Liberal Libri
1998
9788882700010
Parise di “Verba volant” è un Bianciardi liberal-democratico: stessa verve, stessa indipendenza, stessa schiettezza, diverso orientamente politico. L'iniezione di libertà di pensiero è tuttavia proprio la stessa, e così la sensazione che s'ha di fronte uno che non ha mai obbedito agli ordini di un partito, e non conosce ideologia diversa da quella letteraria. Proprio come nel “Fuorigioco mi sta antipatico” (Stampa Alternativa, 2007) siamo di fronte a un'antologia della rubrica di corrispondenza tra i lettori e lo scrittore; la differenza è che il povero Bianciardi, malato e a fine carriera, si confrontava – inventando, non di rado, le lettere – sulle poco gloriose colonne del “Guerin Sportivo”, mentre il buon Parise, nel fulcro della sua attività artistica e letteraria (1974-1975), si difendeva dall'alto delle colonne del “Corriere della Sera”. Manca del tutto lo sport, perché non serve come escamotage per parlare di storia e di politica; in compenso, c'è una simile, robusta dedizione alle questioni civili, una simile capacità di accettare di scendere (meglio: di essere) sullo stesso piano dei lettori, una identica voglia di stupire con il proprio stile. Di vita, non di scrittura.
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Curatore del volume è il solito, ottimo Silvio Perrella (cfr. almeno “Quando la fantasia ballava il boogie”, Adelphi 2005). Nell'introduzione, il critico asserisce che questa rubrica conferma che i “Sillabari” non sono nati per miracolo; assieme, ha il merito di insegnare ai lettori quale fosse la democratica “logica della libertà” di Parise (p. XII). E quanto, possiamo aggiungere, sia necessario e opportuno restituirla ai contemporanei, perché se ne possano armare.
La rubrica si chiamava “Parise risponde” e non era affatto letteraria: si trattava d'una serie di dialoghi coi lettori, protagonisti l'Italia e gli italiani. Nel volume, Perrella ha scelto il titolo “Verba volant” perché è fedele a quanto scriveva l'artista vicentino in una delle sue rubriche, quando spiegava il senso di quei carteggi pubblici coi lettori: Parise diceva che si trattava di “una serie di chiacchiere che non hanno l'aria di essere importanti, di verba volant. Da questi scambi di informazioni, anche personali, ripeto, nascono spesso idee generali. E quelle sono e non sono verba volant” (pp. XXI-XXII; pp. 54-55).
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Ho preso molti appunti, durante la lettura. La sintesi potrebbe essere questa: no al consumismo, no al marxismo, no alla vanità, no al carrierismo, no al fascismo, no al PCI, no al MSI, no al matrimonio, no al divorzio, sì all'aborto, sì a Tolstoj, sì al piacere, sì alla povertà, sì alla borghesia liberale, elitaria, no alla borghesia americanizzata. La povertà è il (nobile) pensiero principe di Parise, in questa fase della sua produzione, e della sua attività. Sin dall'incipit della rubrica, 13 gennaio 1974, quando il padre del “Ragazzo morto e le comete” dipinge il ritratto del borghese ideale, e tutto a un tratto...
“Una cosa veramente bellissima sarebbe che i 'borghesi' (quelli che si offendono, quelli che scrivono lettere ai giornali) capissero una volta per tutte che i poveri hanno sempre ragione, in tutti i sensi e campi: hanno ragione a protestare, a ribellarsi, a votare PCI, insomma hanno ragione di fare tutto quello che fanno e faranno perché, comunque lo facciano, lo fanno sempre con uno stile infinitamente più alto del loro. Perché essi vivono una vita sempre imprevedibile e sono sempre giustificati. Infatti, come non esiste una legge uguale per tutti, così non esiste una morale uguale per tutti. E la peggiore cosa che possa fare un borghese è la morale ai poveri” (p. 7).
