Bompiani
2012
9788845271090
“Il Vicolo Cannery a Monterey in California è un poema, un fetore, un rumore irritante, una qualità della luce, un tono, un'abitudine, una nostalgia, un sogno. Raccolti e sparpagliati nel Vicolo Cannery stanno scatole di latta e ferro e legno scheggiato, marciapiedi in disordine e terreni invasi dall'erbacce e mucchi di rifiuti, stabilimenti dove inscatolano le sardine coperti di ferro ondulato, balli pubblici, ristoranti e bordelli, e piccole drogherie zeppe, e laboratori e asili notturni. I suoi abitanti sono, come disse uno una volta, 'Bagasce, ruffiani, giocatori e figli di mala femmina', e intendeva dire: tutti quanti. Se costui avesse guardato attraverso uno spiraglio avrebbe potuto dire: 'Santi e angeli e martiri e uomini di Dio', e il significato sarebbe stato lo stesso” (JS, “Vicolo Cannery”, 1945).
“Cannery Row”, grande romanzo corale e popolare, comincia così: con un incipit trascinante, visivo; con queste parole che hanno l'odore di quella strada, e ti costringono a respirarlo, quell'odore, mentre ascolti tutti quei rumori, e ti volti per cercare corrispondenze. E poi diventa come un fumetto, diventa una sequenza di strisce tutte concentrate sulle anime scelte passo passo dall'artista, sulle loro piccole vicende disgraziate e grottesche. È la storia di piccoli bottegai, di osti, di vagabondi, di lavoratori sfortunati e poverissimi; è una storia di piccole speranze, di solitudini e di tristezza. È una tragicommedia dell'America che nessuno voleva raccontare, e Steinbeck sentiva così vicina, vedeva così chiara, sapeva così sua. È quell'America di chi non aveva ambizioni diverse da mangiare e bere, e sapeva accontentarsi di poco, di niente. Era l'America catturata in un vicolo cieco, che in quel vicolo andava avanti e indietro, generazione dopo generazione, dimenticandosi di diventare grande, di essere libera, di essere democratica. Era l'America che sprofondava nella miseria, e non conosceva via di scampo; forse soltanto la fantasia, come nel caso di quel pittore francese che in realtà francese non era, e forse neanche pittore. La violenza, per quelle strade, era quotidiana, normalizzata, prevista: come scorciatoia o come necessità.
Scrive l'artista di Salinas, California, misticheggiante, spiegando il senso della sua dedizione: “La parola è un simbolo e un piacere che succhia uomini e scene, piante, fabbriche e cani pechinesi. Allora la Cosa diventa la Parola e poi ritorna la Cosa, ma ordita e intessuta fino a formare un fantastico disegno. La Parola succhia il Vicolo Cannery, lo digerisce e lo espelle, e il Vicolo ha assunto lo scintillio del verde mondo e dei mari che riflettono il cielo” (p. 19). Cosa significa? Significa che Steinbeck sognava di riscattare quella povera gente almeno in letteratura; senza servire nessun partito o nessuna ideologia, questo mi sembra abbastanza pacifico, ma soltanto servendo l'umanità, e l'ideale. È la conferma di un'anima buona, gentile e sensibile, che intendeva mettersi al servizio di quanti non avevano voce, nella sua terra, e intendeva raccontare la loro natura e le loro sorti a tutti i lettori del mondo. Perché imparassero come andavano le cose negli States, perché sapessero che non c'è nessun paradiso e nessuna giustizia diversa da quella che non è di questo mondo; e che tuttavia è possibile domandarla, questa giustizia, e immaginarlo, questo paradiso, perché le generazioni successive possano conoscere qualcosa di diverso.
È stato il primo passo di Steinbeck per questi vicoli, rivisitati qualche anno più tardi in “Quel fantastico giovedì” (“Sweet Thursday”). Senza ombra di dubbio, questo rimane il passo memorabile.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
John Steinbeck (Salinas, California, 27 febbraio 1902 – New York, 20 dicembre 1968), narratore e saggista americano, premio Nobel 1962. Fu pescatore e sterratore, giornalista e corrispondente di guerra.
John Steinbeck, “Vicolo Cannery”, Bompiani, Milano 1963. Collana I Delfini. Traduzione di Aldo Camerino.
Prima edizione: “Cannery Row”, 1945.
Approfondimento in rete: Wiki en
Gianfranco Franchi, settembre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
"Cannery Row in Monterey in California is a poem, a stink, a grating noise, a quality of light, a tone, a habit, a nostalgia, a dream. Cannery Row is the gathered and scattered, tin and iron and rust and splintered wood, chipped pavement and weedy lots and junk heaps, sardine canneries of corrugated iron, honky tonks, restaurants and whore houses, and little crowded groceries, and laboratories and flophouses. Its inhabitants are, as the man once said, 'whores, pimps, gamblers and sons of bitches,' by which he meant Everybody. Had the man looked through another peephole he might have said, 'Saints and angels and martyrs and holy men,' and he would have meant the same thing” (JS).