Hacca Edizioni
2006
9788889920794
“Prendi pure la mia insolenza, l'anima spaventata. Mi sei venuto in sogno qualche sera fa mostrandomi un universo che avesse la forma di due fratelli attaccati. Hai detto che il mondo è doppio, che se una parte è bianca come te, l'altra è inevitabilmente scura come me. Hai detto che avrei dovuto raccontare una storia della Terra senza prendermi troppo sul serio, come una fiaba o uno scherzo e, come una macchina cieca, ho eseguito. Ho visto tutto, dolore, vita, sorgenti, e adesso credo pure sia tardi pensare a tra poco, a quando finirò. A quando il tempo è concluso davvero e in un minuto riesci a trovare anche lo spazio per una storia: la mia storia, la storia del mondo” (Pierantozzi, “Uno in diviso”, p. 163).
Esordio di Alcide Pierantozzi, scrittore e studente di Filosofia classe 1985, “Uno in diviso” è stato uno dei casi letterari del 2006. È un romanzo lirico e crudo, decisamente vicino alla lezione, stilistica e concettuale, della magistrale Kristof della “Trilogia della città di K”: stesso massimalismo, stessa dedizione al dubbio sulla natura della realtà (o: di ogni cosa), stessi protagonisti – due gemelli – qui addirittura siamesi (lettura psicanalitica sarebbe viatico ideale). È un libro capace di aggredire e sedurre il lettore, per il suo prepotente impatto visivo, per la crudezza pornografica di certe descrizioni, per la capacità di assimilarle e assemblarle con digressioni esistenziali sulla natura di Dio, del tempo, della morte. È un esordio memorabile, perché complesso, contorto, contraddittorio, estremo. Atipico, perché non ricordo esordi così “al limite”: al limite della nausea, per certe scene, al limite della poesia, soprattutto nelle ultime pagine, quando l'autore diventa narratore e ruba la scena ai due protagonisti; al limite dell'originalità, se solo non avessi letto (e adorato) il romanzo della Kristof. Non credo sia una variazione sul tema: credo sia un'invenzione che attinge alla stessa misteriosa fonte, ossia gli abissi della psiche, e dell'intelligenza. Pierantozzi mostra una fascinosa capacità di mescolare reminiscenze alte e altre: nomina e omaggia Dante e Franzen (“Le correzioni”), Tommaso e Agostino, Manzoni e Nietzsche. Rovescia la sua scrivania e i suoi scaffali nel romanzo, come fossero latte, e sangue. Tumultuoso, invadente, malato di grandezza, egoico: ecco un autore.
Paura per l'infinito e per i serpenti. Che somigliano tanto ai lacci, alle corde: semplici, si muovono, scattano; senza zampe, avanzano. Un serpente s'è nascosto nella fattoria. Il nonno dei gemelli va e l'ammazza: “il suo tronco divelto emise un flutto di latte insanguinato pieno come un'onda”, scrive Pierantozzi.
Taiwo e Kehinde sono gemelli siamesi: due busti, un paio di gambe. Non sono mai stati soli, non hanno mai avuto amici. E tuttavia, sempre isolati; niente cinema, niente concerti, niente socialità. Potevano sembrare “i rebbi di una forca, lo stemma di una ipsilon, la cima ardente di una doppia vampa” (p. 27); preferivano l'intelligenza alla fede, il sapere all'amore.
Kehinde è malato di un male che non conosce, e Taiwo è “guasto, inconscio del suo stato psicosomatico” (p. 29). Hanno perso la mamma a sedici anni. Per loro, il sesso è stato ingropparsi un cane, in bagno. Scambiarsi un bacio, “fraterno e antico”, la cosa più naturale del mondo (p. 92). Fare violenza su due donne svenute, massacrandole, mentre queste si cagano addosso. Accoltellandone un cadavere. Interrogando l'altra, finché ha un alito di vita. Scoprendo che si tratta della figlia del capo. Scoprendo che l'altra lanciava piccoli crocefissi sui binari del treno, perché non crescessero, perché non le cadessero più addosso.
Lavorano in una sauna, a Milano; tenendo la parte inferiore del corpo nascosta. Uno stipendio miserabile in due; ogni tanto spiano i clienti. E spiano cose che non dovrebbero accadere, giochi erotici omosessuali che finiscono nel sangue. Un assassino imprevedibile, e imprevisto. Da lì tornano i ricordi. La morte del padre, nella fattoria, perché voleva abusare ancora di loro e s'era fatto male, cadendo nella mensa dei suini; e uno di loro aveva strappato il suo pene dalle grinfie dei maiali. Per mangiarlo.
Quando guardano i passeggeri del bus, sembra loro di stare tra esseri simili – doppi - “dai gesti equivalenti, dalle perfette somiglianze” (p. 23).
Taiwo ha un ouroboro tatuato sul collo. Significa il tempo che ritorna su sé stesso. Inesorabile. E insensato: come i disegni della natura. Come un incubo ricorrente alienante e indecifrabile: un tizio che tagliuzza una scheda telefonica, poi s'accuccia in terra a raccoglierne i pezzetti.
“Immagini fulminanti, una successione di pagine fosche e splendenti che alternano ossessioni, torture, gironi danteschi, filosofia, sangue, suggestioni horror, riferimenti pasoliniani, passaggi efferati e altri pieni di una grazia purissima, quasi infantile” - scriveva Mancassola nella bandella. Indovinando dna e spirito d'una scrittura che non lascia scampo: t'attacca, e s'aggrappa alla pelle della tua consapevolezza, strappandola via, fino all'ultimo respiro.
Se questo non è un capolavoro è comunque un romanzo almeno memorabile: sfidate i vostri pregiudizi e la vostra resistenza al male, nutritevene; infine cadrà una neve catartica, e rigeneratrice.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Alcide Pierantozzi (San Benedetto del Tronto, 1985), scrittore italiano. Frequenta la facoltà di Filosofia dell'Università Cattolica di Milano. “Unoindiviso” è stato il suo primo romanzo. Collabora con le riviste Rolling Stone e Max. Suoi articoli sono usciti per Il Messaggero, Il Riformista, Inchiostro, Nuovi Argomenti, Il Foglio.
Alcide Pierantozzi, “Uno in diviso”, Hacca, Macerata 2006. Bandella di Marco Mancassola.
Approfondimento in rete: wiki it
Gianfranco Franchi, febbraio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Romanzo lirico e crudo, decisamente vicino alla lezione, stilistica e concettuale, della magistrale Kristof della “Trilogia della città di K”…