Il 30 giugno 1974 Parise si spingeva molto al di là: “Il rimedio è la povertà”, scriveva, ribadendo il suo “I poveri hanno sempre ragione” e suggerendo che dovessimo tutti tornare indietro. “Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è 'comunismo', come credono i miei rozzi obiettori di destra. Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l'automobile, le motociclette, le famose e cretinissime barche. Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto di ciò che si compra” (p. 76). La povertà è, spiega divinamente più avanti, “conoscere le cose per necessità” (p. 78).
La via da seguire sembra scritta da Francesco. “Gli uomini ricchi devono aiutare gli uomini poveri, devono distribuire ad altri la propria ricchezza ed essere desiderosi e felici di farlo” (p. 159): perché gli uomini non nascono affatto con uguali diritti.
Il consumo è un dio sbagliato e stupido. Parise registra comportamenti nevrotici (compulsivi) e ossessivi nei suoi concittadini: nei ristoranti di massa come nelle botteghe di stracci. Deplora la concentrazione dei nostri ideali nell'acquisto immotivato di oggetti e di cibo superfluo. È un'ideologia non meno pericolosa delle altre, ribadisce (ancora 30 giugno 1974).
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Parise rifiuta l'egemonia culturale marxista. A una lettera d'un giovane studente di Sociologia di Trento (brividi: è il 1974), risponde invitandolo a disobbedire a quella facoltà che scotta e obbliga al marxismo come sola chiave di lettura del mondo, a disobbedire ai marxisti in toto, a quelli che danno del fascista non appena si devia dal dogma, a quelli che pretendono di stabilire questa (idiota, aggiungo) equazione: “intellettuale uguale marxista” (8 luglio 1974, p. 83).
Il 13 gennaio 1974 invita il borghese ideale a parlare col figlio perché non finisse in quei “cupissimi e ingarbugliati consessi politici definiti di estrema sinistra, come Lotta continua, Servire il popolo, Potere operaio, eccetera. Sono tanti. Sono tutti di estrema sinistra, si confondono” (p. 8). A quel punto, meglio il PCI, “più serio”. Tanto il comunismo non può passare, perché un operaio, in Italia, tende istintivamente alla proprietà privata perché non crede alla proprietà pubblica e all'amministrazione della proprietà pubblica: non crede alla pratica delle democrazie di Stato (24 marzo 1974, p. 42).
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Parise rifiuta qualsiasi eredità fascista. Il fascismo fu “un tragico inganno”: il fascismo e Mussolini “sono anche ridicoli, con i loro plalchi di cartone, le sfilate con armi che non esistevano, le minacce al mondo”. Lo stile fascista è “lo stile del bluff, dell'imbroglio, in una parola lo stile della pubblicità di allora, fatta in casa, e che tuttavia fu la prima pubblicità politica di massa” (13 ottobre 1974, p. 133). Gli italiani di allora non capirono la farsa e la tragedia del fascismo (p. 135); il nostro era un Paese inadatto alla guerra, quaranta milioni di abitanti e otto milioni di baionette, cose ridicole in confronto al mondo: “era un piccolo Paese povero e agricolo, dove si parlava e si parla ancora una lingua che non ha nessuna importanza, sia o non sia la lingua di Dante” (p. 151, 17 novembre 1974).
A questo s'aggiunga il suo assoluto disprezzo per il MSI: un borghese, scrive, non dovrebbe mai votarlo. È anche, spiega, “una questione di frequentazioni, a cui il nostro immaginario eroe borghese sta molto attento: egli sa, per istinto e per educazione, che con certa gente non si va a pranzo, non si tratta. Il perché è difficile dirlo: non sta bene a tavola, è a disagio, non sa che dire, sente una razza diversa (perché le razze sono tra noi, non occorre andare in Africa o in Asia), teme sempre di venire offeso e nella propria natura e nella propria sensibilità. E quindi evita la tavola” (p. 8).
