Verso Est

Verso Est Book Cover Verso Est
Diego Zandel
Campanotto
2006
9788845607677

Diego Zandel, fiumano-romano, innamorato della Grecia come di sua moglie, è una delle più belle voci della cultura giuliano-dalmata del secondo Novecento. Racconta le terre perdute negli anni atroci della Seconda Guerra Mondiale con la nostalgia di chi sa d'essere stato sradicato forse per sempre dal mare e dalle case degli antenati, ma non dalla loro cultura e dalla loro identità. Sa farlo senza mai cedere all'odio etnico – cosa impossibile per tutti noi che di lì veniamo, composti come siamo di tante etnie diverse – e all'odio politico – cosa meno facile, soprattutto una volta; è un artista, piuttosto, votato alla pacificazione, alla conciliazione delle memorie e delle storie, nel rispetto della verità storica e dell'armoniosa dialettica tra i popoli. È un nemico dei totalitarismi, un letterato puro. È un Tomizza romanizzato; della nostra Eterna ha il cuore generoso e la capacità di pizzicare le voci di tutti, restando sé stesso. È uno a cui essere riconoscente, perché ha saputo essere umano e gentile nei confronti dei nemici invasori delle nostre terre, limitandosi, con la mansuetudine classica degli istriani, a ricordare loro – con le sue storie – come erano e come andavano realmente le cose prima della disgrazia dello scontro tra fascismo e comunismo titino.

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“Verso Est” [2006] è una raccolta di otto racconti, quattro ambientati a Fiume e in Istria e quattro in Grecia. Terre solo apparentemente distanti: spiega Zandel, nell'introduzione, che c'è qualcosa che le unisce. “A cominciare dalla conformazione fisica, quell'essere fatte di mare e di pietre, di ulivi e di muretti a secco, che le fa assomigliare, e alle capre e agli asini che le pascolano, per finire con la natura contadina, povera e orgogliosa, delle genti, delle donne in particolare” (p. 15). In appendice, i ricordi di Zandel del Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, dove dal 1947 si stabilì una comunità di oltre duemila profughi. Preziosi, soprattutto per chi, giuliano-dalmata di seconda o terza generazione, qui a Roma ha avuto un'altra storia, come il sottoscritto; complice un quarto di vecchia romanità, e un po' di fortuna.

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Cominciamo dalla prima sezione, fiumana e istriana. Si parte dalla “Casa in riva al fiume” [1984]. È la storia di un minatore di diciotto anni, un lavoratore scosso e incupito dai due anni passati nelle viscere della terra. Vive, con padre e madre, in una casa di pietra che hanno tirato su con le loro mani; è ancora incompleta. Ci si lavorava quando c'erano abbastanza soldi e abbastanza tempo da parte. Con amore e con tanti sacrifici. Adesso questa casa rischia d'essere distrutta dal fiume, che s'ingrossa e s'ingrossa; la famiglia combatte e vince la sua battaglia, con tenacia e dignità tutta istriana.

Ecco “Villa Speranza” [1985]. Marco Adamich sbarca a Ronchi dei Legionari, un autista lo attende; si va a Fiume. Per comprare Villa Kardoss, ossia Villa Speranza, come la chiamavano lui e il suo primo perduto amore, Lilli, quando – adolescenti – spiavano la casa appena edificata dai sassi della Baia del Re. E mentre viaggia, torna con la memoria alla sua giovinezza. E torna ad ammirare questo panorama stupendo, unico al mondo:

“Tra la alta e verde costa di Abbazia e Moschiena, sormontata dal Monte Maggiore, e il basso profilo azzurrino delle isole di Cherso e di Veglia, proiettate verso la Dalmazia, il mare, ricco di riflessi, sembrava assorbire lo splendore che lo circondava, confermando così l'imperturbabilità della natura di fronte alla cieca violenza degli uomini” (p. 30).

E mentre viaggia, riconoscendo gli amati campanili delle chiese venete, perduti da un popolo maledetto dal destino con la “crudele assegnazione di quella terra alla Jugoslavia”, ritrova tutte le emozioni dell'adolescenza, di quel grande amore. E si consola pensando che la sua Lilli almeno non ha conosciuto lo strazio dell'addio alla terra degli antenati, “a bordo di camion o di navi”, stracariche di quegli oggetti che non si voleva abbandonare nelle mani degli stranieri. E si conforta pensando che lei non ha saputo niente dell'umiliazione dei campi profughi, degli “ordini di trasferimento in sconosciute città italiane, nuovi ambienti, altra gente dai diversi dialetti e consumi”.

All'arrivo, la villa non è quella che ricordava. È intatta, ma lui è cresciuto. È piccola, un po' fatiscente. Fa niente. La compra soltanto in onore alle illusioni, a tutto il suo passato, all'amore perduto, al suo grande popolo sconfitto ma non vinto.

