Bastogi
2004
9788881856596
Reportage narrativo e saggio divulgativo sulla musica cubana: questo è “Un’isola a passo di son”, un viaggio esclusivo in una cultura fondata su un sincretismo – l’ennesimo, dopo quello religioso – peculiare e insolito; commistione nuova d’elementi africani e iberici, con uno e un solo genere autenticamente cubano, incontaminato e puro; il misconosciuto – per noi europei, diversamente non estranei, ad esempio, a salsa, mambo, cha cha cha – son. Lupi è, in questa circostanza, sinceramente molto sorprendente: nei suoi libri di narrativa, sino a questo momento, era capitato di incontrare, pure occasionalmente, richiami e omaggi alla musica pop: italiana ne “Il palazzo”, cubana altrove qua e là (dominava Willy Chirino). In questo libro dimostra (rivela) invece una competenza e una preparazione piuttosto sbalorditive, integrando sia approfondite notizie biografiche a proposito dei protagonisti della scena musicale cubana dell’ultimo secolo, sia erudite digressioni a proposito d’ogni singolo genere, influenze tribali incluse. L’aficionado della musica latino-americana non potrà che essere estremamente soddisfatto, al termine della lettura, e avrà appuntato parecchi artisti da approfondire; l’estraneo alla materia si diletterà della puntuale mappatura dei generi. Quelli come me – spiriti rock, non estranei a qualsiasi genere non sia l’orrendo jazz – in prima battuta penseranno al film di Wenders, “Buena Vista Social Club”, quindi al fiuto da talent scout di Ry Cooder, infine a qualche concerto.
Non so voi, ma io ero – pure febbricitante – presente a uno degli ultimi concerti di Compay Segundo, a Roma, diversi anni fa, a chiamarlo ancora e ancora sul palco per i bis, ridacchiando mentre i suoi musicisti cantavano “Compay, Compay”, ballando sul palco. Poi ho passato qualche brutta nottata con visioni varie (niente di cubano, ammetto: purtroppo) figlie del febbrone, ma va bene così. Io c’ero. Ciò detto: sì, da appassionato del tres degli Apostle of Hustle e del fu Compay avevo molte aspettative. Non solo pienamente appagate: ma superate. Leggevo restando a bocca aperta. Gli appunti per questo articolo erano confusi con l’elenco dei desiderata. Multa paucis.
Il primo capitolo del libro ci racconta che Gordiano si trova, per la prima volta, in un contesto diverso da una casa particular: è in un villaggio, nell’isolotto di Cayo Largo, dove tutto è perfetto e a misura di turista occidentale e danaroso. Non a caso ci troviamo in una delle ex residenze del figlio di Batista. Lupi si trova lì per il figlio, perché in contesti del genere i piccoli si divertono; lui, a quanto pare, un po’ meno. Ma può frequentare la Scuola di Son per turisti; con l’occasione, tutti noi lettori (e ascoltatori) impareremo qualcosa di utile. Qualche concetto fondante: a Cuba la musica è percepita come movimento de cintura; qui si balla, in Spagna si canta. E la musica è negra e europea al contempo. Dipende dai generi.
Il son deriva dall’habanera (“Tu” di Edoardo Sanchez de Fuentes): è iberico (canti e musiche andalusi, galiziani, catalani, castigliani, canarioti: chitarra protagonista princeps) e africano (yoruba, congo, angolano, mozambichese: tamburi, percussioni a corde): è un genere meticcio, ma nazionale: mulatto, ispano-africano e rustico. Non mancano influenze italiane (opera) e gospel e jazz. Chitarra e claves (due bastoncini di legno che si percuotono) tra gli strumenti fondamentali. La struttura è semplice: ritornello di max quattro strofe, detto montuno, mentre per contrasto c’è il motivo della voce solista, in un’altra strofa (p. 25).
Esistono parecchie varianti, parecchie davvero. Cominciamo a scoprire il danzón, ballo da sala (1871) composto da son e testi: è creolo e influenzato dalla contraddanza francese, lo suona un’orchestra chiamata Charanga. La prima modernizzazione del son è la salsa, contaminazione figlia delle esperienze estetiche degli esuli cubani in Florida e in generale negli USA. Quindi, mambo e cha cha cha.
Maestro del son è Carlos Pueblo, rivoluzionario (è quello di “Hasta Siempre”, 1965): onestamente e coraggiosamente attivo già al tempo di Batista, fu eroe del regime. E dire che oggi – insegna Lupi – i cubani vorrebbero dimenticare i suoi pezzi, segno d’una sconfitta: li vanno suonando per gli italiani, confidando nelle mance. Una volta il son era l’espressione pulita di chi, come Nicolas Guillén, cantava il negro e la povertà, Vietnam, Martin Luther King e Gagarin: un Paese che “risorge dall’oblio della dominazione e vuole essere artefice del futuro” (p. 22). Il son era ed è l’espressione della resistenza alle influenze USA: s’evolve (anche) nella salsa, come nel caso del disilluso, amaro e malinconico Willy Chirino: poeta nostalgico dell’isola (vive a Miami), cubanissimo.
