Ponte Sisto
2010
9788895884172
"Maledetto il Paese in cui i cittadini non mangiano lo stesso pane e non parlano la stessa lingua", scrisse qualcuno. Condannato a non avere pace, si potrebbe aggiungere, quel Paese che non si riconosce nella stessa storia, nella stessa memoria, nella stessa patria. Per animare un futuro estraneo alle discriminazioni e agli odii, per conciliare la memoria d'un popolo diviso, per restituirci una "realtà storica condivisa", Ugo Intini ha scritto questo strano e romantico ibrido tra un memoir e un libro di storia. "Perché tutte le grandi nazioni hanno fatto pace col proprio passato, ricostruendolo in modo condiviso e rendendolo uno strumento di unità". E allora deve venire anche il nostro momento: dobbiamo costruire un futuro sulle fondamenta d'un passato che unisce, e non più frammenta.
GF: Scrive: "Oggi c'è chi contesta il processo di unità nazionale e i suoi eroi. C'è chi tenta di strappare le radici della Nazione nelle quali i giovani partigiani e i giovani repubblichini si riconoscevano, innalzando entrambi il tricolore (oggi contestato) nel momento in cui si uccidevano". E questo sta determinando una fragilità politica e identitaria unica, in Europa. Chi è responsabile di questa regressione?
UI: Qualunque grande Paese moderno ha una storia condivisa. E questa storia condivisa spesso, per la verità, viene creata attraverso forzature e artifici costruiti, come si suol dire, "a fin di bene". Purtroppo, l'Italia ha sempre meno una storia condivisa, perché non soltanto la ferita della Guerra Civile non è mai stata rimarginata, ma nuove ferite si sono aperte. Andando avanti nel tempo,la vicenda di Mani Pulite continua a dividere gli italiani; andando indietro, addirittura viene contestato il Risorgimento, il pilastro stesso del'Unità nazionale. Nessun Paese è in queste condizioni. Credo che i media, le forze politiche e le istituzioni debbano fare un grande sforzo per ricostruire una storia condivisa: un'occasione è il 150° dell'Unità d'Italia. Si rischia di mancarla, tutti conosciamo il disagio del Presidente del Comitato per le Celebrazioni, Ciampi, in questo periodo...
GF: Secondo lei, "Oggi la politica (e con lei il suo indispensabile strumento, i partiti) è stata delegittimata, praticamente cancellata, più di quanto sia accaduto in qualunque altro Paese al mondo". Posso domandarle perchè e come è accaduto, come se fossi un giornalista straniero?
UI: La politica ha perso peso in tutto il mondo. Perché nel tempo delle ideologie e della miseria la politica appariva una strada per uscire dall'indigenza, per conquistare un ideale. Aveva un valore salvifico. Era quasi una militanza religiosa. Uscire da un partito era un trauma durissimo, scatenava angoscia, come fosse uscire da una Chiesa. Oggi non è più così ed è anche un bene. In tutto il mondo la politica ha perso peso. In Italia ciò è avvenuto più che altrove. Ad esempio, in nessun Paese al mondo in pochi anni tanti partiti si sono dissolti, cambiando nome e simbolo, al punto che oggi – è paradossale ma è così – il partito più antico è la Lega. In tutto il mondo cambiano gli uomini ma non i partiti. In Italia avviene il contrario. Cambiano i partiti ma non gli uomini. La malattia della democrazia e dei partiti è dunque una malattia universale – però le malattie si sviluppano prima nei corpi più deboli, e l'Italia è un corpo più debole degli altri.
GF: Bombardamenti. Ha sostenuto che manchi la memoria di quanto accaduto: per colpa degli storici, per colpa dei giornalisti, per colpa dei letterati (eccettuato il Piovene di "Viaggio in Italia"). Perché abbiamo rimosso umanità, vita vera, dolore e sangue di quei giorni assurdi? Orgoglio, vergogna, paura, opportunismo?
