Un bambino e la storia. 1941-1950 memoria per unire. I bombardamenti la guerra civile la ricostruzione

Un bambino e la storia. 1941-1950 memoria per unire. I bombardamenti la guerra civile la ricostruzione Book Cover Un bambino e la storia. 1941-1950 memoria per unire. I bombardamenti la guerra civile la ricostruzione
Ugo Intini
Ponte Sisto
2010
9788895884172

"La mia generazione" – è l'esordio di Ugo Intini – "è cresciuta così. Prima sotto le bombe, nell'Italia della guerra mondiale; poi in mezzo alla guerra civile; poi nell'Italia della ricostruzione". Questi tre periodi Intini li racconta via flash di memoria, perché "il flash della memoria fotografa il particolare, certo, non l'insieme: ma un particolare legato alla propria esperienza personale, del quale perciò si può essere assolutamente sicuri". La storiografia, invece, quando per ragioni ideologiche, quando per rispetto dell'egemonia dominante, tende a deformare e cancellare i particolari (p. 11). Periodicamente. Ecco spiegata la voglia di raccontare il proprio passato senza vestire i panni dello storico. Intini preferisce essere un vecchio bambino.

Il giornalista e politico lombardo ha cominciato a scrivere "Un bambino e la storia" tornando nel paese di Balangero dove, piccolissimo, aveva passato gli anni della guerra civile. E ha scritto per animare un futuro estraneo alle discriminazioni e agli odii, per conciliare la memoria d'un popolo diviso, per restituirci una "realtà storica condivisa". Perché se nei giorni della guerra civile patrimonio comune alle fazioni in lotta era l'eredità risorgimentale, oggi c'è chi contesta il processo di unità nazionale, e chi abiura i suoi eroi. E questo sta determinando una fragilità identitaria senza precedenti. Siamo una Nazione fragile. Dobbiamo tornare a dialogare: a conoscerci e riconoscerci. A darci un nome. Credibile. Serve farlo in fretta, serve almeno predisporsi a farlo in fretta.

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L'opera è strutturata in tre parti. Nella prima, dedicata alla Guerra, i ricordi di Intini principiano dalla sua via Beato Angelico, a Milano, allora profumata di tigli: subito si fa notte, ché i soldati italiani sono divisi su tre fronti (Balcani, Russia, Africa), i bombardamenti alleati s'avvicinano. I primi quattro avvengono tra 8 e 16 agosto 1943. Esito: "Milano non era e non sarebbe stata mai più la stessa. Come la morte, erano un cumulo di macerie fumanti le case dei ricchi e quelle dei poveri, i palazzi sontuosi dell'Ottocento e del primo Novecento liberty, i moderni edifici del regime, i casermoni dell'edilizia popolare, le miserabili, vecchie costruzioni di ringhiera. Usciti dai rifugi, i milanesi non credevano ai propri occhi" (p. 22). Lo scenario di dolore, incertezza e angoscia oggi non è immaginabile. Erano distrutte le case, erano distrutti i punti di riferimento: musei, chiese, industrie, biblioteche, stazioni, il Castello Sforzesco.

Cominciava subito l'eroismo degli operai: gli "operai talpa" e gli "operai scoiattoli". I "talpa" erano specializzati nell'andare tra le fessure delle macerie e scavare tra i cunicoli. Gli "scoiattoli" nell'arrampicarsi con scale e corde, per penetrare dall'alto delle case. Lavoravano a tutto spiano, senza sosta, spesso morendo per abnegazione ed eroismo. Non vanno dimenticati.

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Intini scrive che Milano "è la negazione della retorica e del piagnisteo"; il popolo risponde ai danni dei bombardamenti col suo animo concreto, semplice, ottimista, volenteroso e dissacrante. I giornali, ridotti a due pagine soltanto, non possono sempre raccontare tutto. Ma c'è un suono, su tutti, che rappresenta quei giorni drammatici: quello delle sirene. Intini: "Era un suono di intensità spaventosa, ingigantito dagli altoparlanti in ogni angolo della città, che partiva con un tono basso, saliva di intensità sino a diventare lacerante e si abbassava di nuovo. Veniva ripetuto a lungo, con continuità ossessiva, sembrava l'urlo atroce di una belva immane. Le vie diventavano deserte. Si aprivano sui pianerottoli le porte degli appartamenti [...]" (p. 44).

A bombardare erano spesso australiani, neozelandesi, canadesi e inglesi; per gli italiani erano e restavano "gangster del cielo", "cowboys". Le reazioni popolari erano difformi: secondo Intini in parte si accusava il fascismo d'essere responsabile di tutte quelle sciagure, in parte si malediva la perfida Albione, il complotto nemico e il "tradimento" delle nazioni democratiche. Insomma: "realismo, pragmatismo e libertà" contro "onore, fedeltà, patriottismo". A ben guardare, sono i semi della futura guerra civile.

