Fratelli Frilli
2013
9788875639266
“Il mio lavoro è scrivere articoli per due milioni e centomila lire al mese facendo spettacolo e tragedia di qualsiasi cosa, anche di un pomodoro che è caduto dal terzo piano e ha fatto splash sul selciato, anche di una madre che ha perso tre dei suoi tre figli in un incidente”. (Fabio Beccacini, “Via del campo”, capitolo sedici)
Esordio d’un giovane narratore italiano, Fabio Beccacini: il suo romanzo breve, “Via del Campo”, è un noir convulso e d’immediata accessibilità, contraddistinto da una particolare attenzione al parlato e dai prodromi di una contaminazione tutta postmoderna; una sintesi tra il fumetto, il cinema di genere, la letteratura d’un Sepulveda del “Diario di un killer sentimentale” o di un Pinketts. Come ogni opera prima, questa è contrastata e contraddittoria; si alternano sprazzi di buona narrativa a ingenuità e pleonasmi; la sensazione, comunque, è quella di avere tra le mani il libro di un romanziere certamente promettente e divertente, capace di variare forma espressiva e di svelare progressivamente la trama, senza cedere al narcisismo e senza concedere precipitose anticipazioni.
Un cronista di nera, Lorenzo Zingaro, abbrutito dagli alcolici e confuso da varie sostanze chimiche, si trova a investigare sul misterioso e barbaro omicidio della giovane Elena Corso, trovata morta in Via del Campo, non distante dalla sua stessa abitazione. Il redattore Mainardi (omaggio al pittore?) invita Zingaro a scrivere un pezzo dei suoi, aggressivo e pretestuoso, per il giornale. E si avvia una storia di morte e d’amore, certamente anticonformista e naif, tra pura sensualità e abbandonismo, malinconia e disperazione, silenzio e mistero: una storia dal ritmo rapido e incalzante, quasi una traduzione del sincopato d’un videoclip.
Si registra una curiosa discrepanza nel tono delle descrizioni: si va da slanci piuttosto felici, come ad esempio: “Sté prese quattro bicchieri sbreccati dalla credenza rosa e li posò sul tavolo. Acciottolio”, o ancora “Le gocce pendono laconiche, poi senza far rumore cascano dai tetti e si coricano a terra. Sugli obsoleti disegni della strada, ricami di un antico transito di mercanti, l’acqua si ferma casualmente perdendosi o raggruppandosi in piccole pozzanghere”, dove sembra di assistere ad una incarnazione dei versi nella prosa, a inspiegabili cadute di stile. Per esempio, “Allora avanzo come uno zombie lungo la stanza fino alla consolle della sala attraversando il corridoio come la merda nei tubi, tirando spallate a destra e a manca, camminando per mutuo contrasto contro le pareti”, o ancora “I magrebini sul porto prendevano lesti la via del ritorno, come i cani e i topi anche loro si accorgevano subito degli eventi meteorologici”: qui si accostano i magrebini alle pantegane, probabilmente c’è qualcosa da rivedere e da limare. L’autore, giustamente, non è d’accordo, e afferma: “La frase ‘i magrebini sul porto...’ non ha nessuna intenzione razzistica, l'accostamento con l'istintività (e solo con quella) dei cani e dei topi sarebbe lo stesso se fossero cinesi o canadesi. Il fatto che lì siano magrebini è solo una descrizione.”
Perplessi si rimane di fronte a una frase come “Quando guardò l’orologio da polso con un lampo di sguardo”: al di là della superflua specificazione “da polso”, a meno di non voler congetturare la presenza di un orologio da taschino, stona molto l’accostamento “guardò-sguardo”.
C’è spazio per il non sense:“Le luci anabbaglianti tra i guard-rail della sopraelevata addrumavano la notte come bucando la tela di un quadro”: il recensore ammette la propria totale incapacità di interpretare la forma “addrumavano”, si attendono lumi dall’autore. Ecco la spiegazione: "'addrumare' è una specie di slang che qui da noi si usa e deriva da una storpiatura del tabacco olandese ‘drum’ e ha preso svariati significati come ‘addrumare’ per ‘girare, fare, una sigaretta con le cartine’ a ‘sdrumare’ per ‘sbriciolare il fumo per una canna’: dunque, ‘le luci (...) addrumavano la notte’ sta per ‘giravano’ la notte, ‘facevano’ la notte”.