UI: Un po' tutte queste cose insieme. E certo anche il disagio per il fatto che ciò che sta alle spalle dei bombardamenti è qualcosa di moralmente inquietante per tutto il mondo moderno. Moralmente inquietante perché alle spalle c'è la teorizzazione – per la prima volta nella storia dell'umanità – dell'idea che si possa, anzi si debba, avere come obbiettivo lo sterminio di civili innocenti. Un'idea che non è estranea al moderno terrorismo. Bisogna aggiungere che l'Italia era un tempo un Paese giovane e i giovani non hanno memoria. Quindi, un tempo le vicende del passato appassionavano poco. Oggi le vicende del passato appassionano troppo, perché l'Italia è un paese di vecchi e i vecchi tendono a soffermarsi troppo sul loro passato.
GF: In quei giorni tristi, la domanda era: è caduta la mia casa o quella del mio vicino? Lei scrive che "Questa roulette russa era all'ordine del giorno", quando i cowboys ("gangster del cielo") s'avvicinavano per distruggere. Lei si chiede cosa sapessero dell'Italia questi australiani, canadesi, neozelandesi e inglesi che ci bombardavano. Oggi cosa ne sanno?
UI: Un soldato in guerra quasi sempre sa del Paese nemico quello che gli insegnano i superiori e la propaganda. Un giovane aviatore, volando su Milano, su Londra o su Hanoi, sa soltanto che deve sradicare il male. Se poi il male ha il volto di un bambino ucciso... L'espressione "gangster del cielo" era della propaganda fascista del tempo ma non si insisteva troppo sull'argomento. Anzi. I giornali dell'epoca minimizzavano. L'obiettivo era non spaventare il popolo... in questo senso c'è stato un convergere di interessi,sin dall'inizio, a minimizzare e rimuovere.
GF: Ancora sui bombardamenti. Lei ricorda che durante e dopo lo sbarco in Normandia, gli aerei dei liberatori bombardarono a tappeto le città uccidendo 70mila cittadini francesi: molti più di tutti gli inglesi morti sotto i bombardamenti nazisti. E ricorda il martirio impunito di Le Havre. Questo cosa dovrebbe insegnarci?
UI: Che in guerra prevale sempre una logica cinica, o realistica, o machiavellica. Ciascuno scelga la definizione che preferisce.
GF: Insomma: Amburgo, Pforzheim, Dresda, Zara, Colonia, Lubecca, Hiroshima, Nagasaki: per vincere la guerra bisognava uccidere chi non la stava combattendo... come insegnavano i generali Trenchard e Douhet.
UI: Sì. Curiosamente, due generali su opposte sponde, una inglese, una italiana e fascista, ma questa era la dottrina sviluppata negli anni Venti e Trenta per la prima volta; fa riflettere, perché c'è stato un salto di qualità, nella storia dell'umanità. Sempre gli eserciti hanno compiuto nefandezze, ma mai in questa misura, e soprattutto mai teorizzandolo.
GF: Il boom economico – credo lei sia uno dei primi ad averlo scritto con tanta convinzione – affondava le sue radici nell'Italia pre-bellica. Posso domandarle perché tutti sembrano averlo dimenticato?
UI: Non la metterei in questi termini. Non bisogna sopravvalutare il peso della politica nello sviluppo economico. Nasce innanzitutto dalla voglia di crescere delle persone, dalla loro vitalità, dalla loro fantasia; e dal progresso scientifico e tecnico. Questa spinta vitale e questa fiducia nel progresso partono dall'inizio del XX secolo, e si fermano solo alla fine. Si fermano perché la mia generazione e quella successiva sono state abituate a pensare che il progresso avrebbe portato ricchezza, benessere. Oggi l'approccio è radicalmente diverso. Non in Asia. E non nei Paesi dove i giovani sono largamente prevalenti.
