Sono uno dei sessantasei critici letterari intervistati da Vanni Santoni per “L’Indiscreto”: la sua grande inchiesta è stata pubblicata in quattro, complesse tappe [uno – due – tre – quattro]. Vi invito a nutrirvene a dovere nelle pagine dell’Indiscreto.
En passant, qui la mia intervista integrale [fine 2018]:
VS: Scrisse, attraverso un suo personaggio, Pynchon, che nel secolo a venire la critica letteraria sarebbe stata ancor più importante perché si sarebbero prodotti più libri per meno lettori, e dunque la funzione d’indirizzo dei lettori e selezione del canone sarebbe stata decisiva. Concorda? Come crede debba essere interpretata, oggi, questa funzione? Come può reagire la critica al paradosso dell’aumento della sua utilità rispetto alla diminuzione pratica degli spazi espressivi?
GF: Concordo parzialmente; la pubblicazione di un numero inumano di libri tendenzialmente o regolarmente coincide con l’aumento considerevole di pubblicazioni di letteratura di genere e di consumo: sono libri che nascono per intrattenere e distrarre, non per essere oggetto di meditazione, di comparazione o di profonda analisi. Spesso si tratta di limpida autoreferenzialità. Non vedo quanto e come possano essere rilevanti eventuali ulteriori aumenti torrenziali di pubblicazioni di gialli, di thriller, di romanzi di spionaggio, di romanzi gotici, di romanzi sentimentali adolescenziali, di romanzi storici d’ambientazione antico romana o medievale o ottocentesca, di libri di ricette, di poesie amatoriali, etc. Ben sappiamo che si tratta, per lo più, di pubblicazioni che servono soprattutto a “occupare lo spazio” negli scaffali delle librerie (quando riescono a entrarci in più di una copia, si capisce).
Vero è, invece, che, in coincidenza con una progressiva perdita di credito e di considerazione da parte di diverse case editrici, e di diversi medi e grandi gruppi editoriali, complice appunto l’aver ceduto così spesso alla logica di pubblicare “mentulae canis modo”, magari per oscure dinamiche di “logica del debito” e “logica della distribuzione di massa” che qui ci interessa meno indagare (vero?), il ruolo del critico si sta facendo essenziale: è un critico al quale domandiamo d’essere uomo di profonda etica, genio della freddezza e della rapidità nella selezione, fuoriclasse per la competenza, eccezionale per la memoria. È uno al quale stiamo domandando di sbagliare pochissimo. A questo punto, dici bene: come si può reagire di fronte al paradosso dell’aumento dell’utilità della critica rispetto alla diminuzione pratica degli spazi espressivi, complice – aggiungo io – l’inabissarsi dei quotidiani e il collassare dei vecchi periodici, e la solita scarsa tenuta e modesta longevità delle riviste letterarie? La risposta la stiamo costruendo in questo periodo, in tutto l’Occidente: stiamo cercando di plasmare e costruire riviste letterarie differenti dal passato, a volte anfibie (sia cartacee sia digitali); o almeno, come nel mio caso, c’è chi si sta ostinando a immaginare qualcosa di nuovo che possa avere senso, pubblico e sostenibilità, e durare nel tempo; stiamo cercando di adattarci alle logiche dei social network imperanti, soprattutto facebook e twitter, per raggiungere un numero degno e superiore di persone, possibilmente senza corromperci, senza intossicarci o senza diventare troppo stupidi e superficiali; stiamo cercando di superare steccati ideologici da guerra fredda per far comunicare le intelligenze marxiste con quelle cattoliche, quelle liberali e quelle nazionaliste, quelle anarchiche e quelle repubblicane; stiamo cercando di sopravvivere con entrate economiche modestissime, oppure, nei casi disperati e purtroppo sempre più convenzionali, stiamo accettando di considerare la critica letteraria una missione, una professione di fede, gratis e amore (per la letteratura: per il popolo: per la quiete delle nostre anime). Vorrei poterti dire, Vanni, che presto troveremo canali di comunicazione di massa nuovamente capaci d’essere sia prestigiosi sia di alta visibilità; com’era, per capirci, un tempo ormai lontano il “Corriere” o un tempo la programmazione dei canali Rai, nella tv d’antan. In questo momento credo che la cosa più saggia sia lavorare con la massima onestà e la massima concentrazione, trattando ogni articolo e ogni intervista con la massima dedizione, fingendo che possano essere destinati al vecchio pubblico del vecchio “Corriere” o a RadioRai. Troveremo, nel tempo, diverse soluzioni probabilmente efficaci; spero longeve come sono stati longevi i quotidiani e i periodici cartacei (un secolo e mezzo, a spanne). Consentimi un auspicio: che nel frattempo collassi l’industria editoriale così com’è, fondata su logiche economiche balorde, su un debito insostenibile e sulla pubblicazione di un numero amorale di “libri finti”, per un pubblico ovviamente inesistente.
