Viaggio in Italia

Viaggio in Italia Book Cover Viaggio in Italia
Guido Piovene
Baldini Dalai
2007
9788860731449

“Purtroppo lottiamo in Italia non solamente contro alcune necessità, vere e presunte; ma contro il modernismo rozzo, il gusto della distruzione, la volgarità presuntuosa e volontaria. Vi è chi distrugge il bello per sentirsi meglio e per mettere il mondo in armonia con se medesimo; ognuno ritrova la pace della coscienza come può” (“Viaggio in Italia”, 1953-1956. In “Bergamo”, p. 159 edizione Baldini Dalai, Milano 2003)

“Comincio questo viaggio d'Italia senza preamboli. Parto dall'estremo Nord, con l'intento di scendere fino a Pantelleria regione per regione, provincia per provincia. Sono curioso dell'Italia, degli italiani e di me stesso; che cosa ne uscirà, non saprei anticiparlo. Bolzano, come tutti sanno, è città di fondo tedesco...” (Incipit del “Viaggio in Italia” di Piovene, p. 9).

“Inventario delle cose italiane” commissionato dalla RAI (e dagli alberghi Jolly? Quanta pubblicità...) al giornalista e scrittore Piovene, reduce dal notevole reportage “De America”, questo straordinario “Viaggio in Italia” racconta quanto vide l'artista vicentino tra maggio 1953 e ottobre 1956: negli anni in cui Trieste era appena tornata italiana, in cui la Basilicata si chiamava nuovamente Lucania, in cui si viveva quello che oggi viene considerato “boom economico”, restaurando e ricostruendo una nazione distrutta dai bombardamenti aerei e ridotta in miseria dalla lunga, rovinosa guerra. È un documento storico-letterario e storico-sociale di grande valore: “Piovene riesce” - leggiamo nella nota introduttiva dell'edizione Baldini-Dalai del 2003 - “come un antropologo, a far emergere dal suo viaggio il carattere nazionale, quello immutabile, che resiste alle mode e ai rovesci della storia. I guai, i vizi, i nodi di quell'Italia di quasi quarant'anni fa sono alla fine gli stessi di ora, cioè di questi giorni, convulsi e tormentati”. È davvero un contributo brillante e profondissimo, quello di Piovene: un neo-grand tour scritto con garbo, misura, intelligenza, empatia e trasporto. Non mancano penetranti rilievi sui primitivi contrasti tra Governo e Regioni, oscuro presagio di quel che sta per succedere nella futura – parrebbe – Repubblica Federale.

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Piovene mescola osservazioni demografiche (impressionanti: Bolzano passava da 19mila a 80mila abitanti in trent'anni, negli anni Cinquanta; Trieste dai 3000 di metà Settecento ai 300mila del 1953) a rilievi antropologici, architettonici, occupazionali, letterari, editoriali, industriali, politici: il tutto, inframezzato da descrizioni di singolare bellezza. Raccontare tutto questo libro – oltre novecento pagine – è sostanzialmente impossibile. Mi limito a campionare gli aspetti più appassionanti, curiosi, atipici, e quelli meno noti. Non saranno pochi, vi avverto; e tuttavia non varranno che come campionatura.

Per prima cosa, Piovene porge omaggio, periodicamente e con sincero dolore, alle città massacrate dalla guerra: io provo anche solo a nominarne alcuna. Così, un bel giorno, invece di parlare di “boom” economico, parleremo – più correttamente – anche di “restauro”: da tutti i punti di vista; economico, architettonico, sociale, antropologico. La nostra nazione fu restaurata da cima a fondo, ferita com'era nelle sue bellezze artistiche e nel suo orgoglio.

Terni fu una delle città martiri: “101 bombardamenti aerei, oltre alle distruzioni dei tedeschi in ritirata (…). Naturale che Terni non abbia più l'aspetto, consueto nell'Umbria, di città d'arte” (p. 345). Foggia fu pressoché distrutta dai bombardamenti aerei: 18mila i morti (p. 757). Viterbo: il 43 percento delle case distrutto, oltre l'80 percento danneggiato (p. 803). La fortuna ha voluto che il medievale quartiere di San Pellegrino restasse integro.