GF: Che senso ha che sia passato da vincitore e da difensore della libertà dei popoli un regime, come quello sovietico, capace di determinare cinque milioni di morti per carestia indotta, in Ucraina, vent'anni prima, per strategia "di pulizia etnica e politica"? Che senso ha che i cittadini italiani abbiano dimenticato che a vincere era stata una nazione antidemocratica, disumana e liberticida?
UI: Beh, per la verità lo stalinismo e l'URSS sono passati per difensori dei diritti di libertà per un breve periodo, e solo nell'area della cultura comunista. Certamente la legittimazione data allo stalinismo dall'alleanza con l'Occidente, ha favorito nel dopoguerra la cecità di tanti, anche non comunisti.
GF: Ha scritto che non sono le bandiere nazionali, né i colori politici a poter costituire un punto di riferimento per distinguere i buoni dai cattivi, perché essi si trovano sotto tutte le bandiere e sotto tutte le fedi politiche. Non crede che questo approccio sia il principio della fine per la mitologia della Resistenza?
UI: Io sono cresciuto nel mito di Pertini e degli uomini della Resistenza. Penso che sia il pilastro dell'Italia repubblicana e dell'Europa. Non la metto in discussione come valore, come pietra fondante. Ho anche polemizzato con Pansa, di recente, su questo tema. Però questo non mi impedisce di vedere che specialmente nelle guerre civili si scatenano i peggiori istinti degli uomini e gli uomini buoni e cattivi stanno dappertutto. Per la verità, è il fanatismo quello che porta spesso alle azioni peggiori. Oggi si può pensare al fanatismo religioso...
GF: Racconta che nel dopoguerra esisteva una struttura parallela clandestina del PCI, coordinata da Secchia, rimasta in piedi per anni. E ricorda che la moglie di Seniga, Anita Galliussi, ex segretaria di Togliatti a Mosca, teneva in camera da letto, ben nascosta anche al marito, una radiotrasmittente. Una di quelle che tenevano in contatto PCI e KGB. Commentiamo assieme queste notizie.
UI: A me piace raccontare particolari appresi nell'esperienza diretta, non sui libri di storia. Io volevo molto bene a Seniga, uomo naif, straordinario, e mi raccontava lui queste cose. Ma sono cose note a tutti gli storici: il legame di ferro tra Mosca e il PCI riguardava anche quella che si chiamava un tempo la "doppia fedeltà", sia a Mosca che all'Italia. In caso di scelta... chissà come finiva. La mia idea è che Togliatti non fosse entusiasta dell'ipotesi di conquistare il potere in Italia, perché tutto sommato pensava di essere personalmente più al sicuro come capo dell’opposizione in un Paese democratico che come capo di un governo satellite di Mosca.
GF: Nel suo libro, sostiene che il massimalismo rivoluzionario comunista abbia saputo trovare, negli anni di "Mani Pulite", terreno fertile: comuni erano le critiche alla corruzione, alla partitocrazia, al parlamentarismo. Le domando: come avrebbe fatto il PCI senza Primo Greganti a sopravvivere all'ondata?
UI: Tutti i partiti si finanziavano in modo illecito. Primo Greganti è la punta dell'iceberg di una situazione che racchiude un paradosso. La mancanza di democrazia interna mise il partito comunista in parte al riparo dai rischi di corruzione. Mi spiego: le carriere e le elezioni a cariche pubbliche nel PCI erano decise dall'alto, per cooptazione. Ed erano pianificate, nel tempo. Questo in base al principio leninista del "centralismo democratico". Questo difetto di democrazia interna però impediva che i dirigenti pubblicamente visibili si cercassero da sé i finanziamenti per le proprie campagne elettorali. Il finanziamento del partito era pianificato dall'alto e avveniva attraverso un'organizzazione parallela; ciò metteva al riparo. Gli amministratori pubblici facevano ciò che diceva l'organizzazione parallela, ma non volevano sapere né perché né come.
