Rizzoli
2003
9788817106429
Opera compiuta, matura, consapevole? Niente affatto. Questi sono soltanto appunti: pubblicati postumi, e contro la volontà dell'autore. Peraltro, si tratta di appunti scritti per una buona metà da chi (anonimo, o almeno non riconoscibile) accompagnava Montaigne in viaggio. Indicare Montaigne come autore di questo libro è parzialmente fuorviante: non è improprio ma non è del tutto sensato. È una fascinazione suggestiva, ma basta sfogliare il testo per accorgersi che si tratta prima del diario di viaggio (del suo viaggio) del suo segretario, quindi degli appunti di un Montaigne decisamente stanco, interessato, con poche eccezioni, più alla sua malconcia salute e alle cure termali che all'esperienza all'estero. Come in tanti (troppi) dei famigerati libri del Grand Tour tradotti e periodicamente ristampati, è composto tendenzialmente da appunti; è poco più che un diario. Un diario che va considerato campione parziale e provvisorio dell'epoca; utile per aneddotica di carattere sociale, antropologico e culturale in genere. Dal punto di vista letterario, a questo punto è inutile avvertire il lettore che la letterarietà è spesso scadente o nulla e la qualità di certe osservazioni fa tremare i polsi (“Ferrara è più grande di Firenze”, p. 219), altrimenti strappa un sorriso (“mai visto un Paese con poche belle donne come l'Italia”). Per dire: non avrei mai pensato di venire informato della qualità delle coliche di uno scrittore. Montaigne partoriva pietre con una certa facilità, e appuntava tutto metodicamente. Era proprio il caso di farcene partecipi?
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Scrive Giovanni Greco, nell'introduzione: “Il Viaggio in Italia non era destinato alla pubblicazione, e fu scritto in buona parte – poco meno della metà – da un famiglio di Montaigne di cui non ci è nota l'identità, ma che – come acutamente chiarito da Fausta Garvini, esegeta e interprete straordinaria dell'intera opera montaignana – era tutt'altro che sprovveduto dal punto di vista culturale. A partire dal soggiorno lucchese, Montaigne prova quindi a cimentarsi con la lingua italiana, che dimostra peraltro di saper usare con una certa studiata familiarità” (pp. 6-7). Ecco quindi il “Journal de voyage en Italie par la Suisse et l'Allemagne en 1580 et 1581” (1774), rinvenuto da Don Prunis nel 1769, curiosamente mutilo della prima pagina: l'edizione si fonda su un manoscritto originale presto sparito nel nulla, sospettato d'essere apocrifo, e in ogni caso mai nominato da Montaigne nelle sue opere. Nell'ipotesi migliore si tratta di un suo taccuino privato, redatto, come spiegato, col sostegno di un segretario: segretario attento e comprensivo per i ripetuti problemi di salute del maestro, vittima di periodiche e terribili coliche. Un rapido trascrittore di appunti eterogenei. Non me ne vorrete se, nell'articolo, eviterò di dare spazio alle impressioni dedicate alle opere d'arte e ai palazzi; al solito, preferirò quelle di natura antropologica, o di costume puro.
Dopo le prime pagine dedicate alla Francia, alla Svizzera, alla Germania e all'Austria (5 settembre-24 ottobre 1580), condite da appunti sugli alberghi, sulla salute di Montaigne, sui suoi incontri e da brevi note di carattere storico, entriamo nel vivo del viaggio in Italia sin dalle pagine dedicate a Sterzinguen-Vipiteno (25-26 ottobre 1580), Tirolo. Non vi stupirà, ovviamente, leggere che Montaigne la tratta come una cittadina tedesca, a partire dalle osservazioni sul classico pane rotondo, il Paarl; così avviene a Brixe, la nostra Bressanone, di cui ammira il clima e gli alberghi. Tedesca è anche Collalbo-Colman; Montaigne comincia a rendersi conto di aver lasciato la Germania all'altezza di Bolzan-Bolzano: vie più strette e nessuna piazza pubblica ne sono il chiaro segno. Vino in abbondanza a beneficio della Germania tutta e “il pane più buono del mondo” sono quanto rimane della sua permanenza nella città sud-tirolese.
Trante-Trento “ha perso in tutto il garbo delle città tedesche”: quasi due leghe prima di giungervi ha cominciato a sentir parlare in italiano. La città sembra equamente divisa tra le due etnie; quella germanica ha un intero quartiere con relativa chiesa. Da Trento, Montaigne e il suo famiglio devono abituarsi a due innovazioni: le miglia italiane (cinque equivalgono a un miglio tedesco) e le ore, che si contano a 24 per giorno, senza ulteriori suddivisioni (abbiamo dettato una tendenza).
Rovere-Rovereto e Torbole: camere, mobili e vetri sono sporchi: la Germania è proprio finita. Mancano anche le stufe. Il segretario racconta che Montaigne, a dispetto dell'età e degli acciacchi, mantiene un entusiasmo ragazzino, incontro dopo incontro, curioso di conoscere le nuove culture e pronto ad affrontare sacrifici e incomodi. La sua unica paura è che il viaggio finisca.