Ancona: i bombardamenti distrussero il 74 percento delle abitazioni. Cambiando in parte il suo aspetto (p. 520). Peggiore tragedia, quella degli 800 bambini intombati dentro un rifugio con le suore che li sorvegliavano, e non più dissepolti. State immaginando? State ricordando?

Treviso, “devastata”: “molte orribili case sono sorte nei vuoti lasciati dalle bombe”, ma la città è sempre bella (p. 45). Verona subì più di trenta bombardamenti aerei, “che sconvolsero le stazioni, e misero a terra un complesso d'industrie già bene avviato” (p. 84). Firenze ha visto distrutti dai tedeschi tutti i ponti sull'Arno, pazientemente ricostruiti; vennero fatti saltare due antichi quartieri posti ai capi del Ponte Vecchio. Pavia ha perduto il ponte di legno sul fiume Ticino che era, “con quello di Bassano, il più bel ponte popolaresco d'Italia” (p. 118): è stato ricostruito “deturpandolo per ragioni pratiche”. Livorno, “devastata dai bombardamenti, al termine della guerra conservò poche case intatte: chi vi si recò allora, ebbe l'impressione di entrare in una città terremotata. La ricostruzione è avvenuta: ricchi edifici, spesso di stile strano, sono scaturiti in gran numero, alternandosi a tratti ancora demoliti o mezzo in rovina (…). I nobili quartieri settecenteschi e ottocenteschi, straziati dai bombardamenti e perduti senza rimedio, veleggiano come spettri (…) L'aristocrazia ebraica è in buona parte emigrata in America” (p. 409).

Cagliari è “risorta dai bombardamenti bellici” (p. 697). Pisa monumentale fu danneggiata dalla guerra: “dai bombardamenti aerei e più ancora nei 40 giorni in cui fu campo di battaglia (…) In parte irreparabili sono purtroppo i danni subiti dal famoso camposanto gotico che sorge presso il Duomo (...)” (p. 415). Napoli è stata quella più ferita nel lato monumentale, pur senza irreparabili fatalità come la distruzione degli affreschi del Mantegna a Padova o del Gozzoli a Pisa (p. 457). E ancora: Avellino, “più volte devastata” (p. 487). Nel Molise, ultimo per il reddito tra i territori italiani, si dovette ripartire praticamente dal nulla (p. 573). Isernia fu semidistrutta.

Nel bolognese, 7000 case coloniche rase al suolo, 7000 distrutte a metà; morti oltre 140mila bovini (erano 240mila prima del disastro), minati decine di migliaia d'ettari (numerosi agricoltori vi perdettero la vita: p. 280).

L'Abruzzo è stato secolare martiri di terremoti (p. 558): Piovene parla di “oasi sfuggite ai terremoti” già allora. Avezzano fu rasa al suolo nel 1915 da un sisma che massacrò 10mila dei 12mila abitanti. Quindi, vennero i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, micidiali. Storia simile a quella di Messina, in Sicilia: rasa al suolo dal terremoto nel 1908, distrutta una seconda volta dalla guerra (p. 579). Catania fu “sconvolta dai bombardamenti bellici, non solamente aerei ma anche navali” (p. 604)

La città rimasta più intera è Siena: “una città del Medio Evo” (p. 382). Secondo Piovene, c'è una Siena anche a Sud: Matera (p. 747). Molte altre città dovrei nominare, come Roma, Trieste; ma sospetto che l'elenco – pauroso – possa e debba terminare qui. Proviamo ad andare oltre. Ma non dimentichiamo.

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Adesso, qualche battuta memorabile: a parlarne, i capitani di industria di allora. Vittorio Cini così stigmatizzava noi italiani d'antan: sentite se il discorso vi torna famigliare: “Tutti dicono: a me va bene; oppure male; gli altri non mi riguardano. Manca dovunque il sentimento del lavoro in comune; la coscienza che il bene degli altri è il nostro bene; che il male degli altri finisce con l'ingoiare chi si sente al sicuro. È il difetto italiano, ma oggi si è molto aggravato” (p. 38). Quasi sessant'anni fa, e l'aria non è cambiata. Affatto.

