettabile, o una vaga idea d'esser parte d'uno Stato nato da nemmeno cinquant'anni dopo un millennio abbondante di decadenza, rovina e frammentazione.
“La rivolta dei santi maledetti” è e rimane un documento storico-letterario di grande interesse, autentico socialismo e sincero patriottismo: una lezione politica e un commosso omaggio alle centinaia di migliaia di soldati caduti sul campo. Tecnicamente, la struttura è tutt'altro che robusta; siamo dalle parti dei libelli d'invettiva destinati a una circolazione romantica, diciamo così, non certo dalle parti degli organici atti d'accusa, fondati su documentazioni incontestabili. Capiamoci – è letteratura. Ma è così potente l'odore del sangue e il sentore dell'ingiustizia che non si può che giustificare l'artista per il sentiero scelto.
Libro sicuramente importante per tornare a meditare sul principio del nostro Novecento, sui fattori di coesione sociale e patriottica, sul senso del martirio d'una generazione di giovani italiani al fronte. Da rileggere.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Kurt Erich Suckert (Prato, 1898 - Roma, 1957), alias Curzio Malaparte, scrittore, giornalista e diplomatico italiano.
Curzio Malaparte, “La rivolta dei santi maledetti”, Meridiano Mondadori, Milano 2009. Prefazione di Giancarlo Vigorelli. Introduzione di Luigi Martellini. Contiene una cronologia, notizie sui testi e una bibliografia.
Prima edizione: “Viva Caporetto!”, 1921, Tipografia Martini, Prato. Col titolo “La rivolta dei santi maledetti”: Rassegna Internazionale di Roma, 1921; 1923.
Approfondimento in rete: WIKI it
Gianfranco Franchi, agosto 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.