Nardini
2006
9788840470139
“Dieci leghe si percorrono in fretta, anche su un treno italiano” (Gautier, 1850)
1850. Accompagnato da un amico, Louis de Cormenin, Gautier visita l'Italia; ha quarant'anni e ha guadagnato popolarità per il romanzo “Mademoiselle de Maupin”. Per mantenersi, deve collaborare con riviste e periodici; questo suo viaggio serve per pubblicare qualcosa di nuovo in tempi stretti, e senza eccessiva fatica. Non tutto andrà per il verso giusto; qualche incomprensione con gli editori, molta stanchezza e l'espulsione finale, a Napoli, per reati d'opinione, complicheranno il progetto. Questo volume raccoglie la parte finale del suo viaggio: quella iniziale, composta da numerosi feuilletton, strutturati in dodici capitoli in “Italia” (1852), è stata assemblata post mortem in “Voyage en Italie” (1875). L'edizione esaminata riunisce i tre capitoli conclusivi del “Voyage en Italie” (Padova, Ferrara, Firenze), tradotti per la prima volta in italiano; è stata seguita da “Viaggio in Italia. Da Ginevra a Venezia” (2007), sempre a cura di Annalisa Bottacin.
Nelle prime battute di questi capitoli finali – è un po' contorto ma è così che va spiegato, portate pazienza – del viaggio, Gautier scende dalla gondola veneziana per salire sul treno, diretto a Padova. Medita sulla bellezza dei ragazzi italiani, e sulla stravaganza della natura che sembra proibire ai francesi l'età intermedia tra la fanciullezza e la maturità; quindi, sceso dal treno, superato l'ostacolo dell'invadenza dei facchini e dei cocchieri, noleggia un calesse e va.
Padova – scrive – è una città morta e sembra deserta. Le strade sono tristi, e niente ricorda l'eleganza di Venezia. Non rimane convinto nemmeno dalle sale del Caffè Pedrocchi, che giudica “accademico”, stupendosi che ci sia un bancone e non una cattedra; tollera una mediocre serata a teatro e – l'indomani – va a visitare la cattedrale di Sant'Antonio, genius loci, la Chiesa dell'Arena e il Palazzo di Giustizia. Quanto alle donne padovane, le trova più classiche e severe delle veneziane; più lombarde, nell'aspetto, che lagunari.
Fa tappa a Rovigo, “staccandosi con fatica dal dolce regno lombardo-veneto, cui non manca nulla! Ohimè, eccetto la libertà” (è il periodo austriaco). Il percorso successivo, tra Rovigo e Ferrara, non affascina eccessivamente l'artista: “Non ha nulla di pittoresco, nessun rilievo, campi coltivati, alberi tipici del nord. Pareva d'essere in una circoscrizione francese” (p. 44). Attraversa il Po, all'epoca confine con la Romagna, e smentisce parzialmente la credenza delle interminabili vessazioni dei doganieri italiani; quindi, continua il viaggio in vettura, assieme a due preti – naturalmente ridicolizza il loro aspetto e il loro “costume”: tanto l'abito quanto i comportamenti, disinvolti e spocchiosi – che scendono proprio a Ferrara, andando per la loro strada.
Ferrara – racconta – è una città spenta, che s'erge solitaria su una pianura “più ricca che pittoresca”; primo incontro è “una specie di spettro mascherato di nero, con la testa infilata in una buffa nera, il corpo avvolto in un saio o piuttosto in un domino violetto, orlato di rosso, con una croce rossa sulla spalla, un crocefisso di rame giallo appeso al collo, una cinta rossa, che scuoteva silenzioso un cofanetto di legno, una cassetta portatile per chiedere l'elemosina, che produceva un fruscio di monete” (pp. 46-47).
Spaventati a morte, Gautier e il suo compagno di viaggio versano l'obolo; beneficiario è un penitente della Confraternita della Morte, questuante per i prossimi condannati alla fucilazione. È l'occasione per una rapida digressione sulla pena di morte, che andrebbe accompagnata da opportuni apparati lugubri, a detta dell'autore, perché il supplizio rimanga bene impresso nelle menti degli spettatori. Ironia molto macabra.
Il giorno seguente, al mercato, Gautier segnala la presenza dei cambiavalute all'aperto, seduti tranquilli (per così dire) con tavolino e sgabello in mezzo alla strada, e rileva la presenza d'un sonetto in lode d'un buon dottore affisso su un muro della piazza: l'artista apprezza molto questo uso tipicamente italiano di esprimere pubblicamente la propria riconoscenza.
Ammirato il Castello Estense, mancata la casa dell'Ariosto e la presunta cella del Tasso, s'appresta – frenetico – a partire per Bologna. “Bologna è una città caratterizzata dai portici – scrive – come tante città di questa parte d'Italia. I portici sono comodi per ripararsi dalla pioggia e dal sole; ma trasformano le strade in lunghi chiostri, assorbono la luce e conferiscono alla città un aspetto freddo e monacale” (p. 54).