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Restiamo in ambito politico. Se può consolarvi, nel 1974 già i lettori si lamentavano della vanità dei politici, che volevano “apparire a tutti i costi” sul grande schermo. Era l'11 agosto 1974, il signor Alberto Melli di Modena scriveva a Parise domandando che siano rappresentate idee e programmi politici, non volti. Storia vecchia, a quanto pare. L'artista vicentino rifiuta il carrierismo politico e ogni forma di ambizione partitica. Ha le idee molto chiare in merito: studiatevi la risposta al giovane che sogna di diventare uomo politico, 22 luglio 1974. Credo che Mario Vertecchi da Urbino sia diventato calzolaio, dopo una replica del genere, e con non poco orgoglio. Ha fatto bene.
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Parise, in quei giorni delicati (referendum), si dichiara coraggiosamente contrario sia al matrimonio che al divorzio. 27 gennaio 1974. “Non trovo affatto che il divorzio sia progressista e moderno. Lo trovo, al tempo stesso, burocratico e tribale. Se l'amore è un mistero e il sesso anche, non capisco perché due misteri messi insieme debbano tradursi in un contratto con clausole e morali e civili ed economiche” (p. 14). Parise difende la convivenza. Voterà a favore del divorzio per liberare tante coppie dall'obbligo assurdo della convivenza per contratto: ma poi sogna di votare a favore della dissoluzione del matrimonio, “umiliante e rosea trappola” (“Panorama”, 14 marzo 1974). Come italiano, sa di “non poter non essere cattolico” (10 marzo 1974), e va difendendo preti, monache e via dicendo. Tuttavia ha le sue idee. Liberamente, le riferisce. E via. Naturalmente difende l'aborto, perché lo considera un doloroso “provvedimento di urgenza che appartiene totalmente alla libertà individuale”: esclude ogni disputa teologica e ricorda quanto sia traumatico per ogni donna. Ha ragione. (7 aprile 1974).
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La borghesia di Parise è una meraviglia. E non solo perché auspica che legga, giornali libri poesie, romanzi come “Guerra e pace” e “Anna Karenina”, e magari spenda quindici giorni a leggere romanzi come questi invece di partire per un viaggio tutto compreso per l'India (p. 9). Per Goffredo, borghesia significa “responsabilità sociale e nazionale, dunque autocritica, e una certa tattilità per la vita che si impara non soltanto con l'attivismo produttivo e mercantile, ma con l'allenamento del pensiero e del cuore. (…). Sarebbe bello che il nuovo borghese non sfruttasse nessuno e fosse egli stesso, se imprenditore e anche dentro il sistema economico, il sindacalista dei propri dipendenti. E li amasse non per quello che danno, ma per quello che sono”. Sarebbe bello se imparasse a diversificarsi, cioè a essere fiero dei suoi modi e del suo stile, senza obbedire né ai partiti né alla pubblicità (Carosello, allora...). Sarebbe bello se la nuova borghesia fosse risparmiosa in casa, e generosa con il prossimo. È facile, è naturale, ha senso. Dà vita alla pace sociale.
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La borghesia e la povertà predicate da Parise entrano molto facilmente nel cuore dei lettori e dei letterati della nuova generazione. Il quadro politico descritto (e distrutto) è sostanzialmente sparito, ma la borghesia e la necessità d'una sua rivoluzione interna sono rimaste. E pretendono giustizia.
Ah se ci fosse ancora adesso oggi qui vivo splendido un La Pira. Restituitecelo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986), scrittore, sceneggiatore e giornalista italiano.
Goffredo Parise, “Verba Volant. Profezie civili di un anticonformista”, Libri Liberal, Firenze 1998. A cura di Silvio Perrella.
Prima edizione: Tra 1974 e 1975: rubrica di corrispondenza sul “Corriere della Sera”.
Approfondimento in rete: WIKI it / Casa di Cultura Goffredo Parise /
Gianfranco Franchi, marzo 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Parise di “Verba volant” è un Bianciardi liberal-democratico…