E invece il conte Oreste Rivetti, da Biella, aveva una gran voglia di prendersi gioco di chi parlava di crisi: “Idee politiche? Io non ne ho. Quelle deve averle il Governo. Vedo il mio piccolo settore, tocca al Governo veder tutto. Crisi? Ma sì, tutti dicono che c'è la crisi. Io invece dico che non c'è. Io lavoro a pieno regime, cerco operai e non li trovo. Tutti oggi sono professori, avvocati, dottori. Questa è la disoccupazione. Tutti hanno la lambretta, la vespa o addirittura l'automobile. Troppo poco lavoro, questo sì, troppe ferie. Mica per me. Io lavoro da mattina a sera. Cosa si fa in Italia? Si passa da una feria all'altra (...)” (p. 208). Certo. Caro, vecchio spirito settentrionale.

Mario Piaggio, ligure, insegnava: “Gli operai, bisogna trattarli bene, ma restando padroni. I nostri rapporti con le maestranze per esempio sono ottimi. Duri sì ma leali, non falsi e demagogici. I rapporti diventano cattivi quando il padrone si traveste ed entra in una gara di demagogia” (p. 219).

E pensare, allora, che in certe industrie (Ansaldo) a guerra finita non ridussero il personale, ma lo aumentarono: “Sul criterio economico prevalse quello demagogico: l'industria come istituto di beneficenza per tacitare la piazza” (p. 232)

Opere pubbliche? Uno sfacelo antico. Si parla di Calabria, e Piovene la definisce un “cimitero d'opere pubbliche” (negli anni Cinquanta!): “arrestate a metà, quando il denaro dello Stato finiva. I resti delle opere pubbliche, ringoiate dalla natura, sono variamente detti accampamenti abbandonati, rottami di un naufragio, sfasciume di miliardi” (p. 658). Insomma: storia vecchia.

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E adesso facciamo un giro d'Italia per curiosità, aneddoti, divertissement. Partiamo proprio dall'amato Veneto, madrepatria di Piovene. Sentite qui: ancora non c'era traccia della Liga Veneta...

“Mi chiedo poi cos'è il Veneto per i veneti. Rispondo che la loro terra per i veneti è una verità. Essa non ha nulla a che fare col sentimento nazionale, né per associazione né per contrasto. È una verità in più, di natura diversa. Non è politica, né attiva, ed infatti nel Veneto non c'è traccia di separatismo. (…) Il Veneto è una potente realtà della fantasia, che non dà noie al Parlamento” (p. 23).

E ancora: “La civiltà del Veneto è piuttosto sentimentale, che significa appagamento e delizia in se stessi, affondamento voluttuoso nella propria natura, rifiuto di accettare l'infelicità e riconoscerla; e perciò scarsa inclinazione a mutare. Non per nulla la civiltà veneta è soprattutto coloristica, architettonica ed idillica” (p. 25)

Piovene ricorda – tra le tante perle – che a Venezia i cittadini vanno a piedi, di solito, non in barca. La gondola, per loro, è troppo lenta e costosa. Già negli anni Cinquanta ne erano rimaste 450, contro le 10.000 degli anni belli. A latere, intuisce che la città si sarebbe spopolata presto, perché era eccessivamente caotica e si avviava a diventare invivibile: per questo, sostiene che sarebbe stato fondamentale uno sviluppo delle industrie costiere, e di Marghera. Mestre giocherà un ruolo ben diverso. Ribadiva che Venezia e la laguna avevano bisogno del sostegno della terraferma. È accaduto.

Passiamo al Friuli-Venezia Giulia. Troverete pagine dedicate alla tragedia di Gorizia, divisa in due dal muro (pp. 67-68), occupata dagli slavi; camminerete per una Trieste in cui il Castello di Miramare deve ancora essere riaperto al pubblico, perché da due mesi soltanto la nostra amata città è tornata all'Italia:

“Poco più di due mesi sono trascorsi dal ritorno di Trieste all'Italia che ha portato quasi al delirio il popolo triestino. La sua accoglienza, dicono i testimoni, è stata superiore a quella del 1918, anche perché si scaricavano in essa anni di paura. (…) Una vera e durevole conquista di Trieste all'Italia comincia adesso, e la si compie ricordando che Trieste è italiana, non però uguale alle altre città italiane” (p. 70). In tanti, soprattutto tra gli economisti, piangono la perdita dell'Istria: si sentono minacciati da una successiva perdita di identità, da una possibile decadenza morale. Tutte cose avvenute.