Tre inserti, in particolare, si stagliano nell’altrimenti omogenea struttura narrativa: un frammento tratto dal diario della ragazza del protagonista(buona l’attenzione a certi vezzi tipici della scrittura diaristica adolescenziale: dalla traduzione numerica del verbo essere, “6” per “sei”, alla strana sovrapposizione di segni d’interpunzione, “?!”, o “!?!”), di stile e tono piuttosto artefatto; un interessante e credibile estratto d’un referto d’autopsia, molto ben curato; un grottesco e crediamo satirico articolo di cronaca nera, che si conclude addirittura in prima persona: “Io sono un giornalista, più di questo non so scrivere. Trovatelo(…)”. L’idea di integrare queste “altre prose” all’interno del romanzo è molto interessante: tuttavia, se l’intenzione è da plaudire, si deve pur ammettere che è soprattutto l’articolo giornalistico a traballare, e nella forma e nello stile; una maggiore fedeltà ai toni ridondanti e odiosetti della cronaca nera, senza cadere in una deformazione kitsch, sarebbe stata preferibile.
Beccacini, in proposito, sostiene che “L'articolo di cronaca nera è volutamente ‘costruito’, forzatamente fuori dai canoni del giornalismo, proprio perché deve essere sintomo del particolare stato d'animo dello Zingaro, nonché il motivo per cui il maresciallo si sarebbe dovuto accorgere del cronista. Ammetto che è un po’ una forzatura, non so se riuscita o meno: ma è certamente voluta”. Ancora da segnalare una riuscita campionatura di un fenomeno ancora inesplorato: i graffiti nei bagni pubblici(capitolo quattordici). In conclusione, mi sembra molto apprezzabile la sensibilità dell’autore al polimorfismo della comunicazione scritta: da questa sensibilità potrebbero derivare futuri promettenti esiti espressivi.
C’è una certa ossessiva concentrazione sui marchi: vengono nominati, tra gli altri, in maniera a volte piuttosto gratuita, Martini, Lucky Strike, Levis, Nutella, Volvo, Zoppas, J & B. Non sempre sembra che l’intento sia ludico o critico: a volte si ha la sensazione che si tratti di pleonastica didascalia. C’è qualche omaggio letterario (Kerouac e Lucarelli); ovviamente, considerando titolo e ambientazione, c’è più di un piccolo tributo alla grande tradizione cantautoriale (De Andrè).
Nel complesso, un piacevole romanzo di genere; ancora piuttosto grezzo, ma certamente fluido e scorrevole e promettente. Il tempo di lettura è molto breve; la storia diverte e appassiona, nonostante qualche cliché e qualche ridondanza (solita insistenza su alcolici e spinelli, che sembra essere la prima compagnia di molti dei personaggi dei nuovi narratori).
L’ambientazione è fascinosa e decadente; i lettori più attenti alla narrativa giovanile ricorderanno, a questo proposito, il buon esordio dello scrittore Enrico Ratto, con il romanzo “Vicoli”, apparso qualche anno fa per i tipi della Fratelli Frilli Editori di Genova. Beccacini merita d’essere incoraggiato: raffinato e sgrezzato dalle letture e dall’esperienza, se saprà mantenere questa facilità di narrazione e questa particolare immediatezza, potrà certamente avere fortuna.
“Io invece guardo un culo così e vedo strade, case, tramonti, eclissi, deserti, organi, amplessi, intestini, cervelli, manicomi, donne, uomini, ospedali, denaro, voglia, religione, Dio, Maometto, Tom e Jerry, guerra, vedo tante di quelle cose che se alla fine non mi sveglio, o mi son già venuto nei boxer, oppure ritrovo quel culo sulle ginocchia più scaltre di qualcun altro” (Beccacini, “Via del Campo”, capitolo diciannove). Veniamo adesso ad una breve intervista con l’autore.
G.F. “Beccacini è un narratore di genere, o un narratore che esordisce con un libro di genere?”
F.B. “Io credo che un narratore sia semplicemente uno che racconta delle storie. A volte le storie possono rientrare in un genere e a volte no. A volte entri in una stanza e immagini che lì ci sia stato un omicidio, che il fermacarte sulla scrivania è servito a ben altro che a tener ferme le fatture, allora scrivi un giallo. Altre volte invece ti siedi e ti fumi una sigaretta, o racconti la tua vita. Non è forse così importante”.
G.F. “Può esistere un lettore ideale del suo romanzo? Scrivendo ha forse immaginato un destinatario ideale? O ritiene altrimenti che non si debba parlare di lettore ideale per la narrativa, o almeno per la sua narrativa?”
