Pendragon
2002
9788883421624
Nella notte tra il 7 e l’8 maggio del 1965, due spettri tornano alla vita, stanchi d’una segregazione alla luce della memoria: Adolf ordina che sia buio, si cambia d’abito e torna a infestare l’umanità. Al suo fianco, l’untuoso tirapiedi Bormann, fedele nella degradazione, nella crudeltà e nel vizio. È il principio del tragico e meraviglioso testo per il teatro di Roberto Roversi, messo in scena dal Piccolo Teatro di Milano nel maggio 1967: pubblicato originariamente da Rizzoli nel 1965, è stato ristampato da Pendragon, a cura di Arnaldo Picchi, nel 2002. La nuova edizione si pregia d’un apparato di note e di riferimenti bibliografici dogmatico, fondamentale ed esaustivo: si può scrivere dell’opera, a questo punto, soltanto per diletto o per piacere, perché sembra, in ogni caso, irrilevante deviare dal solco tracciato da Picchi.
Spiega il curatore, nelle Note al Testo: “L’Unter den Linden – sotto i tigli – è il viale di Berlino che passa davanti all’Opera e alla Humboldt Universität e arriva fino alla Porta di Brandeburgo, di fianco al vecchio Reichstag, ora ricostruito e di nuovo sede del Parlamento. Un tempo era la zona delle ambasciate, della Cancelleria, dei caffè e dei ritrovi eleganti. L’asse fu progettato per unire il palazzo di città del Kaiser alla residenza reale di Charlottenburg. Superata la porta, attraversa quindi il Tiergarten, passa sotto la colonna della Vittoria, e via via diventa infine la Heerstrasse, la strada degli eserciti, che taglia in due la zone olimpica e va in direzione Parigi. Si sa quante volte la quadriga che orna la sommità della Porta di Brandeburgo è stata voltata nella direzione della marcia. Unterdenlinden come titolo è il rumore cadenzato di queste parate, il battere degli stivali, le insegne alzate” (p. 129).
Battono gli stivali sul viale dei tigli, una volta ancora: s’inscena la drammatica epifania delle marionette nere, la farsesca esibizione della logica oscena dell’assassinio dell’umanità, del dominio della paura e della dialettica paranoide del fanatico della morte. Si narra d’un ritorno alla vita (pubblica) d’un Adolf e d’un Bormann, a vent’anni di distanza dalla sconfitta e della (presunta) morte: e d’una nuova conquista del potere economico e politico, a partire, come una volta, dal sostegno dell’industria. Adolf s’aggroviglia alla presidenza d’una industria di sardine-uomo, preparando la scalata al potere. Approdare all’illegalità sotto la protezione della legalità: operare con freddezza, autocontrollo e decisione, salvo poi tornare a titillare la fragilità del popolo, mistificando la realtà e promettendo miracoli e fortune, servendosi dello spettro d’un nemico e dell’arma della paura per pilotare e governare le sorti dei cittadini. D’un popolo che deve essere unito dal culto per la propria nazione.
A questo proposito, nella speranza di non tradire lo spirito dell’opera, richiamo qualche passo tratto dalla recensione de “La scimmia e l’essenza” di Aldous Huxley, pubblicato nel 1948. Scrivevo: «Società che si regge su tre pilastri: la paura, il nemico, la nazione: esattamente come il disgustoso sistema contemporaneo. Ecco le lezioni del maestro Huxley. Il nazionalismo comporta la degradazione e la distruzione della specie umana. Il nemico serve a ottenere la solidarietà sociale. Per questo, “dobbiamo avere o un nemico esterno, o l’oppressione di una minoranza”. (…) La paura. Ecco la chiave di lettura fondamentale del libro. “La paura uccide in un uomo perfino l’umanità. E la paura, miei cari amici, la paura è la vera base e il fondamento della vita moderna. Paura della tanto agognata tecnologia che, se eleva il nostro livello di vita, accresce le probabilità di una nostra morte violenta. Paura della scienza, che con una mano ci toglie più di quanto generosamente profonde con l’altra. Paura delle istituzioni, di cui è facile dimostrare la fatalità, e per le quali, nella nostra fedeltà suicida, siamo pronti a uccidere e morire. Paura dei Grandi Uomini che, per acclamazione popolare, abbiamo innalzato a un potere del quale inevitabilmente fanno uso per ucciderci e asservirci. Paura della Guerra, che non vogliamo, e che tuttavia con ogni mezzo ci sforziamo di provocare”. I tre pilastri del sistema: nazione, nemico, paura. Tre concetti da svuotare d’importanza e trasformare, per contribuire a un rinnovamento dell’umanità”».