Sloveni a Trieste? Con buona pace di Pahor, “Si direbbe che gli sloveni abbiano la virtù naturale di mimetizzarsi (…). Le infiltrazioni clandestine degli sloveni in Trieste città sono state argomento di polemiche e di paura. Comunque sia, traccia di colore sloveno non si avverte in Trieste. La città è veramente tutta italiana. In essa gli sloveni sono un modesto sottobosco di piccoli commercianti, garzoni di bottega, domestiche, lavandaie. Il conflitto razziale è perciò fomentato da quello di classe” (p. 77). In ogni caso, Piovene non ha nessun intento razzista; sostiene che l'italianità di Trieste si difende ribadendone il carattere di metropoli borghese cosmopolita (p. 78). Insomma, sì alla Trieste di Cergoly, del sì del da del ja, ma cum grano salis.

Più bella città del FVG? Sorpresa: Cividale. “Non so quanti italiani la conoscano (…) conserva l'impronta longobarda più di Pavia, con le viuzze a labirinto. E pochi, tolti gli eruditi soprattutto stranieri, conoscono il museo stupendo e stupendamente ordinato; sculture di scavo, gioielli, croci, stoffe barbariche, mosaici, codici miniati” (p. 64). Come se non bastasse, da quelle parti si può ascoltare il canto aquileiese, anteriore al canto gregoriano.

Altre curiosità sparse. Sapevate, ad esempio, che in Alto Adige il fascismo non gradiva che gli austriaci indossassero le calze bianche, secondo il costume locale, perché le giudicava provocatorie? (p. 12). E che Milano, “l'unica città d'Italia in cui non si chiami cultura soltanto quella umanistica” (p. 102), “non è meno bella delle altre città italiane?” Possibile? (p. 89). Forse perché “La Lombardia è bella ma non estetica, la bellezza vi nasce dalla praticità, che spesso prende la mano e diventa ottusa. Il bello in Lombardia sorge contro progetto e contro voglia” (p. 138).

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Le scuole di apprendistato sono nate a Parma (p. 254): vennero subito imitate da Reggio Emilia e Modena. Qualche disparità curiosa: in Piemonte, un asilo ogni 1500-1800 abitanti, in Calabria e Basilicata ogni 7-9000 (p. 452).

Il migliore sale del mondo? È quello trapanese (p. 652).

Camerino? Finalmente ha perso la fama di università per quelli che vogliono laurearsi senza studiare (p. 528). Cinquant'anni dopo, come sappiamo, la prestigiosa facoltà avrebbe conosciuto la pornofama.

La vera maschera di Bergamo è il Gioppino, non Arlecchino (pp. 163-164). Negli anni Cinquanta Torino non è ancora la città delle macchine, ma la città dei sarti: vanta un'industria tessile con 100mila dipendenti (p. 175).

Qual è la regione più simile alla Scozia e all'Irlanda, “romantica” e “stregata”? Il Molise (p. 569 e ss.), terra di eccellenti e fedeli soldati.

Altro che San Gennaro: in campania tende a liquefarsi il sangue di diversi santi. Prima di tutte, Santa Patrizia, nel convento di San Gregorio Armeno (p. 432).

Altro miracolo: “Napoli è la città in cui, secondo le statistiche, si commettono meno furti. Diffuso è solo il furtarello, che serve a campare un giorno in più” (straordinaria, devo dire, questa distinzione. Cfr. p. 438)

Uno degli ultimi grandi burattinai italiani era emiliano, si chiamava Italo Ferrari, era nemico delle marionette, le giudicava meccaniche (p. 255): il burattino invece prendeva vita da un avambraccio di un artista. Era – per questo – vero.

Vita notturna? All'epoca, Bologna era protagonista (p. 287). In compenso, “ancora nell'anno 1955 si può chiedere a Napoli la colazione al ristorante alle cinque del pomeriggio o il pranzo alle tre di notte, senza che nessuno giudichi la richiesta poco normale. Vige ancora, specie nel medio ceto professionale, l'abitudine del pasto unico, a metà pomeriggio, al termine del lavoro” (p. 430).

