Garzanti
9788811363545
Da oltre un secolo Svevo rivela, ai lettori e ai letterati, una figura esistenziale carica di significati, di dolorosa coscienza dei contrasti che la animano, di lancinante e splendida inadeguatezza all’esistenza: quella del modernissimo, grottesco, credibile intellettuale inadatto alla vita, l’inetto.
L’argilla che l’ha plasmato non s’è disfatta. La società postindustriale ha soltanto acuito ed esasperato le ragioni della sua esistenza, e della sua inadempienza alla vita. Alfonso Nitti potrebbe essere il mio vicino di casa o il mio collega. Alfonso Nitti potrei essere io. È un mio simile, lo riconosco e ne prevedo il comportamento, riesco a simularlo con discreta esattezza.
Alfonso Nitti lavora in banca e non sente di essere opportunamente impiegato, né adeguatamente retribuito. Ma non si ribella. Si sente distante da tutti per via di non riconosciuti né espressi talenti intellettuali e letterari; e ama sin quando non possiede, quindi fugge, vigliacco, pretendendo l’abbandono. Alfonso è irrequieto, malinconico, sognatore scostante: vive vagheggiando scritture di libri mai davvero intraprese, studiando per migliorarsi, o forse per meglio distaccarsi dalla realtà.
Il primo romanzo di Italo Svevo, “Una vita”, venne ideato e scritto tra 1887 e 1892; venne pubblicato – a spese dell’autore – nel 1892, indicando come anno di stampa il 1893. Il titolo originario era “Un inetto”. Il nuovo titolo venne suggerito dal prestigioso editore Treves di Milano, che aveva comunque rifiutato il manoscritto. Aron Hector si firmava Italo: aveva due vite, in una era un impiegato, nell’altra scriveva – interpretando e precorrendo i tempi – e studiava. Avrebbe affrontato con dignità clamorosi insuccessi letterari sino alla maturità, accidentalmente coincidente con una morte prematura. Nel frattempo non viveva male: aveva una posizione, considerazione sociale e stabilità economica, per via d’un indovinato matrimonio.
Alfonso Nitti, questo suo primo personaggio, non può conoscere nemmeno sommaria profondità psicanalitica; Svevo ne fu forse primo e precoce studioso tra i letterati, non solo triestini (merito di Weiss, è chiaro) ma “L’interpretazione dei sogni” era di là da venire, nel 1892. Alfonso viene invece presentato e letto con acuta profondità psicologica, con una abissale profondità psicologica: capace di leggere le sue intenzioni profonde, di smascherare le sue contraddizioni, le sue menzogne a se stesso, la sua – ripeto la parola chiave – inadempienza alla realtà. L’azione esiste, tendenzialmente, quando costituisce fuga dalla responsabilità, o assunzione di responsabilità minori e non fondamentali. Esiste come incomprensibile e annullante generosità.
L’inazione, l’ozio, è padre di superbi e indecifrabili voli pindarici; di quella che Lombroso avrebbe definito, nel suo “L’uomo di genio”, monomania intellettuale, un tempo tra le cause d’interdizione e di internamento, o di superbe creazioni artistiche.
Alfonso è un grigio impiegato che soffre “Stanchezza? Somigliava meglio a nausea. Lentamente il suo lavoro di giorno in giorno aumentava, ma in qualità di poco o nulla mutava. In un’intiera giornata egli aveva da costruire uno o due periodi; aveva invece da copiare innumerevoli cifre, ripetere innumerevoli volte la stessa frase. Verso sera la mano, l’unica parte del suo corpo veramente stanca, si fermava, l’attenzione non stimolata si distraeva e qualche volta doveva gettare la penna e lasciare il lavoro, per una nausea da persona che ha preso di troppo di un solo cibo. Non era mai a giorno con i suoi lavori e al suo malessere si aggiungeva l’inquietudine” (p. 60) – e questa descrizione è così felice, indovinata e vera che mi viene da sorridere, perché la vita d’ufficio diventa così, ondata d’ore passate a ripetere e inserire senza creare e senza immaginare nulla: da freddi esecutori, presenti sin quando c’è bisogno (cfr., nel romanzo, dramma d’un lavoro domenicale e relative pretese del direttore dell’azienda: conseguenze sul dipendente incluse), presenti con la carcassa e mentalmente assenti, mani doloranti a forza di pestare tasti.
Alfonso è remissivo, in questa banca Maller. Viene da un villaggio e non capisce la città – e in questa incomprensione c’è un pizzico di senso di superiorità, intellettuale e morale (e proprio sulla Morale vorrebbe scrivere un libro di Filosofia). Mentre i suoi colleghi s’affannano a scalare posizioni in azienda e a conquistare credito e approvazione sociale, lui fa grandi pensieri e s’illude d’essere quello che non è, magari perché dà ripetizioni di italiano alla figlia dei padroni di casa (che vorrebbero essere, nelle ruffiane intenzioni materne, altro genere di lezioni) o perché riesce a parlare di libri.