VS: In un altro ampio pezzo di cui sto raccogliendo i contributi – e in cui gli interpellati sono gli scrittori – sto trovando conferma al fatto, di per sé intuibile, che molti dei nostri scrittori contemporanei abbiano trovato le proprie stelle polari in libri di scrittori esteri, spesso letti in traduzione, più che del canone italiano, e quasi sempre in romanzi (esistendo del resto canoni più forti del nostro in questo specifico genere). Quali crede che siano gli effetti di questa crescente globalizzazione delle influenze?
GF: Tento una risposta sintetica. Per lo più, in Italia, si leggono americani o inglesi; sopravvive il prestigio dei francesi (tre e diversissimi i fari: Houellebecq, Carrère, Enard), raramente ci si nutre della vecchia Mitteleuropa (errore), rapsodicamente c’è qualche fascinosa e fertile incursione nell’est europeo (soprattutto rumeno) o in Russia. Niente Balcani (peccato), niente Africa (nemmeno quella mediterranea, siamo rimasti a sant’Agostino da Ippona), poca Scandinavia (tolto il buffo fenomeno del “giallo svedese” e un miracolo finnico, il povero Paasilinna), sostanzialmente niente Asia (ogni tanto spunta un nippomane, quasi fosse una creatura mitologica), medioriente solo se israeliano (e con tante cautele), l’Australia e l’Oceania in genere soltanto per via del commonwealth inglese (e quindi en passant). Ridurrei quindi l’ambito delle influenze, circoscrivendolo con maggiore esattezza, e tornerei a ragionare sulla base del risultato; risultato che potrebbe e dovrebbe essere simbolico e raccontare molto degli equilibri e della cultura dell’Europa e dell’Italia, da un secolo esatto a questa parte. Non so se “globalizzazione” è un termine adatto; per prima cosa parlerei di “virulenta americanizzazione”. Un’americanizzazione non sempre tossica o dannosa. Ripeto, a domanda riformulata darei risposta più precisa.
Quanto al fatto che spesso si legga in traduzione, la risposta forse ovvia è che la prima drammatica conseguenza è la nefasta influenza sullo stile e sulla scrittura, in genere; soprattutto quando si tratta di traduzioni da lingue non neolatine, come l’inglese. Ci siamo accorti tutti, da un pezzo, della quantità di calchi e prestiti inglesi che infestano romanzi e saggi italiani.
VS: Uno dei dibattiti letterari che emergono ciclicamente è quello intorno alla possibilità (o all’esistenza) di un “grande romanzo italiano”, con particolare riferimento alla letteratura italiana successiva alla Seconda Guerra.
Prima di tutto: a suo avviso un GRI è possibile? Se no, perché? Se sì, di cosa cosa potrebbe o dovrebbe parlare un “grande romanzo”, e in che modo?
A suo avviso ci sono libri che possano meritare il titolo? Se sì, quali? Se no, considerando che nelle altre maggiori tradizioni letterarie si possono indicare più candidati, crede che ciò si debba all’assenza, nella nostra letteratura, di una tradizione forte in questo senso, e quindi della minor disponibilità di modelli?
È plausibile che, nella sopravvenuta egemonia del romanzo (almeno nelle forme scelte da chi scrive) e nella globalizzazione delle influenze si arrivi al superamento di tale limite?