In ogni caso: "La verità è che per la prima volta nella storia dell'umanità lo sterminio di civili innocenti, di donne e di bambini fu freddamente pianificato come una irrinunciabile esigenza militare e politica. Nel silenzio, sostanzialmente, di tutti" (p. 13). Intini ricorda, ad esempio, che durante e dopo lo sbarco in Normandia, gli aerei dei liberatori bombardarono a tappeto le città uccidendo 70mila cittadini francesi: molti più di tutti gli inglesi morti sotto i bombardamenti nazisti. E ricorda il martirio impunito di Le Havre. Questo qualcosa dovrebbe insegnarci. Insomma: Amburgo, Pforzheim, Terni, Foggia, Dresda, Zara, Colonia, Lubecca, Hiroshima, Nagasaki: per vincere la guerra bisognava uccidere chi non la stava combattendo... non i soldati, ma i figli del popolo. Proprio come insegnavano i generali Trenchard e Douhet, qualche anno prima, con macabra lungimiranza.

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Fascismo. "La propaganda conteneva alcune analisi fondate [...]. Non era opera di sciocchi. Basta guardare le firme che, sui quotidiani, ne erano protagoniste: i nomi più prestigiosi del giornalismo e della cultura del tempo" (p. 12). Erano gli stessi nomi, come quelli di Indro Montanelli e Orio Vergani, che sarebbero rimasti in auge dopo la guerra, scrivendo sul "Corriere della Sera". Intini ne elenca molti altri, da Buzzati in giù.

Il passaggio in massa degli intellettuali italiani, senza colpo ferire, dal fascismo al comunismo, può essere spiegato – Intini ne è convinto – anche da un fatto storico mai abbastanza approfondito; ossia i ventidue mesi di fortuna dell'accordo bellico nazi-comunista Ribbentrop-Molotov. Non fu solo questione di opportunismo, ma di "continuità di radici psicologiche, politiche e culturali", comunque esistenti tra una parte del fascismo e del comunismo. Secondo Intini, Stalin si seppe mostrare non neutrale, ma sostenitore del nazismo, in una prima fase. È una verità così scomoda che oggi viene rimossa. Proprio come le "foto simbolo" dei soldati della Wermacht e dell'Armata Rossa che ballano e suonano la fisarmonica, fraternizzando, nella Polonia occupata. E distrutta da entrambi, con disumana ferocia.

Intini rivendica la prima, netta presa di distanza tra socialisti e comunisti spiegando che i socialisti di tutto l'Occidente considerarono alto tradimento l'alleanza nazi-comunista; ricorda che il PCI, allora, criticò Nenni e Saragat con toni veementi; ricorda che i socialisti, allora come sempre, seppero schierarsi dalla parte dei sistemi democratici occidentali contro quelli totalitari. Una posizione degna d'essere tenuta presente.

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Continuità tra l'egemonia cultura fascista e quella comunista sta in molte prove: Intini le segnala senza difficoltà. Sono queste: la contestazione del colonialismo e del neocolonialismo angloamericano, l'antiamericanismo, il terzomondismo, l'anticapitalismo, il sostegno agli arabi contro Israele e contro i regimi filo-occidentali, il disprezzo per le democrazie ritenute tali soltanto nella forma, la simpatia per il proletariato e la distanza dalla borghesia.

Il fascismo, a dar retta all'intellettuale socialista, aveva due anime: "Da una parte i rivoluzionari, i visionari, gli intellettuali poveri, gli avventurosi e gli avventurieri, gli ex anarcosindacalisti e i socialisti massimalisti. Dall'altra la tradizionale classe dirigente del Paese, convertitasi al fascismo nascente con l'eterna prospettiva gattopardesca" (p. 43). La prima anima sarebbe confluita nella "disperata avventura di Salò", la seconda nei badogliani.

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Passiamo alla guerra civile. Intini tiene molto a ribadire le differenze strategiche e tattiche all'interno del fronte partigiano e repubblichino. In ogni caso, "fu un eccesso la mitizzazione della resistenza e la sostanziale censura sui crimini compiuti in suo nome anche dopo la liberazione, ad esempio nel 'triangolo rosso' tra Modena, Parma e Reggio" (p. 13). E rimane un eccesso, oggi, ridurre la Resistenza a un'orgia di sangue e scelleratezze. Perché questo non è stato, ed è ingiusto sporcarla così.

Vero è che "le formazioni non comuniste erano spesso contrarie alle azioni dei GAP (Gruppi di Azione Partigiana) quando questi uccidevano per le strade cittadini, singoli fascisti disarmati o tedeschi, con tecniche poi usate dalle Brigate Rosse negli anni Settanta" (p. 151). Ma non basta: non si fa di tutta un'erba un fascio. Insomma: per capire la Resistenza il buon consiglio letterario rimane il solito, quello di prendere e leggere "I piccoli maestri" di Meneghello.