Roversi echeggia Huxley, che denunciava, interpretava e stigmatizzava lo stesso nemico: il regime totalitario. L’Adolf di Roversi è una marionetta camaleontica e tuttavia prevedibile, costretto a non trasgredire la rotta tracciata nel corso dell’aberrante sua esistenza, nella drammatica sua epoca; è razzista, odia cristiani e bolscevichi, mira ad abbattere la sovranità della Russia per garantire spazio vitale al suo popolo.
Ascolta Wagner con trasporto e commozione. Non beve, non fuma, non consente nessun contraddittorio ed è straordinariamente abile nel rovesciare le colpe e le responsabilità delle sue atrocità sull’accusatore. È un dirigente d’impresa in grado di quadruplicare i fatturati delle imprese, con mezzi mai estranei all’orrore e all’abominio. Ed è, penseremmo oggi, un genio del marketing. Parla per slogan: per convincere. Esiste solo la convinzione: egli è convinto e deve convincere. Deve concludere. Non ha importanza che convinca d’una menzogna o d’una falsità, o che ripudi l’umanità, la realtà, la vita degli esseri umani: Adolf deve convincere, a qualsiasi costo, in nome di inimmaginabili fatturati dell’azienda e dell’azienda-stato. Adolf è l’assassino della dialettica, e della logica. Ecco l’intuizione geniale di Roversi: Adolf s’è tradotto, non mutando essenza. Stratega del camuffamento e del lifting, rinuncia ai baffi e cambia abito nelle prime battute e si circonda di sosia, pronti a cadere in suo nome: punta a convertire le istituzioni del Movimento nello Stato, perché possa svanire ogni residuo di cultura democratica, per sradicare ogni opposizione. Non si tollerano contrasti, non si prevedono dibattiti, ovunque dev’essere: Ordine, Decoro, Autodisciplina. Sacrificio, per la Grande Ditta. La Nazione.
Roversi rassicura il lettore: l’incubo del passato è marionetta e spettro, e allora avviene che da un ufficio ci si ritrovi nel bunker di Berlino; e che Adolf sia disteso sul ventre della segretaria, ad ascoltare “il rombo dell’ala della morte”. Dramma d’ombre che non dovrebbe conoscere conclusione, e continuare ad essere rappresentato; perché l’intelligenza di quel nemico è l’arte del mascheramento, e della menzogna. Non il sangue, né l’amore può convertirlo: ha conquistato il regno della morte, dall’abisso continua a delirare. A questo punto, dimenticate quel che ho scritto e lasciate che le note di Picchi vi spieghino senso e profondità dell’opera: ma non perdete, in nessun caso, l’opportunità di leggere il testo di Roversi, perché è destinato ad educare nuove generazioni e a dar sostegno al popolo: in altre parole, all’immortalità.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Roberto Roversi (Bologna, 1923 - Bologna, 2012), romanziere, poeta e drammaturgo italiano. È stato animatore, con Pasolini e Leonetti, della rivista “Officina”. Ha fondato la rivista “Rendiconti”.
Roberto Roversi, “Unterdenlinden”, Pendragon, Bologna 2002. A cura e con le note di Arnaldo Picchi. Contiene un’importante sezione dedicata ai riferimenti bibliografici.
Prima edizione: Rizzoli, Milano, 1965.
Gianfranco Franchi, aprile 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.