Verona: sopravvissuto alle locande miserabili che si ripetono sulla strada, da Rovereto in avanti, incappa subito nella primitiva burocrazia italiota; ci informa che senza le “bollette di sanità” procurate a Trento non avrebbe mai potuto far sbarcare i suoi bagagli, nonostante non ci fosse nessun sospetto di peste.
I primi italiani che incontra mostrano stravaganze incomprensibili: parlano durante la messa, le spalle volte all'altare. Incontra gli strani monaci gesuati di San Gerolamo: non predicano, non celebrano messa, ma distillano acqua di fior d'arancio. L'Arena, come sempre (confrontate con quanto scrive Montesquieu, quasi 200 anni dopo), ha bisogno d'essere restaurata: registriamo che “la nobiltà locale se ne serve ancora per tornei e altri svaghi pubblici” (p. 198).
Vicenza (Vincenza): i gesuati protagonisti sempre del commercio dei distillati, qualche rimpianto per i vini tedeschi (nonostante il vino di salvia).
Padova: strade anguste e sporche, locande nemmeno lontane parenti di quelle tedesche, piccole comunità di giovani nobili francesi a un passo dall'italianizzazione. Affitti a buon mercato per gli studenti. Nessuno con la spada al fianco, a differenza di quanto accadeva in Germania.
Bologna costerà poco, proprio come Padova; politicamente, si mostrerà ancora divisa come all'epoca dei guelfi e dei ghibellini originari; là c'è chi parteggia per la Francia, chi per la Spagna. Il dialetto bolognese? “Il peggiore d'Italia” (p. 237).
Venezia: Montaigne è disorientato da qualche scoperta; la prima, che i cittadini non possono avere rapporti di amicizia con gli ambasciatori stranieri; la seconda, che le donne sono decisamente più libere che altrove; molte possono spendere in mobili e vestiti come principesse, mantenute come cortigiane alla luce del sole: nessuna corrisponde alla leggendaria bellezza delle veneziane. Terza, la ressa dei forestieri e il basso costo della vita.
Rovigo: nelle camere mancano i vetri e le imposte alle finestre, come altrove (Siena e non solo) sarà. Le lenzuola sono sporche. La cittadina è comunque graziosa. Ferrara: solite noie alla dogana. Ariosto è morto da neanche cinquant'anni, nel 1533; in una chiesa, Montaigne può apprezzare un suo ritratto. Nelle locande, noie burocratiche (solita questione della “bolletta”, come a Verona).
Firenze: più piccola di Ferrara (!), e forse questo basta a inficiare la credibilità delle osservazioni; tuttavia ci si riprende leggendo che Santa Maria del Fiore è una delle migliori cose del mondo. Montaigne si lamenta degli alloggi e dei vini (perlopiù meno buoni di quelli tedeschi...), dei bicchieri (troppo piccoli; in Germania, troppo grandi), dell'assenza di scuole di valore per la Letteratura (!) della fama di Firenze (è bella come Bologna, molto meno di Venezia): che bruci ancora la perdita francese di Siena (1555)? Probabile, stando a quanto leggiamo della cittadina “non di prim'ordine” Pagine sinceramente mediocri. Montaigne ha da ridire su tutto; incontra posti meravigliosi ma critica la bruttezza di porte, finestre o serrature (“rozze”: p. 227).
Nell'introduzione, Greco diceva che l'approccio di Montaigne mostra un aspetto encomiabile: mostra consapevolezza di non essere superiore a nessuno. Quale libro ha letto il nostro Greco? Di quale Montaigne parla? Sin qua, è un patriota francese curioso di osservare poche cose e con la rapidità di un fulmine, facile al giudizio senza criterio diverso da quello dell'impatto.
Ma il meglio deve ancora venire. Roma: entra da Porta del Popolo, l'ultimo giorno di Novembre, verso l'ora di cena. Le rovine, viste da fuori, sono deludenti: i mattoni sono piccoli e semplici, non lunghi e spessi come quelli che si scorgono in Francia (!). Ma Roma non lo delude: gli ricorda Parigi, e non solo per la moltitudine dei passanti. Divertente pensare che Dickens, trecento anni dopo, esclamerà qualcosa di simile giurando che l'Eterna assomigli a Londra.
Solite beghe di dogana (a Genova c'è la peste: farà 28mila vittime), alloggio gradevole (un po' meglio che a Parigi, scrive: grazie) a dispetto del fatto che siamo “scarsi di biancheria” (p. 232). Come si vive a Roma? Il Rione Monti è ancora tutto un vigneto di cardinali e porporati vari; i furti in casa sono un problema; chi critica lo sfarzo e la corruzione del Papato viene imprigionato; la censura impedisce che il turista porti con sé libri eretici (basta che parlino di Dio in lingua straniera). Non mancano pubbliche esecuzioni – come nel caso del bandito Catena, o di due assassini generici – e relative importanti osservazioni: relative non solo alle dinamiche di omicidio e squartamento, ma al successivo predicozzo dei gesuiti. Stupisce che un nemico della tortura come Montaigne abbia voluto assistervi; meno che abbia voluto assistere all'antico rito ebraico della circoncisione, in altro e sacro contesto.