S’innamora, forse inevitabilmente emulando l’ambiente, della figlia del direttore; si ritrova parte e protagonista d’un intrigo femminino d’una governante, riesce ad avere la sua Annetta, con cui scriveva misteriosi romanzi a quattro mani, e nulla lingua letteraria. Annetta prende tempo per parlarne al padre, dice va al paese per qualche tempo, la governante cerca di fermarlo, spiega che se così sarà perderà la sua amata, ma Alfonso vuole andarsene e vuole perderla, magari sua madre sta male e ha bisogno di lui, al paese.
Sua madre infatti sta morendo. Lui va, assiste, s’ammala, sistema tutto, torna. Troppo tardi, Annetta è passata alla concorrenza e suo padre non avrebbe accettato, in ogni caso, quel loro amore.
Cosa rimane? Sognare sorte diversa, scrivere forse? E cosa, e per quali lettori? Avanzare di grado nell’azienda del padre d’una donna ormai perduta, con una posizione compromessa? Accettare l’epilogo e restare seduti alla scrivania, col mal di mani e la nausea per non ammettere che è tutto lì, nella società odierna, in quelle otto, dieci ore che bruci per essere “un po’ più ricco, ma schiavo” e non povero ma libero? Niente affatto. Rimane da salvare l’onore con Annetta, tentare un incontro chiarificatore, ritrovarsi al cospetto del fratello di lei e sfidato a duello. Infine, suicidarsi perché duellare non si vuole e non si sa, perché quel duello sarebbe un’azione. Puskin non sarebbe d’accordo, ma era pur sempre un letterato con ruolo, posizione, entrate, zar adorante e relativa gloria coeva, vi direbbe Alfonso; facile essere coraggioso quando la tua identità è il tuo ruolo.
Alfonso non si riconosce nel suo ruolo; non si riconosce nel suo lavoro; non si riconosce nel suo tessuto sociale; non si riconosce nella città; riconosce solo i suoi pensieri, il suo inespresso genio, i suoi romanzi mai scritti e mai pubblicati, e la loro inevitabile popolarità. Alfonso non c’è più da un pezzo, forse non c’è stato mai, ha aspettato soltanto d’intravedere una via d’uscita; l’ha presa subito, quella strada, perché mica è alienato come i suoi colleghi.
Lo stile di Svevo, nella sua opera prima, è asciutto e essenziale; la lingua è scabra e semplice, l’architettura dell’opera ben calibrata. Ma questa è una storia, è un romanzo che non vuole dare troppa enfasi allo stile, si concentra sul suo protagonista, sulle sue miserie e sulla sua inadeguatezza. Del resto, Svevo non scriveva con naturalezza in italiano, Trieste era austriaca, come sempre. Altro era il dialetto. Scissione su scissione: una la lingua del lavoro, altra la lingua letteraria; una la professione, altra la missione. E così, arrancando, chiudiamo il Novecento letterario con l’annuncio del Novecento letterario e di quel che ancora non s’è concluso, ossia l’irresistibile impressione che questa scissione tra reale e ideale, tra desideri e certezze, tra sogni e cruda quotidianità, tra pensiero-immaginazione-ambizione e relative espressioni siano destinati a fare ancora male a legioni di Alfonso Nitti.
Scrittori e intellettuali d’un tempo ideale per contabili, impiegati, grigi esecutori di mandati. Oggi, finalmente, si tratta di mandati “a progetto”, con scadenza precisa e puntuale, e stupende fasi di disoccupazione a rinverdire fantasia e sogni di gloria. Così si può leggere, pensare, scrivere e sognare: d’essere altro. Amare questa vita, non solo una donna, è sempre più difficile.
Non se ne esce con tanta facilità, Alfonso è fatto di carta e può mentire. Aron Hector è rimasto seduto alla scrivania. Intanto, creava. Un po’ di nascosto. Prendete nota.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Aron Hector Schmitz, alias Italo Svevo (Triest, Austria, 1861 – Motta di Livenza, 1928), scrittore italiano. Ha esordito pubblicando i racconti “La lotta” (1888) e “L’assassinio di via Belpoggio” (1890) sul quotidiano triestino “L’indipendente”.
Italo Svevo, “Una vita”, Biblioteca del Piccolo, Trieste 2003.
Prima edizione: “Una vita”, 1892.
Gianfranco Franchi, luglio 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Sul primo romanzo di Italo Svevo…