Dall’altro lato, non dovrebbe forse un qualunque “grande romanzo” farsi già trans-nazionale? (vengono alla mente, come esempi tra i più immediati e recenti dotati di tale caratteristica, e coincidenti con altrettanti “grandi romanzi” di autori esteri, I detective selvaggi e 2666 di Roberto Bolaño, Europe central di William T. Vollmann, Abbacinante di Mircea Cărtărescu, Austerlitz di W.G. Sebald.
GF: La seconda metà del secolo è stata espressione di grande letteratura italiana: il nostro Novecento è stato sfarzoso. Mi limito a qualche titolo: è il secolo del “Deserto dei tartari” (1940), un romanzo che ha cambiato la storia della letteratura europea; è il secolo della “Dissipatio Humani Generis” (1973), un romanzo emblematico e cruciale; è il secolo del “Gattopardo” (1958), romanzo nato classico; è il secolo della “Storia” della Morante (1974), romanzo popolare perfetto; è il secolo di “Materada” di Tomizza (1960), epopea popolare di un esodo lancinante e complicato. C’è solo l’imbarazzo della scelta, potrei continuare; esistono diverse tradizioni e diversi rivoli, diversi sono i risultati eccellenti o almeno molto notevoli (se includiamo il Novecento “ab origine” allora abbracciamo capolavori come “La coscienza di Zeno” (1923) e “Il codice di Perelà” (1911): ti do soltanto due titoli, per non esondare).
Non credo quindi si possa parlare di periodo sfortunato – credo si possa e si debba parlare di un periodo in cui abbiamo sofferto, soprattutto nel secondo dopoguerra, complessi di inferiorità patologici e forse comprensibili ma profondamente ingiusti ed estremamente immotivati. Questi complessi non dipendevano dai nostri letterati ma dalle nostre disgrazie e sfortune politiche ed economiche. Siamo un popolo che ha vissuto ripetute umiliazioni, dal fascismo in avanti, e ripetute riduzioni di prestigio, da tutti i punti di vista. Non abbiamo smesso di produrre buona o grande letteratura. Pensa soltanto che siamo contemporanei (2018) di Claudio Magris, di Filippo Tuena, di Michele Mari, di Tommaso Pincio, di Francesco Permunian, di un critico come Andrea Cortellessa. Peccato non vengano adeguatamente presentati e tradotti all’estero.
Sul ricordo del “grande romanzo transnazionale”, io credo che un libro come il “Deserto dei Tartari” o un reportage anfibio come “Segreto Tibet” di Fosco Maraini abbiano tutte le caratteristiche della transnazionalità, e dell’eternità; così “Ultimo parallelo” di Tuena e “Tempo di uccidere” di Flaiano (1947). Soltanto quattro nomi (potrei continuare abbastanza a lungo, mantenendoci su livelli di eccellenza). Io sono ovviamente entusiasta della nostra storia letteraria e sono orgoglioso del nostro Novecento letterario. Possiamo tornare a influenzare l’Europa e forse non soltanto. Dobbiamo tornare ad avere editori di respiro internazionale (la sola Adelphi, la vecchia Laterza e le rovine di Einaudi, da sole, possono poco).
VS: Nella rassegna Da zero a dieci, la rivista letteraria “La balena bianca” ha chiesto a dieci giovani critici italiani di indicare quelli che a loro avviso sono i libri del decennio passato. È emersa una lista* in cui, al netto delle menzioni multiple, figurano circa quattro romanzi (un quarto dei quali “ibridi”) per ogni raccolta di racconti o prose. Una proporzione meno favorevole al romanzo di quella espressa dall’editoria in sé, ma che comunque riflette una decisa egemonia di tale forma. Che riflessioni le ispira questa proporzione? Commenti (o integrazioni) alla lista?