GF: Ha scritto che i socialisti non vollero prestare ascolto alla magistratura politicizzata, a differenza dei comunisti. E fu così che si creò il legame tra PCI e magistratura. Vogliamo approfondire? Anni fa, sul Corriere della Sera, diceva: "Dopo la caduta del muro di Berlino, in tutto il mondo sono stati travolti i governi che avevano retto per decenni, c'è stata una Mani Pulite internazionale, come ha detto Di Pietro, dal Giappone all'India, al Messico... è iniziata una guerra commerciale mondiale, in cui gli alleati di ieri sono improvvisamente diventati gli avversari di oggi. È cambiato tutto, altro che toghe rosse. Sono convinto che abbiano avuto un ruolo anche i servizi segreti angloamericani".
UI: Nel mio libro "La politica globale" approfondisco "Mani Pulite Internazionale". La mia idea è che i grandi poteri economici, che spesso nei paesi anglosassoni si fondono col potere politico, avessero bisogno, sino al 1989, di forti sistemi politici per combattere il comunismo. Questa esigenza è stata cancellata dal crollo del Muro. Al contrario, dopo il 1989 hanno avuto bisogno di deboli sistemi politici affinché non ci fosse alcun freno alla loro espansione. La coincidenza per cui gli scandali politici sono esplosi dopo il 1989 contestualmente in tutto il mondo fa riflettere. E anche in questo caso l'Italia si è dimostrata l'anello più debole e il corpo più fragile: quello che s'è ammalato prima e nel modo più catastrofico.
GF: Egemonia culturale comunista nel secondo dopoguerra: quanto ha determinato la distruzione della memoria condivisa, e quanto il decadimento della libertà d'espressione, della pari circolazione delle idee e delle opere d'arte, dell'ingiusta visibilità delle pubblicazioni dei figli del dogma?
UI: Io penso che l'Italia sia un Paese curioso. Per quasi tutto il XX secolo, hanno prevalso culture antidemocratiche: autoritarismo regio, autoritarismo fascista, e sul piano culturale, dal '45 in poi, l'egemonia della cultura totalitaria comunista. Essa ha ritardato la diffusione ad esempio del pensiero di un liberale come Popper e ha oscurato scrittori famosi nel mondo ma non da noi, come Silone. Non dimentichiamo che il Corsera, nel 1977, pubblicava, in prima, Eco che spiegava che il marxismo era l'ideologia vincente del secolo...
GF: Scrive che l'appeal del fascismo e del comunismo è stato nell'elemento della rottura generazionale: militanza dei figli contro il moderatismo dei padri. E che molti intellettuali poveri hanno aderito ai totalitarismi per ambizione. Le domando cosa vede nel nostro futuro; a governarci sembra sia stato il moderatismo, per oltre mezzo secolo. L'Italia è la nazione delle riforme lente, meditate...
UI: Vedo nel presente e nel futuro dell'Italia il blocco dell'ascensore sociale. In qualunque momento dell'ultimo secolo un ragazzo privo di mezzi poteva fare carriera. Merito anche dei partiti politici. Questo vale per PNF, PCI e per tutti i grandi partiti democratici. La meritocrazia funzionava. È paradossale, ma oggi l'unico ascensore rimasto è la chiesa.
GF: Maccari diceva: "In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti". È sempre vero?
UI: No, molti anni fa il tema era di grande attualità. Oggi il tema è di minore attualità, perché la politica in IT conta poco e quindi le divisioni non appassionano più nessuno. Non è male che non ci si divida più per questioni del genere: è il viatico alla pacificazione nazionale.
GF: Secondo lei, Togliatti e Almirante erano credibili perché "avevano dimostrato che per le loro idee sapevano rischiare la vita". Insomma, tutto si poteva dire fuorché fossero incoerenti. Non vede nessun leader politico, oggi, degno di questi esempi? Può esistere, oggi, un partito capace d'essere "elemento di coesione tra le classi sociali?"