Miglior manicomio? Volterra: “tra i migliori e i più umani d'Italia (…) Un numero notevole di ricoverati innocui gira perciò le strade confuso con la gente sana. Vige a Volterra una fiducia, che credo unica nel mondo, di fronte ai malati di mente (…) Potrebbe essere un soggetto letterario potente” (pp. 398-399). E poi venne la Basaglia.

A Savona, c'erano delle impiegate speciali: toglievano il nocciolo alle ciliegie sotto spirito, si chiamavano sssciancapegulli (con tre “s”: p. 229).

Un solo agrume cresceva a Reggio Calabria e non in Sicilia: il bergamotto (p. 686 e p. 692).

Ricordate ancora che il territorio del “vero Bellunese” era, soltanto cinquant'anni fa, una delle zone più depresse d'Italia? “Da sempre – scriveva Piovene – qui serpeggia uno spirito nomade, in cui s'insinua il pittoresco popolare del Veneto: le donne vestite di nero con una grande gerla piena di utensili domestici, i mercanti di stampe sacre, gli arrotini ambulanti. Le industrie allignano a fatica” (p. 22).

Città celebre per gli scherzi era Ravenna. “Vi è una diversità tra lo scherzo emiliano e la beffa toscana – scrive Piovene – che lasciò tanta traccia nella nostra letteratura. Più sanguigno e più fisico, lo scherzo emiliano è uno sfogo controllato della violenza; la beffa toscana, invece, è di qualità più mentale, ha come sottinteso lo scherno e il disprezzo, per fine l'umiliazione” (p. 306). Se vi incuriosisce chi ha inventato la pernacchia, domandate pure ai discendenti dei Sanniti, a Benevento (p. 495), poi capitale delle streghe, guidate da un diavoletto, il martinello (pp. 503-504).

Si leggeva sempre poco, in Italia. Una statistica “eccezionale” per l'Italia meridionale era quella di Catanzaro, dove si vendevano 3000 copie di giornali e riviste al giorno (p. 675).

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Tra gli omaggi letterari: Umberto Saba (Trieste), che si lagna d'essere malato, ma d'infelicità: “La mia sciagura è di essere nato di temperamento idillico in una città tragica” (p. 73), Paolo Monelli (Modena): “Modenese è Paolo Monelli, con la sua prosa pregna di sughi e degli odori di una buona cucina, e insieme capricciosa, paradossale, umoristica e dotta” (p. 265); Enrico Pea (Lucca): “Si può trovare ancora Enrico Pea, genius loci di questa zona, a un tavolino di caffè, la grande barba bianca affondata in un manoscritto; egli infatti scrive al caffè, come già Bernanos in Francia” (p. 422); Gaspare Invrea, alias Remigio Zena (Genova): “La gracile letteratura narrativa di Genova ha dato, con 'La bocca del lupo' di Remigio Zena, un buon romanzo di vita popolaresca; Venezia non l'ha dato mai” (p. 220). Cesare Angelini (Pavia): “Un esempio di letterato umanista italiano, di quelli che hanno cercato di conservare viva una tradizione arcadica e un po’ provinciale della letteratura inserendovi le ricerche degli scrittori nuovi e delle riviste di punta; ultimi sprazzi ed estreme difese dell’umanesimo letterario nel senso antico. Giudicavo Angelini un buono scrittore, ma non privo di leziosaggini, troppo leccato e letterario. Ed ecco, al contatto della persona, abbandono i luoghi comuni e lo vedo com’è davvero. Mi accorgo che è soprattutto un prete. Quest’uomo piccolo, magro, mobile, gaio, che fuma quasi quanto me, così lombardo per buon senso, ingenuità, sincerità e ottimismo, vive la letteratura come una festa cristiana. Il suo modo di invitare a mensa è pari a quello di accostarsi alle lettere. (…) Ha il sentimento della letteratura come festa evangelica, e quasi il misticismo della parola come cibo migliore (…)” (pp. 125-126).

Piovene saluta l'ultimo scrittore di Cesenatico, Marino Moretti, “maggiore scrittore romagnolo vivente (…), ultimo di una serie scomparsa” (p. 318). Visita la più grande biblioteca privata raccolta da uno studioso italiano, quella di Croce, a Napoli (p. 445), e quella di Leopardi, nelle Marche (trentamila volumi in tutto, p. 526).