Il Palio di Roma regala qualche dettaglio meno noto; come la notizia che, al di là dei cavalli, corressero anche ragazzi e adulti, solo per il divertimento del pubblico. Divertimento massimo era la corsa di vecchi ebrei, completamente nudi – peraltro, la comunità ebraica doveva finanziare buona parte del Palio, per antica e discutibile consuetudine cittadina.
Tutto a un tratto, come s'accennava in apertura, Montaigne prende la parola e scrive in prima persona, congedando chi s'era incaricato di trascrivere le sue impressioni e di raccontare quanto stava capitando. La musica cambia: da qui in avanti è tutto un altro libro. Dopo aver raccontato un esorcismo, si sofferma sulla descrizione della sua esperienza nella Biblioteca Vaticana; sfoglia, con emozione, antichi manoscritti e si dimostra sorpreso per non aver avuto nessuna difficoltà nell'accesso ai volumi.
Superata la via Ostiense – la racconta ricca di “grandi vestigia dell'antica sua bellezza – molte ancora in piedi, e numerosi i resti di acquedotti”, immagina che un tempo fosse tutta disseminata di case, da Roma fino a Ostia. Le strade romane, in generale, risultano “trascurate e impraticabili”: la ragione è, secondo Montaigne, l'assenza di manodopera. Roma “è una città tutta corte e nobiltà: ciascuno partecipa come può all'ozio ecclesiastico” (p. 264). Storia vecchia, a quanto pare.
Quaresima; si parla dei predicatori: si va dal rabbino rinnegato che ogni sabato si batte per la conversione degli ebrei, ai soliti gesuiti. Quindi, Montaigne osserva quanto i romani amino passeggiare, e quanta libertà di costume abbiano le signore. C'è tempo per registrare le tecniche di pubblica (e politica) scomunica del papa, l'ostensione della Veronica e l'esibizione della Lancia Sacra, custodita in una teca di cristallo; infine, per annotare la straordinaria presenza di forestieri, e il naturale cosmopolitismo della città.
Passato per Tivoli, Otricoli e Narni, superata – indenne – Spoleto (allora piagata dalla minaccia del brigante Petrino) e Macerata, Montaigne torna a raccontarci qualcosa di divertente all'altezza di Loreto, descrivendo le attività e l'umanità del santuario. Atipica la popolazione di Ancona (greci, turchi e “schiavoni”), smitizzata la bellezza delle donne di Fano (ma va?), scoperto un tratto di Tevere pulito – nel tardo Cinquecento ancora era così – all'altezza di Sansepolcro: “A un miglio dalla città, su un ponte di pietra varcammo il Tevere, che qui presenta le proprie acque chiare e belle, ciò che significa come quel colore sporco e rossastro – Flavium Tiberum – con cui appare in Roma, provenga dalla mescolanza con qualche altro fiume” (p. 310)... non c'è traccia di genialità, né di brillantezza.
La risalita ha avuto inizio: Montaigne passa nuovamente per la Toscana, per Prato, Firenze e per la decaduta Pistoia, quindi per Lucca; e la narrazione va stancamente avanti, puntando più le terme e i bagni che lo spirito degli abitanti, o i loro usi e costumi. C'è qualche rilievo interessante sull'alimentazione, un tiepido e sintetico amarcord pisano della processione dell'anello gettato in mare – già all'epoca decaduta – e poco altro di degno di memoria: lo scrittore francese sembra divertirsi a scrivere in italiano, facendo avanti e indietro tra una e un'altra città, fin quando, dopo circa un anno e mezzo, varca l'ennesimo confine e ritorna in Francia. Destinazione, casa Montaigne.
Chi ama Montaigne gradirà, forse, questa dimensione eccezionalmente intima e privata della narrazione; chi cerca documenti storici e letterari sulla storia del nostro popolo, e sulla qualità delle interpretazioni delle condizioni di vita e della cultura dei nostri concittadini, rimarrà – come spesso accade in questo particolare genere letterario – discretamente deluso.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Michel de Montaigne (Bordeaux, 1533 – Saint-Michel de Montaigne, 1592), filosofo, scrittore e politico francese.
Michel de Montaigne, “Viaggio in Italia”, BUR, 1956 Milano. Traduzione e note di Ettore Camesasca. Introduzione di Giovanni Greco. Include testimonianze e giudizi contemporanei sull'attualità di un grande pensatore europeo; cronologia della vita e delle opere di Montaigne; bibliografia essenziale; nota del curatore; repertorio dei nomi di persona e geografici.
Prima edizione: “Journal de voyage en Italie par la Suisse et l'Allemagne en 1580 et 1581”, 1774
Gianfranco Franchi, febbraio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.