F.B. “È difficile scrivere per un lettore ideale a meno di non voler fare un’operazione puramente commerciale. In genere il percorso è inverso: è il lettore che ‘decide’, dall’odore, a naso, il suo libro ideale”.
G.F. “Nel suo romanzo si avverte una grande umanità e una grande desolazione: nei momenti di maggior decadenza, si ha la sensazione che i personaggi vivano ai margini del sistema, isolati; ma che non sia questa ragione di orgoglio, ma di malessere. È d’accordo?”
F.B. “Senza il minimo dubbio. I personaggi di Via del Campo vivono ai margini del sistema perché sono alle strette. Perché qualcosa che nella loro vita è andato storto. Non perché l’hanno scelto”.
G.F. “Quanto incide il desiderio di provocare, di evitare dogmi, stilemi e dettami della letteratura ‘alta’, nella sua creatività?”
F.B. “Direi poco o niente. Quando succede è un fatto puramente istintivo”.
G.F. “Si registra, in “Via del Campo”, una certa attenzione ai marchi: vengono nominati, tra gli altri, Martini, Lucky Strike, Levis, Nutella, Volvo, Zoppas, J & B. Non sempre sembra che l’intento sia ludico o critico: quali erano le sue intenzioni? Si è trattato di una coincidenza, di una denuncia, di una provocazione?”
F.B. “I marchi stanno cannibalizzando ogni angolo delle nostre città. Anche nella desolazione dei vicoli di Genova riescono a mostrare i denti e ad essere sempre in vista. Comunque la mia non voleva essere una critica diretta, semmai mostrare le cose per stimolare una riflessione…”
G.F. “Questa è una domanda che rivolgiamo ad ogni autore. Avviene raramente, e proprio per questo è più apprezzabile, che un artista ammetta e riveli le sue affinità elettive. Confidiamo nella sua onestà intellettuale: quali scrittori riconosce come suoi antecedenti, o quali sente più vicini alla sua narrativa?”
F.B. “Sono onnivoro, leggo di tutto. Da Hemingway a Biamonti, da Ellroy a Ellis. Gli scrittori che apprezzo sono quelli che leggo. Non so a chi assomiglio, non è compito mio dirlo. So solo a chi vorrei assomigliare. Se proprio devo fare qualche nome credo di dovere qualche cosa a Lucarelli, a Chandler, a Soriano. Fatte le debite distanze, per carità! Ma forse devo ancora di più a Genova. È una città che mi ha cambiato profondamente”.
G.F. “Come giudica il panorama letterario italiano contemporaneo? Avverte l’assenza di un movimento di riferimento o di artisti carismatici, o crede invece che questa assenza sia fondamentale per permettere a nuovi autori di emergere?”
F.B. “Gli scrittori buoni ci sono, purtroppo è difficile trovarli in mezzo a libri della Nutella e spazzatura di vario genere. Il fatto è che c’è poco ricambio. Credo che su questo punto Giulio Mozzi abbia visto giusto. ‘Negli anni Novanta tutti gli editori erano in cerca di scrittori giovani. Oggi gli scrittori giovani ci sono già e costituiscono un blocco di potere’. Anche nell’editoria ci sono delle ‘fasi’. E nelle fasi di consolidamento del ‘potere’ è sicuramente più difficile inserirsi”.
G.F. “Qual è, o quale le sembra potrà essere, l’influenza della rete sull’editoria italiana? Crede che la rete potrà rivitalizzare la nostra stanca e statica editoria?”
F.B. “La rete potrà solo essere uno strumento per rivitalizzare l’editoria. Da sola non può nulla e serve maggiore interesse da parte delle grandi case editrici. Comunque i numeri parlano chiaro, sempre più utenti uguale sempre maggiore visibilità e potenzialità. Ma ci vorrà un po’ di tempo per fare chiarezza nel marasma di internet”.
G.F. “Concluda con un saluto ai suoi lettori”.
F.B. “Un grazie davvero sincero ai miei lettori e agli amici di Lankelot. Il sostegno che sto ricevendo è la cosa più bella. Aggiungo un altro grazie per il curatore della recensione e dell’intervista, Franchi, una persona seria e costruttiva. Ciao, Fabio B.”.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Fabio Beccacini (lmperia, 1977), narratore italiano, studente al DAMS. “Via del Campo” è il suo primo romanzo.
Fabio Beccacini, “Via del Campo”, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2003. Copertina di Lucia Biganzoli. Il romanzo è stato scritto tra i mesi di marzo e maggio del 2000.
Gianfranco Franchi, maggio 2003.
Prima pubblicazione: Lankelot.