Un commissario scomodo

Un commissario scomodo Book Cover Un commissario scomodo
Ennio Di Francesco
Sandro Teti
2009
9788888249445

Collocato d'ufficio in congedo nel 2004, pensionato in ossequio a un decreto legislativo poco noto dopo trentacinque anni di servizio, Ennio Di Francesco racconta la sua storia in questo “Un commissario scomodo”, autobiografia nient'affatto romanzata ma, per dirla con Bobbio, “raccontata con vivacità, con tanti particolari riguardanti fatti, luoghi, persone, e con la passione di chi s'è dedicato con serietà e convinzione al proprio lavoro”. È stato un piccolo Serpico, per la nostra Polizia. Non ha combattuto la corruzione interna, ma la scarsa democrazia d'una struttura che non conosceva sindacato e non garantiva adeguati e dignitosi diritti ai suoi lavoratori. Ha dato l'anima per difendere i diritti dei suoi colleghi e per equipararli a quelli degli altri lavoratori: e per insegnare ai lavoratori che Pasolini non aveva torto, quando scriveva di Valle Giulia. Figli del popolo erano e rimangono, i poliziotti: sono nostri concittadini deputati a difendere l'ordine e la legge d'uno Stato al quale tutti apparteniamo, e in cui tutti ci riconosciamo. Sono nostri concittadini che rischiano la pelle per poche lire e poca gratitudine popolare, pur di garantirci serenità e sicurezza. È una lezione molto semplice, ma nient'affatto universale.

**

Figlio d'arte (padre sottufficiale dei Carabinieri, medagliato), Di Francesco aveva scelto la Polizia per scelta di vita, per sogno d'avventura e d'infantile giustizia. Nei giorni del Liceo, a Pescara, era compagno di classe di quattro futuri giudici. Uno di loro, Emilio Alessandrini, sarebbe stato assassinato dai sicari di Prima Linea, a Milano. Accadeva giusto trent'anni fa.

Di Francesco, post laurea in Legge, vince il concorso per prestare servizio di leva come Ufficiale dei Carabinieri. Si fa le ossa a Genova, tra stadi e manifestazioni, inclusa quella rabbiosa del 1966, Delfino (MSI) in piazza, guerriglia rossa per protestare contro la “profanazione” d'una città Medaglia d'Oro della Resistenza. EDF viene addestrato dal valoroso capitano Emanuele Tuttobene, massacrato dalle Brigate Rosse assieme al suo autista Antonio Casu qualche anno dopo. Quindi, primi incarichi in Alto Adige, a Siracusa e Catanzaro, in occasione del primo megaprocesso antimafia.

Di Francesco passa nella selezione nazionale dell'Intersind, associazione sindacale-datoriale dell'IRI; in commissione, il giurista Gino Giugni. Poco dopo, supera il concorso per vicecommissario, a Roma. E lascia l'Intersind, rinunciando a tranquillità e buon stipendio. 1970. Terminato il corso, viene assegnato alla questura di Genova. Ufficio di notturna. Erano anni duri, in cui i funzionari di Polizia dovevano comprarsi l'arma da fuoco di tasca propria. Di Francesco appende il glorioso san Michele Arcangelo e un crocifisso alle sue spalle, e si comincia. Si comincia male, perché sostituisce un commissario che si lamenta per i trasferimenti, lo sfruttamento, la pessima paga, a dispetto del suo valore. Tre mesi dopo, quel commissario si suicida in un alberghetto di periferia. Passano due anni di vita da poliziotto di notte, a scoprire “vari e imprevedibili episodi di criminalità e di emarginazione”. La sorpresa, a parte quel che si può facilmente immaginare (racket, droga, furti d'auto, furti nelle abitazioni) è il gran numero di litigi in famiglia denunciati di notte in Polizia, e il triste numero di suicidi. Spesso giovanili. La sorpresa è che, spiega Di Francesco, “le condizioni dei lavoro dei poliziotti erano offensive non solo rispetto alla delicatezza dell'incarico, ma anche alla loro dignità di uomini e lavoratori” (p. 45). Niente straordinari, né incentivi morali. “Sfruttamento elevato a sistema”, chiosa, durissimo, il commissario.