Passiamo a “Quell'amore che aveva fermato il tempo” [1988]. Si racconta di Tony, a un passo dalla pensione dopo trentacinque anni di navigazione. Il destino vuole che l'ultimo viaggio lo porti fino a Fiume, la sua città. Lasciata quarant'anni prima, durante la guerra, mentre era ufficiale delle SS italiane. Lui, fascista, era innamorato di Vera, amica dei partigiani. Il loro amore era stato spezzato dal disastro della guerra. Tony sbarca a Fiume e va a cercarla, nella sua vecchia casa. Sulle prime sembra che sia proprio lei. Il destino è beffardo; è la figlia, sua sosia. Vera non c'è più. Come il passato, è diventata un sogno.

Ecco “Un giorno con la zia” [1987]: Marco è andato in Istria a trovare i parenti di Albona, dopo tanto tempo, troppo. La casa è la stessa della sua infanzia: “Intatta, piccola e bassa in mezzo alla campagna sassosa, con il cortile delimitato dal suo vecchio muretto di pietre, dal quale spuntavano i rami spogli degli alberi da frutta”. El mulo xè diventà vecio, disi la zia. Da quelle parti, in campagna e nel retroterra, si capiscono parlando anche nel dialetto slavo dell'Istria, il ciakavo [cfr. “Il figlio perduto”]. Suona veneto, vagamente. Marco ritrova tanti bei ricordi e tutta la dolcezza di chi, nel frattempo, è diventato padre. Allora, quando la zia crolla addormentata, d'istinto fa quel che ha fatto con le sue figlie: “la sollevò con le braccia e, raccolta contro il proprio petto, fragile mucchietto di ossa, la portò di là, nel suo grande letto, dove l'adagiò teneramente e la coprì. La bora fuori tentava invano di entrare in casa”.

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Nell'appendice, dedicata ai ricordi del Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, Zandel racconta come vivevano i nostri compatrioti esuli a Roma, a partire dal 1948. Zandel – tre mesi – arrivò a Roma assieme ai genitori e alla nonna paterna, in quello che sarebbe stato ribattezzato Villaggio Giuliano-Dalmata (ex case dormitorio per gli operai addetti alla costruzione dell'EUR). Il Villaggio – via Laurentina, 639 – consisteva in due file parallele di edifici; in ognuno di questi padiglioni, c'erano dei miniappartamenti. In altri padiglioni c'era la scuola elementare (piena di maestri giuliani), che restò agibile fino al 1955-56. I ragazzi quindi erano passati nella scuola intitolata a Giuseppe Tosi, educatore massacrato dai partigiani titini: si trovava dietro la chiesa. Quindi, nella nuova sede in via dei Corazzieri.

La chiesa era il fulcro della vita del Villaggio: “Raccoglieva gli umori della sua gente, i momenti belli, di allegria, durante i matrimoni, quando noi bambini aspettavamo la fine della cerimonia, impazienti del lancio dei confetti […] e poi c'era il periodo festoso, nell'esplosione dei colori della primavera, delle comunioni e delle cresime […] e i momenti tristi, dei funerali. Una ritualità voleva che, caricata la bara sul furgone, la gente la seguisse mesta, i famigliari in testa, per tutto il viale fino all'uscita del Villaggio” (p. 130).

Il Villaggio si estese nel 1955, quando ci furono i primi traslochi nelle case nuove, costruite alle spalle dei vecchi padiglioni. Nel 1957 vennero consegnate le quattro case popolari in via Smareglia. A fine anni Cinquanta i nostri fratelli erano circa 2mila. Primo e unico vero leader della comunità, ricorda Zandel, era e rimane Marino Micich, oggi direttore dell'Archivio Museo Storico di Fiume, ex monarchico, ex democristiano.

Zandel condivide i suoi ricordi; le gite di gruppo, la prima televisione, i bar e le osterie, le processioni e le feste, la grande unione popolare, il forte senso identitario. Andato, nel tempo, perduto; almeno a livello territoriale. Ma mi piace pensare che adesso viva con altra intensità e potenza, su un piano ideale, condiviso a distanza con tutti quelli che vengono dall'Istria, da Fiume, da Zara e dalla Dalmazia, e abitano dappertutto nel mondo, mai dimentichi delle loro origini e della loro identità culturale. La nostra identità è il nostro destino.

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Infine, qualche cenno sulla sezione seconda del libro, quella greca. Il primo pezzo è “La figlia del pope” [1986], romantica e triste storia d'amore; “La vendetta” [1985] è la trasfigurazione delle sofferenze della popolazione ellenica nel corso dei dolorosi anni della dittatura dei colonnelli, intelligentemente e onestamente politica; “Nascita in un villaggio greco” [1986], dolcissima rappresentazione di quel che accade in una cultura nostra gemella, nel momento incantato del parto; infine “L'estate è finita” [1988], altra riuscita parentesi sentimentale. Ma il libro, perdonatemi, per me è tutto nostro: istriano, fiumano, dalmata. Romano.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Diego Zandel (Servigliano, 1948), giornalista e scrittore italiano, di sangue istriano, nato in un campo profughi da genitori fiumani.

Diego Zandel, “Verso Est”, Campanotto, Udine 2006.

Gianfranco Franchi, Aprile 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Diego Zandel, fiumano-romano, innamorato della Grecia come di sua moglie, è una delle più belle voci della cultura giuliano-dalmata del secondo Novecento.