END
2007
9788890217838
Premessa: a dispetto della sua ampia e variegata produzione – in narrativa, poesia e saggistica – non conosco e non avevo mai sentito nominare Daniel Gorret, narratore classe 1951. Devo l’incontro con il suo microcosmo alle Edizioni END, che hanno recentemente pubblicato questo “Venticinque maniere per morie”. Mi stupisco, leggendo la nota bio-bibliografica, perché m’accorgo che questa sua ampia e variegata produzione ha avuto edizioni di tutto rispetto: nomi mainstream, da Garzanti a Mondadori. Eppure, io – lettore non forte, ma violentissimo: diciamo 300 libri l’anno, per difetto – non ricordo di averlo mai, e dico mai, notato sugli scaffali di una qualsiasi libreria. Prima ragione per grattarsi la fronte. E dire che quel cognome non è anonimo.
La seconda ragione è questa: non so quanti tra voi condividano la preoccupazione o la ricerca che sto per esternare, ma da tempo mi chieda cosa sia la Val d’Aosta. Non ricordo scrittori valdostani: non ricordo musicisti, pittori, scultori, registi valdostani. Scendiamo di livello: non conosco aziende valdostane. Non conosco squadre di calcio valdostane. Non ricordo eventi culturali valdostani. La mia Val d’Aosta è un ricordo da sussidiario, da libro di geografia delle scuole medie, da intervallo della Rai, musichetta e cartolina. Punto e a capo. Ne ho un’immagine falsata dai media, da cartolina: montagne, vallate, tanto verde, la Francia a un passo. Culturalmente, per quanto mi riguarda, potrebbe – e questo è il paradosso – essere più famigliare l’Islanda.
Non è un discorso legato alle frontiere di una nazione o di un’area culturale: mi viene in mente, subito, che Sardegna e Sicilia e Puglia (e il Salento che sogna autonomia dalla Puglia! Succede) – per restare in ambito tricolore – o Friuli Venezia Giulia hanno artisti di riferimento, di fama a volte transnazionale; e probabilmente in determinati casi ne circolano troppi (penso alla produzione trinacria e talvolta post-trinariciuta post-Camilleri, ad esempio). Non è nemmeno un discorso legato alle estremità dell’area romanza: piuttosto, questa sarebbe ragione di interesse (e peraltro il discorso è sbagliato perché il confine è lusitano e non valdostano) considerando i fenomeni di conservazione di vario genere classici dell’ex Dacia, ad esempio, o dei dialetti sardi. È proprio una questione che mi sembra incredibilmente misteriosa, e scusate se ho quest’aria intontita ma mi sembra fin troppo manifesto: ripeto, culturalmente cos’è il Val d’Aosta? Cosa ha prodotto? E in quali ambiti? Voglio risposte e non ne trovo nessuna in memoria. Pazzesco.
La prima risposta, sulla soglia dei trent’anni, la trovo sfogliando un libro delle Edizioni Non Deperibili: “Venticinque maniere per morire” dello scrittore valdostano (!) Daniele Gorret. È un libro interessante, giocato su una lingua sicuramente letteraria, senza cadute nel parlato – a dispetto di quanto indicato sul risvoltino – e decisamente cupo e macabro. Non ho notato nessuna peculiarità riconducibile a una cultura del posto, se è questo che volete sapere. E dire che sognavo di pizzicare un dialogo tra due autoctoni. Niente. Per tutta la vita mi domanderò che lingua parlano in Val d’Aosta, che musica ascoltano e che film guardano e che libri leggono. Gorret ha una buona cultura classica – le citazioni, più o meno trasparenti e facili, sono omeriche, orfiche, etc. – e guarda con dispetto alle vetrine delle librerie odierne (condivisibile, certo, ma niente di nuovo: “Ed ora quel libretto – pensi – giace in mille copie in fondo a un magazzino: non è gradito chi dice Verità. E pensi le vetrine dei librai occupate dai conquistadores! I libri in giallo in nero in rosa che Moda impone a tutti gli obbedienti (e gli obbedienti, ormai, son quasi tutti)” (p. 52). In un passo come questo, registro l’epifania di due maiuscole (Verità e Moda: entrambe grottesche nella mia Weltanschauung e non solo per ragioni razionali e immagino condivisibili; ma transeat) piuttosto demodé (pardon), ma il concetto cardine è lo stesso che ogni letterato serio ripete da decenni: bando alla narrativa di genere, è materia per analfabeti di ritorno quando si tratta di narrativa di genere confezionata dall’industria. Mi viene da pensare a quei fenomeni linguistici – la conservazione dico – e culturali tipici delle frontiere e dei confini dei regni o degli imperi: e così annoto; Gorret sarà un purista. E in effetti la sua lingua è pulita, vecchiotta ma limpida, sgombra da contaminazioni che non siano reminiscenze scolastiche. Che sia questa la lingua d’ogni narratore valdostano? A Trieste il principio è stato lo stesso, nel primo Novecento – ma con molte influenze dalla Mitteleuropa. Per dire.