Nel 1972 EDF viene trasferito alla Squadra Mobile, responsabile della sezione Narcotici. Il commissario è sempre più cosciente che la Polizia è semplicemente l'esercizio concreto di una funzione delegata dai cittadini per assicurare a tutti “quieta convivenza sociale, secondo i principi sanciti dalla Costituzione” (p. 62). Ma i poliziotti non devono essere utilizzati come guardiani armati contro altri lavoratori, o contro i disoccupati. Di Francesco vuole che gli operai sappiano che le condizioni di lavoro dei poliziotti sono ingiuste, malpagate e difficili proprio come le loro; trova sostegno nella redazione di “Ordine Pubblico” dell'ex partigiano Franco Fedeli, piena di poliziotti “carbonari”. Fonderanno il Movimento dei poliziotti democratici per la riforma della Polizia. Il lessico è quello ben riconoscibile dei socialisti: “Occorreva infatti ricondurre ad armonia costruttiva ogni fermento, evitando provocazioni e fughe in avanti che, pur spontanee, potessero dar luogo a dure repressioni o creare disorientamento nell'opinione pubblica” (p. 65). Tuttavia EDF ribadisce che non ci si voleva allineare a nessun partito, soltanto ai cittadini e alle istituzioni democratiche.

Iniziano gli anni di piombo. Di Francesco mostra serie perplessità sulla vicenda Pinelli-Calabresi, ricordando che i due si conoscevano bene, si stimavano e già s'erano scambiati dei libri, in passato; e ricorda che Calabresi era un uomo “onesto e moderno, socialmente aperto”. Deplora che sia stato ucciso così, come un cane. E giura, portando la sua bara sulle spalle, di lottare perché nessun poliziotto sia più manovrato “come forza bruta, carne da macello o capro espiatorio” (p. 68). Perché questo è quello che stava capitando.

**

EDF cerca di studiare e fronteggiare la minaccia armata delle Brigate Rosse. Vuole capire. Il loro primo nucleo, da Curcio alla Cagol, è composto tendenzialmente da giovani borghesi, studienti o laureati in Sociologia a Trento. Qualcuno ha già scoperto infiltrazioni nei movimenti marxisti-leninisti, nate per esaspere la già bollente “carica rivoluzionaria”. Sono i giorni del sequestro Sossi, fortunatamente scampato al martirio dopo una dura prigionia; e dell'omicidio di due impiegati del MSI della sede di Padova, 17 giugno 1974. I comunisti armati parlarono allora di “errore e stato di necessità”. Due anni più tardi, i protagonisti della strategia inflessibile nei giorni del sequestro Rossi, il procuratore Coco e i suoi uomini, sarebbero stati trucidati dalle BR. Le BR ammazzavano per il gusto di ammazzare, uccidevano un operaio comunista come Guido Rossa (p. 165) esattamente come magistrati, criminologi, poliziotti, liberi cittadini. Un incubo rosso di sangue, e di un'ideologia atroce. Il terrorismo nero era infetto della stessa violenza, ma contava su una manovalanza ben inferiore. Ricordiamoci per bene, sempre, da cosa siamo scampati. Sempre. Tutti, proprio tutti.

Di Francesco, sempre più militante “clandestino” del sindacato di Polizia, si ritrova trasferito a Roma, subito rimpianto da Genova, e da tutti i drogati che aveva aiutato a smettere. Eccolo nell'Ispettorato Generale contro il terrorismo, in sbagliata competizione con la brigata antiterrorismo dei Carabinieri di Dalla Chiesa; e non certo per volontà di EDF. È il 22 luglio del 1974. Due mesi prima c'era stata la bomba in piazza della Loggia, a Brescia, otto morti e cento feriti. Un mese dopo ci sarà l'esplosione dell'Italicus: dodici morti e centocinque feriti. Le indagini non portano a niente. Se non a una sinistra scoperta: nelle case dei neofascisti si incappa, curiosamente, in emblemi e sigle dell'estrema sinistra rivoluzionaria (p. 76). C'è qualcuno che gioca a fare confusione. Altra strana scoperta: l'annuncio della bomba era arrivato da una telefonata fatta da un'impiegata del SID, infiltrata nel PCI e tra gli esuli greci in Italia.

L'angoscia di qualcuno si spiegava facilmente: più i terroristi rossi uccidevano e spaventavano il Paese, più poteva profilarsi la nascita d'uno Stato dittatoriale per fronteggiare la loro minaccia, e annichilirla. Questo era il senso della strategia della tensione. “I terroristi erano lucidi combattenti per un'utopia sanguinaria e sbagliata che avrebbe fatto gioco ai torbidi mestatori della strategia della tensione”, ribadisce più avanti Di Francesco (p. 152).