Incontriamo Mondadori – il pioniere dell'editoria lombarda, sbarcato povero e giovanissimo nella grande città – e la casa editrice Guanda, “che ha introdotto in Italia, in forma criticamente impeccabile, i testi e le versioni della grande poesia straniera meno divulgata” (p. 252). E pensate che disgrazia deve avere avuto l'editoria toscana, invece, se allora a Firenze soltanto c'era “una gloriosa raccolta di case editrici: Sansoni, Le Monnier, Barbera, Olschki, Alinari, Salani, La Nuova Italia, La Libreria Fiorentina e altre: studiose le une, le altre popolari, antiquarie, o cattoliche (…). La Vallecchi rimane la casa editrice maggiore per la letteratura d'oggi, intenta alla scoperta di autori giovani e alla divulgazione di opere di qualità” (pp. 372-373). A Bari, come sempre c'è la Laterza, “uno dei pilastri della nostra cultura”: Piovene medita pensando che vende 50 copie l'anno di Aristotele, e suppone che alcuni insegnanti di filosofia si accontentino quindi di conoscerlo indirettamente (p. 771). Proprio come oggi.

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Politicamente, straordinario l'omaggio dedicato a Giorgio La Pira: “Vede la cultura, nel suo scopo profondo, come opera di carità. Poca differenza dunque egli scorge tra gli annuali convegni teologici della Pace Cristiana e le sue principali preoccupazioni di sindaco, che sono: il lavoro ai disoccupati, le case ai senza tetto, il latte ai bambini, il ricovero ai vecchi, l'assistenza ai carcerati, le scuole, i giardini e magari i concerti in piazza. La funzione di sindaco è sentita da lui come caritativa (…). Rende conto ai poveri della propria amministrazione; del latte giornalmente elargito ai bambini e ai vecchi (…) Si sa che abitava in una cella dei domenicani a San Marco, ed oggi, non potendo più conciliare la funzione di sindaco con l'orario del convento, in una clinica di Firenze; che distribuisce i proventi di professore e l'assegno di sindaco ai bisognosi; che non possiede nulla” (p. 367)

Contraltare partitico di La Pira è Lauro, a Napoli: contraltare partitico, ma non politico. “Il criterio comune è di beneficare il popolo; il primo in forma caritativa e cristiana, con ardore apostolico. L'altro in forma regale, da gran signore, donatore e ministro degli spettacoli, secondo la tradizione partenopea” (p. 440).

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La parola “Padania” non è un conio di Bossi o di Sgarbi. Qui si riferiva semplicemente a una “terra ideale ma amata quasi come patria da quelli che vi nacquero o vi abitarono a lungo (…), con le sue cattedrali barbariche e le sue officine” (p. 89). Ragionevolmente, è circoscritta alla pianura Padana.

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Volevo scriverne, non sapevo come. Un anno dopo la prima lettura, avevo conservato una montagna di appunti, glosse, notarelle. Questo libro si è rivelato prezioso e – devo dire – costituisce uno dei più bei regali che potete fare a chi vuole studiare un po' di cultura italiana e un po' di colore dei nostri tanti campanili. Sono passati cinquant'anni, ma l'essenza è intatta; certe questioni politiche sono mutate, ma non sempre sono risolte. Prima di partire per un viaggio, sfogliate questa guida. Vi divertirà, vi aiuterà a vederci più chiaro, vi spingerà a cercare qualcosa che non cadrà vittima del gorgo delle mode. La grande arte, e la grande cultura: popolare.

Un must, assoluto.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Guido Piovene (Vicenza, 1907 – Londra, 1974), giornalista, scrittore e critico letterario italiano, discendente da antiche famiglie aristocratiche. Esordì pubblicando la raccolta di racconti “La vedova allegra” (Torino, 1931). Si laureò in Filosofia con una tesi sull'Estetica di Vico.

Guido Piovene, “Viaggio in Italia”, Baldini Dalai, Milano 2003. In appendice, gigantesco indice dei nomi.

Prima edizione: 1957.

Gianfranco Franchi, ottobre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.