Dopo la prima cena, ecco uno dei migliori episodi del libro. Gautier e il suo amico escono e vanno a bighellonare per la città, ma si ritrovano alle spalle uno strano tizio, pallido e gonfio, che li segue passo passo. Il tizio si spaccia per guida e domanda d'essere pagato; non se ne va nonostante le prime minacce, e solo di fronte a un paio di bastonate prende e taglia la corda. Ma Gautier non l'ha mica dimenticato:
“Nelle notti insonni talvolta ci assale il rimorso di non avergli fracassato il cranio, ma forse avremmo avuto qualche fastidio, per quella buona azione, e ci saremmo trovati a pagare una zucca al pari di una vera testa. A quei viaggiatori che ha infastidito, chiediamo venia per non averlo massacrato di botte. È una negligenza cui rimedieremo, qualora ci capitasse di ripassare per Bologna” (p. 56) – che dire: superbo.
Bologna proprio non va giù a Gautier: è sbalordito dal numero dei barbieri e dalle egualmente lunghe barbe dei bolognesi; osserva rapidamente le Torri (“sono due monumenti che si sono recati in un'osteria fuori porta e ritornano ubriachi, sostenendosi a vicenda”) e, dopo un breve riposo in uno dei quei grandi letti italiani in cui potrebbero dormire le sette figlie dell'Orco coi rispettivi genitori (testuale), parte alle quattro di mattina per Firenze, dopo aver preso nota d'una prossima esecuzione – altre venti persone, sempre per motivi politici.
Patito il freddo lungo gli Appennini (“la descrizione della nostra sofferenza non ha niente di personale, è tutta filantropica”), superata l'ennesima dogana, poco a poco s'avvicina a Firenze, città che “ha il corsetto annodato da una cerchia di fortificazioni, e fa la difficile quando si bussa di sera alla sua porta” (avrebbe atteso un'ora, per incomprensibili formalità della polizia). Incappa subito in una sinistra scena: due file di spettri neri, racconta, correvano avanti e indietro a un catafalco; si trattava d'una confraternita di penitenti che scortava un funerale. Il cattolicesimo, medita, concepisce la messinscena della morte in modo più elevato e annienta il terrore di simili cerimonie funebri (p. 71).
Assimilata la scena, premiato più avanti dal floreale incontro con due belle ragazze fiorentine, si ritrova casualmente assieme ad un vecchio compagno di viaggio, l'archeologo Eugène Piot, e ad altri artisti: festeggiato l'incontro, parleranno di come si dovrebbe viaggiare per il nostro Paese; Gautier spiega che lui e il suo amico non hanno tempo che per qualche dagherrotipo, per rubare qualche immagine.
L'Arno sarà una di queste. È un torrente, scrive Gautier, non un fiume. Ammirati i ponti, e ricordato l'antico e grottesco incidente del Ponte alla Carraia nel 1304, dopo qualche passeggiata sancisce: Firenze è triste, ha una fisionomia imbronciata e arcigna; è come un'austera matrona (p. 78). Senza Piazza della Signoria non avrebbe più senso: è proprio da quella piazza che dovrebbe cominciare ogni viaggio.
Dopo brevi e non certo o non sempre seducenti appunti su statue e palazzi, e criptiche ( o liriche? Decidete voi) osservazioni sul volto dei fiorentini (“sono moderni (…) un fiorentino può passare inosservato tra i parigini (…) vi è più estro, più senso dell'imprevisto nei tratti degli uomini e delle donne di Firenze; i pensieri e le preoccupazioni morali lasciano sul viso solchi interessanti, e ne sconvolgono le linee schiacciate con una irregolarità che dona all'espressione”, p. 97), osservazioni raccolte alle Cascine, Gautier chiuderà le memorie di viaggio con un velato omaggio a una donna amata.
***
Una scrittura tendenzialmente più prossima a quella frenetica e rabbiosa degli appunti, figlia forse d'una stanchezza abbastanza evidente, è il punto debole e il punto di forza di questo frammento del “Viaggio in Italia” di Gautier; è paradossalmente più realistica e credibile, soprattutto quando si ripiega nello snobismo (memorabili le critiche rivolte al David di Michelangelo) o nella schietta ammissione di mancanza di tempo di fronte a certe omissioni, di altre e più calibrate pagine di viaggio di scrittori d'ogni tempo. Non siamo dalle parti dell'opera destinata ad attraversare la storia, siamo dalle parti di quei reportage giornalistici che assumono, a distanza di secoli e per la popolarità della letteratura dell'autore, altro e diverso interesse. Non proprio estetico, ma storico, documentaristico e sociale senza dubbio.
Forse è un paradosso, ma credo che tra qualche anno conserverò in memoria soltanto il feroce risentimento di Gautier nei confronti della sgradevole guida bolognese, e il ritmo della sua scrittura. Più vicina a quella di un (erudito) cronista che a quella di un saggista. Nervosa, molto, ma musicale. A tratti.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Pierre Jules Théophile Gautier (Tarbes, 1811- Neuilly 1872) poeta, critico d'arte e di teatro, giornalista e narratore francese.
Théophile Gautier, “Viaggio in Italia. Padova, Ferrara, Firenze”, Nardini Editore, Firenze 2006. Traduzione e cura di Annalisa Bottacin. Nota di Marie-Hélène Girard.
Prima edizione: “Voyage en Italie”, Paris 1875.
Gianfranco Franchi, febbraio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.