Nel Natale 1974 c'è una bella notizia: i “carbonari” del sindacato di Polizia vengono allo scoperto, a domandare democrazia, libertà e giustizia; l'anno successivo non mancheranno “intimidazioni e rappresaglie” (p. 91) “legittime” della dirigenza, per stanare i rivoluzionari e sedarli. D'altra parte è bene ricordare che un decreto del 1944 vietava ai funzionari di Polizia di aderire ad associazioni sindacali, “pena la decadenza dell'impiego” (p. 97). Di Francesco viene trasferito alla Questura di Roma, nel marzo 1975.

C'è spazio per la notizia del doloroso e sofferto arresto di Pannella, per fumo di marijuana: “Se come funzionario ho dovuto applicare una legge anacronistica e iniqua, come cittadino mirante a una società più giusta e più umana, non posso non esprimerle stima e ammirazione” (p. 106). Destinatario, il politico allora residente a Regina Coeli. La Polizia fa rapporto. “Reato di telegramma”. Segue quarantena. Nel novembre 1976, Di Francesco viene trasferito al centro Criminalpol del Lazio. Combatte la droga, e cerca di spiegare ai giovani che drogarsi non è rivoluzionario, come insegna la contestazione: è invece una tecnica di finanziamento di oligopoli internazionali criminali, interessati piuttosto a rincoglionirli e a estraniarli dalle loro rivendicazioni politiche.

1978. Interpol: ufficiale di collegamento europeo nel settore antidroga. “Era la prima volta che a un funzionario italiano veniva affidato tale incarico. Non accettare significava rinunciare a un'occasione professionale prestigiosa e utile per il nostro Paese” (p. 157). Non sarà un'esperienza solare. Da qui in avanti, Di Francesco racconta puntigliosamente le principali indagini curate per l'Interpol, sino al ritorno in Italia, nel Servizio centrale antidroga. Siamo a metà degli anni Ottanta. Nuove, terribili difficoltà politiche feriscono il nostro Serpico, che vive un crollo profondo, e lascia la Polizia (p. 215). Ha inizio, poco a poco, una nuova carriera, presso la Farnesina. E intanto scrive. Il suo “Un commissario” uscirà, prefazione di Bobbio, nel 1990, per un editore cattolico, Marietti; quindi, verrà ripubblicato da Rizzoli, nella BUR.

Di Francesco si scuote. Si candida nel PSI, per volontà di Giuliano Amato, battendosi per la legalità (negli anni di Craxi!): perde per 300 voti. Insegue un chimerico ritorno in Polizia, e intanto passa a Palazzo Chigi, previa altra fallimentare parentesi politica, con Alleanza Democratica. 1997. Si rientra, per interessamento di Arlacchi, e di Napolitano, come “patrimonio democratico e professionale per l'amministrazione” (p. 240). Le cose non andranno come previsto e come sognato. Fermiamoci qui.

**

Sono e rimango un grande ammiratore di Serpico, e non posso che nutrire simpatia per Di Francesco. Le sue rivendicazioni politiche, civili e democratiche, sono riuscite nella delicata impresa di avvicinare l'opinione pubblica a una maggiore comprensione e a un ben diverso apprezzamento dell'operato delle Forze dell'Ordine. A ben guardare, il senso principe dell'attività del “commissario scomodo” è stato questo. Intanto, come tutti i suoi colleghi, ha servito lo Stato e il popolo con onestà e determinazione, guadagnando consensi e apprezzamento per la sua abnegazione e la sua dirittura morale. Bene che questo suo memoir circoli, come documento ideale per la sensibilizzazione delle nuove generazioni: di poliziotti, e di liberi cittadini. Nasce per parlare a entrambi, e non per parlare di un uomo soltanto. Per quel che può valere la mia gratitudine e la mia riconoscenza di letterato e di cittadino, voglio esprimerla qui, adesso, con un doveroso inchino.

Non importa lo stile della scrittura, in certi frangenti. Né il disordine o la vaghezza dell'esposizione. Importa il senso, il spirito, il sangue di questa scrittura. Importa interiorizzarlo, importa esserne degni, importa memorizzarlo. A dovere. È un dovere.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Ennio Di Francesco (Sant'Eufemia di Aspromonte, 1942), già ufficiale dei Carabinieri e funzionario di pubblica sicurezza, promotore negli anni Settanta del Movimento per la democratizzazione e la riforma della Polizia; dirigente Interpol. Dirige l'unità italiana dell'Accademia Europea di polizia.

Ennio Di Francesco, “Un commissario scomodo”, Sandro Teti, Roma 2010. Testimonianze di Norberto Bobbio e Gino Giugni. Collana Historos, diretta da Luciano Canfora.

Gianfranco Franchi, marzo 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.