Questo suo ennesimo libro è per me il primo in assoluto. Posso dire che ha una struttura agile da quaderno d’appunti; ed è il quaderno d’appunti d’un suicida di quasi sessant’anni. Il tono è drasticamente chiaro: predominano inevitabilità, male di vivere, disillusione e sconforto. “E sei già vecchio, indicato ad esempio di sconfitta. Esaurite da tempo le riserve, sei dell’angoscia, pagliaccio senza riso. Penso sia bene stare chiuso in casa e – meglio ancora – in questa sola stanza. Giacché una fine ti spetta di diritto (pensi “diritto” e – dopo anni – ridi)” (p. 12).
Si va anche a un passo dalla più tenera autocommiserazione, a breve distanza da un richiamo omerico (diretto, a Ettore): “E i fiori, se gli uomini l’innaffiano con cura, è per strapparli appena sono fiori: per venderli o appassirli nelle case. Così, svelandoti gli inganni, sei cresciuto”. (p. 33)
Questo patetismo è incredibile, ma non so se sia un tratto distintivo della produzione dell’autore o della cultura valdostana. Dico, perdonatemi per queste riflessioni ad alta voce, ma mi pongo parecchie domande scoprendo un narratore classe 1951 edito a tutto spiano e del tutto estraneo a noi tutti (sbaglio?), 140 lettori forti e curiosi. Possibile? Possibile.
“Tutto è truccato per fare il mondo ingiusto: per far che il prepotente vinca sempre” (p. 43). Vale per questo passo quanto appena affermato sul pensiero dedicato ai fiori.
In generale, i traumi dell’ingiustizia e della menzogna e della relativa incapacità di difendersi del buon cittadino di fronte a certi vezzi sembrano avere assunto un peso devastante nella decisione del narratore di chiudere i giochi in bellezza – per così dire – nell’ultimo dei 25 “passi” del suo tragitto. L’epilogo è molto suggestivo e non meno scolastico del resto delle riflessioni; tuttavia l’ultima frase è, nella sua linearità, eccezionalmente bella. Non ve la rivelo perché appartiene all’autore e ai suoi lettori (e alla cultura valdostana?).
Grazie alle Edizioni End, al web e alla cultura indipendente per avermi regalato un autore mainstream valdostano. Mi sento più completo – lo dico senza ironia – ma non capisco come sia possibile che “valdostano” mi suoni esotico come “kazako” o “turkmeno”. Misteri dell’Unità Nazionale. Spero questi appunti siano fertili di approfondimento per diversi tra voi. Io sono ormai iniziato a una terra sconosciuta, e italiana.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Daniele Gorret (1951), romanziere, poeta, traduttore e saggista italiano. Vive in Valle d’Aosta, dove è nato. Ha esordito pubblicando il romanzo “Sopra campagne e acque” (Guanda, 1984).
Daniele Gorret, “Venticinque maniere per morire”, End, Firenze-Gignod, 2006.
Gianfranco Franchi, gennaio 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.