UI: I leader di allora venivano da un'epoca di ferro e fuoco, in cui per la politica si rischiava la vita. Da ciò veniva una parte del loro carisma, e della loro credibilità. Ciascuno era, per la sua fazione, un eroe. Però, come Brecht insegna, "Beato il Paese che non ha bisogno di eroi". Forse l'Italia non è uno di questi Paesi. O forse la credibilità degli uomini politici è oggi compromessa dal loro trasformismo; o forse ancora dalla distruzione dei partiti. La Chiesa, spesso fantasiosa, sostiene che esiste la grazia di “stato”. Significa che una persona modesta che assume un ruolo dirigente finisce per assumere autorevolezza e intelligenza per volere di Dio. Anche con i partiti succedeva qualcosa di simile. Non era Dio che dava autorevolezza, ma il carisma del partito. Anche un dirigente di statura modesta era rispettato in quanto voce del partito...
GF: Tre nomi da cui ripartire per conciliare la memoria di tutti. Edgardo Sogno e la sua Brigata Franchi, Luigi Meneghello e i suoi "Piccoli Maestri", Giano Accame e la sua incrollabile dedizione al dialogo. È d'accordo?
UI: Curiosamente, due di loro, Sogno e Accame, li ho fatti scrivere sulla prima pagina dell'Avanti, proprio perché pensavo che un quotidiano orgoglioso della storia socialista e a essa fedele potesse dare un contributo al dialogo e alla pacificazione. Essendo però Accame famoso, e Pertini presidente della Repubblica, ma facile ad arrabbiarsi e orgoglioso custode dei valori della Resistenza, prima di pubblicare Accame ho chiesto a Pertini se aveva qualcosa in contrario. Era d'accordo.
GF: Concludiamo con una battuta sui quotidiani. Detta dall'ex direttore di Massimo Fini e Walter Tobagi, faceva e fa molto effetto. Nel 1993, lei disse a Sabelli Fioretti che "Repubblica" "è un partito irresponsabile. Fa lotta politica come i partiti,ma a differenza dei partiti non ne risponde di fronte all'elettorato". Nel 2010?
UI: Nel 2010, la situazione è enormemente peggiorata. Quasi tutti i quotidiani fanno lotta politica. Quelli neutrali sono una minoranza. Intendiamoci: i quotidiani non sono mai stati "al di fuori delle parti", hanno sempre risposto agli interessi dei proprietari. Però non sono mai stati così apertamente protagonisti della lotta politica. Pessimo segno: un tempo i redattori erano in grado di mantenere una certa indipendenza e spirito critico. Oggi, immensamente meno. I giornalisti dipendenti fanno prevalentemente il lavoro di cucina e di cronaca. I commenti che danno la linea, i fondi, sono affidati a opinionisti collaboratori esterni. Il controllo della proprietà e del direttore diventa in tal modo assoluto. Se l’opinionista non li soddisfa, non hanno bisogno neppure di licenziarlo. Basta non chiedergli più i commenti.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Ugo Intini (Milano, 1941), giornalista, scrittore e uomo politico italiano. Ha diretto i quotidiani "Avanti!" e "Il Lavoro di Genova". È stato portavoce del PSI dal 1987 al 1993, deputato tra 1983 e 2006, membro dell'esecutivo del PSE, sottosegretario agli Esteri nel governo Amato e viceministro degli Esteri nell'ultimo governo Prodi.
Ugo Intini, “Un bambino e la storia. 1941-1950: memoria per unire. I bombardamenti, la guerra civile, la ricostruzione”, Mondoperaio-Ponte Sisto, Roma 2010. In calce a ogni capitolo, bibliografia e indice dei nomi.
Gianfranco Franchi, aprile 2010.
Prima pubblicazione cartacea dell'articolo: Il Secolo d'Italia, 18 aprile 2010. A ruota, Lankelot.