Tra gli altri generi, ecco la rumba, africanissima, erotica (figurazioni sensuali, volgari o satiriche), urbana: possiamo distinguere in: “yambù, rurale e primitiva, columbia, ballabile, e guaguancò, più narrativa nei testi” (p. 15); e l’habanera, sorta di pre-tango; quindi la trova, figlia della grande tradizione provenzale trobadorica, interpreti principali Garay e Silvio Rodriguez. Poi il bolero, diversissimo da quello spagnolo, sintesi trobadorica afro-spagnola; la vieja trova, neoromantica e popolare, chitarra-voce o giù di lì, e il filin, “feeling”, sentimento purissimo della nueva trova: mambo invece è una parola che apparentemente non vuol dire niente; può essere il grido ripetuto dai ballerini, un omaggio alla sacerdotessa vudu che officia un rito, parola congo o slang per “situazione”: è il ritmo anarchico d’un popolo estraneo alle regole, portato a improvvisare, illustra Lupi. Non manca una sorta di jazz evoluto – il cubop, latino (p. 111) e il rock, a livello underground (batterista d’una band è quel Torreguitart Ruiz che Gordiano traduce da anni…).
Da non dimenticare che il merengue è dominicano, non cubano.
Una delle argomentazioni più suggestive – un intero capitolo (p. 106: “Un furto chiamato Guantanamera”) e qualche accenno già a p. 16 – è dedicata alla storia di “Guantanamera”, clamoroso plagio di Pete Seeger d’un pezzo inciso già da Joseito Fernandez.
Da non perdere le note sull’armónico, la chitarra a sette corde inventata da Compay Secundo, e quelle su tutti gli strumenti classici cubani (dalle maracas, strumento precolombiano, in avanti: ecco Hembra e Macho, i due tamburelli uniti da un listello di legno che formano il bongó, e il trés, chitarra inventata a Baracco, tre corde)
Non mancano – ad annunciare il terzo e sinora ultimo saggio dedicato a Cuba, “Almeno il pane, Fidel” – diverse osservazioni destinate a fare breccia nella fatiscente fortezza della propaganda castrista; si comincia annotando che Cuba vive un periodo speciale “fatto di sequestri e fughe, esecuzioni sommarie e marce di regime, fallimenti conclamati e sogni infranti” (p. 9); progredendo, Lupi accenna che si vive con circa cinque dollari al mese, che i cittadini campano di mercato nero e di mance dei turisti, che anzi addirittura spesso la mancia è il vero stipendio. Descrive una società “non più comunista, e non ancora capitalista”, percepita dai suoi cittadini e dai cittadini democratici e onesti di tutto il mondo come un’inaccettabile aberrazione dittatoriale. Non può ricevere sua moglie – cubana – in albergo senza che le guardie non le facciano irritanti e sgradevoli domande: è una forma di razzismo al contrario, in una nazione comunista in cui lo straniero può tutto e il cittadino molto poco. Siempre.
Il saggio è dedicato – una volta ancora – alla Musa Dargys, “che mi ha fatto innamorare di una terra fantastica”. I versi in apertura omaggiano – come da abitudine lupiana – un artista caro: in questo caso è il musicista Ernesto Duarte, con “Cómo fue”.
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“Questo libro l’ho scritto subito dopo l’uscita di Cuba magica ed era pensato per Mursia, casa editrice con la quale avevo firmato un diritto di opzione per dieci anni, ma non lo hanno voluto. Sono le stranezze del mondo editoriale. Non ho ancora capito perchè Mursia abbia pubblicato Cuba magica e abbia opzionato per dieci anni i materiali cubani per dopo rifiutare sistematicamente tutto quello che proponevo. In ogni caso il libro è uscito per Bastogi, un discreto editore che possiede una collana musicale abbastanza diffusa e che soprattutto non usa la politica del contributo spese per la saggistica (nella narrativa e nella poesia purtroppo sì). È un libro scritto per pura passione, perchè Bastogi ha pagato i diritti con una cinquantina di copie del libro, le vendite non sono state esaltanti, ma resta l’unico testo completo edito in Italia sul son e sulla vera musica cubana. Mi sono documentato su fonti dirette cubane che ho tradotto con scrupolo e attenzione e devo dire che questo libro mi è costata fatica, sia per leggere in spagnolo che per cercare i testi. Per fortuna che a quel tempo potevo andare a Cuba e così molti libri li ho comprati nelle case dei cubani per pochi pesos. Ho visitato il museo della musica all’Avana, ho visto concerti di son, ho parlato con persone legate al mondo della musica popolare. La struttura del libro è quella del reportage narrativo e cerco di realizzare anche un affresco della società cubana partendo da argomenti musicali. L’editore mi aveva parlato della possibilità di una seconda edizione che andrebbe aggiornata inserendo un testo su Polo Montañez che Lankelot ha pubblicato. Vedremo...” – scrive Gordiano nel maggio 2007.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Gordiano Lupi (Piombino, 1960), romanziere, poeta, saggista, recensore, soggettista, sceneggiatore, traduttore, editore italiano.
Gordiano Lupi, “Un’isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana”, Bastogi, Foggia 2004. Foto di Stefano Pacini. Contiene una bibliografia essenziale.
Gianfranco Franchi, maggio 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.