Alajmo, Notizia del disastro;
Ammaniti, Io non ho paura;
Arminio, Vento forte tra Lacedonia e Candela;
Bortolotti, Tecniche di basso livello;
Bugaro, Il labirinto delle passioni perdute;
Busi, Casanova di se stessi;
Busi, Un cuore di troppo;
Camilleri, La presa di Macallè;
Camilleri, La gita a Tindari
Casadei, Il suicidio di Angela B.;
Eco, Baudolino;
Falco, L’ubicazione del bene;
Franchini, L’abusivo;
Franchini, Cronaca della fine;
Frasca, Dai cancelli d’acciaio;
Frasca, Santa mira;
Genna, Assalto a un tempo devastato e vile 3.0;
Genna, Dies irae;
Giordano, La solitudine dei numeri primi;
Janeczek, Le rondini di Montecassino;
Jones, Sappiano le mie parole di sangue;
Lagioia, Riportando tutto a casa;
Labranca, Neoproletariato;
Mari, Verderame;
Mari, Tu, sanguinosa infanzia;
Moresco, Gli incendiati;
Mozzi, Fiction;
Murgia, Accabadora;
Parente, Contronatura;
Parrella, Mosca più balena;
Pascale, Ritorno alla città distratta;
Piccolo, La separazione del maschio;
Pincio, Un amore dell’altro mondo;
Pincio, Lo spazio sfinito;
Pontiggia, Nati due volte;
Pugno, Sirene;
Raimo, Dov’eri tu quando le stelle del mattiino gioivano in coro?
Rastello, Piove all’insù;
Ricci, L’amore e altre forme d’odio;
Santacroce, V.M.18;
Santoni, Personaggi precari;
Sarasso, Settanta;
Saviano, Gomorra;
Siti, Troppi paradisi;
Siti, Il contagio;
Siti, Autopsia dell’ossessione;
Starnone, Spavento;
Trevi, Senza verso;
Trevi, L’onda del porto;
Trevisan, Grotteschi e arabeschi;
Trevisan, Tristissimi giardini;
Tuena, Ultimo parallelo;
Vassalli, Archeologia del presente;
Vasta, Il tempo materiale;
Vasta, Spaesamento;
Virgilio, Porno ogni giorno;
Wu Ming 1, New thing;
Zanotti, Bambini bonsai.
(più; Mazzantini, Venuto al mondo; Moccia, Tre metri sopra al cielo; Panarello 100 colpi di spazzola, inseriti da Marrama come esempi negativi)
GF: Vedo assenze molto dolorose e direi inspiegabili; nessuno ha nominato il massimo risultato di Renzo Paris, “La vita personale” (2009), memoir e tributo all’ultima scena romana degna di memoria; nessuno ha nominato il massimo risultato del nostro arbereshe Carmine Abate, “Il mosaico del tempo grande” (2006), epica del suo popolo; nessuno ha nominato Antonia Arslan e la sua basilare “Masseria delle allodole” (2004), peraltro etnicamente e politicamente rilevante; incresciosa l’assenza del miglior romanzo fantastico italiano degli anni Zero, “Il Mangianomi” di Giovanni De Feo (prima e unica edizione da leggere, la e/o del 2002); noto, in compenso, nomi raccapriccianti come Ammaniti, ampiamente o logicamente trascurabili per ragioni differenti come Giordano, Santacroce e Raimo.
Vedo segnalato Trevi per libri meno ispirati; pochi anni più tardi, si è superato pubblicando “Qualcosa di scritto” (2012); manca, ad esempio, “La grande ombra” di Tuena, il suo romanzo michelangiolesco (2001). Credo sia una classifica molto grezza e poco equilibrata, puntinata da provocazioni (Vassalli ha scritto ben altra letteratura…) e in generale troppo generosa con certi artisti. Non voglio farla a pezzi o soffermarmici troppo – non credo sia questo lo spirito della tua domanda. Leggere certi nomi e certi titoli ovviamente mi innervosisce o mi sembra stupido.
Invece… tu mi domandi se mi stupisce la presenza di tante raccolte di racconti o prose e di romanzi “anfibi” o “ibridi”: niente affatto, prima cosa perché la nostra tradizione di racconti e novelle è ragguardevole (soltanto qualche nome novecentesco, purtroppo non sempre tradotto all’estero come si doveva: Landolfi, Giani Stuparich, Manganelli, Guido Miglia e i suoi “Bozzetti istriani”, Pirandello, Renzo Rosso, Delfini, Goffredo Parise, Calvino, Tomizza…), secondo perché la tendenza a pubblicare “anfibi”, come già rilevato da altri prima di me (Cortellessa), è limpida e fortunata. È la strada che stiamo battendo, come avanguardie e come letterati, in genere, da tanti punti di vista.