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Sfollato con la sua famiglia a Balangero, dalle parti di Torino, il piccolo Intini attendeva con angoscia notizie sul padre. Cresciuto ed educato come un fascista, era partito per la Grecia prima della nascita del figlio. Prigioniero in Germania, era tornato in Italia, arruolato tra i repubblichini. Quindi, aveva disertato. Nessuno ne sapeva più nulla. Sarebbe tornato alla fine della guerra, per vivere ancora qualche anno.

In casa s'ascoltava, con paura, Radio Londra; "in teoria, l'ascolto di Radio Londra era perseguito con la pena di morte" (p. 116). Si leggeva "La Stampa", che tirava 500mila copie. Si guardavano con stupefatta angoscia i bombardamenti su Torino, città che "s'accendeva di rosso e irradiava la luce dei suoi incendi. Il cielo nero era solcato, accanto alla Luna e alle stelle, dai traccianti della contraerea rivolti verso l'lato e dai razzi bengala multicolori che gli aerei lanciavano verso il basso per illuminare a giorno i bersagli" (p. 124).

Spesso i partigiani venivano a domandare provviste. Altre volte, banditi si spacciavano per partigiani e venivano a prendere provviste. Rifiutarle, in qualsiasi caso, implicava rappresaglia. Consegnarle significava ritrovarsi sotto minaccia di rappresaglia nazifascista. Tutto era rischioso. Esistere, era rischioso.

Intini racconta la strage di Balangero – una terribile, omicida esecuzione repubblichina di cittadini giovani, inermi e innocenti: che poi non avrebbero dovuto nemmeno essere seppelliti – ricordando che il responsabile, capitano Traverso (poi promosso colonnello), pure condannato all'ergastolo nel 1951, tra condoni e amnistie rimase in carcere per soli cinque anni. E poi racconta la tragedia dei 27 partigiani di Cudine, ex carabinieri, giovanissimi, torturati e uccisi dai nazisti. In tutto questo, riesce a ricordare – con onestà e franchezza – i regolamenti di conti interni ai partigiani. Quelli che stanno facendo la fortuna editoriale di Pansa, intellettuale un tempo su posizioni largamente differenti, e che stanno sconvolgendo l'idea della Resistenza che gli italiani avevano avuto per oltre mezzo secolo. Giustamente, da molti punti di vista. Ma l'essenziale è non dimenticare mai i punti di partenza. Non giustificano certi esiti, ma valgono come monito per tutti.

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Passiamo all'Italia della ricostruzione. Per Intini, sono i giorni della Milano che aveva una gran voglia di alzare la testa e di ricominciare. E allora si ricomincia dai giorni in cui faceva notizia la distribuzione di un etto di salame per tutti, o di un chilo di riso. La razione di pane era 150 grammi a testa. Le scarpe si compravano a rate. Per fortuna, nascevano stupendi "ristoranti popolari", che sfamavano i nostri compatrioti. Si ricomincia dai giorni in cui i nemici erano diventati pidocchi, zecche, parassiti e pulci. La criminalità era così diffusa che la Prefettura aveva proibito le maschere di Carnevale. Era il 1947. Si ricomincia dai giorni della "normalizzazione", è cioè della fine delle esecuzioni sommarie e delle violenze, della denuncia inevitabile del "fascismo dell'antifascismo". Si ricomincia dal racconto, molto tenero, dei giochi dei bambini. Si ricomincia da una grande, modernissima lezione di parsimonia: questa...

"Si imparava a spegnere la luce e a chiudere l'acqua appena possibile (la minerale praticamente non esisteva). Il burro e l'olio servivano per friggere i cibi non una, ma più volte, sino a che, in fondo alla padella, non diventavano scuri e bruciati. Non c'era la carta igienica. I vestiti dei bambini venivano ricavati da quelli in disuso dei genitori, o rigirati quando diventavano vecchi. Le nonne sferruzzavano continuamente producendo golfini, cuffiette, calzettoni. Le calze da donna si rammendavano. Gli impiegati di grado modesto venivano chiamati 'mezze maniche' perché indossavano sopra la giacca, dal polso al gomito, un tubo di stoffa nera trattenuto da elastici, per non consumare la stoffa. Non cambiavano la camicia tutti i giorni e la povera gente aveva due soli vestiti: uno addosso e l'altro al fosso, ovvero nell'acqua, a lavare" (p. 189).

E poi arriva l'età dei consumi. Arrivano i frigoriferi, arrivano i televisori, arrivano i primi programmi RAI. Arriva la modernità, sinonimo di America. E arriva, soprattutto, una cultura politica capace di essere elemento di coesione tra le classi sociali. Uno dei momenti più belli del libro è quando Intini scrive che Togliatti e Almirante erano credibili perchè "avevano dimostrato che per le loro idee sapevano rischiare la vita". Insomma, tutto si poteva dire fuorché fossero incoerenti. E i cittadini lo sapevano. Il confronto con i nostri giorni è sinceramente ingeneroso, da questo punto di vista, e vale per tutti. Le cause sono quelle che ben conosciamo. La straordinaria e deplorevole corruzione dei partiti, la progressiva distanza etica e ideale accumulata tra elettori e deputati, la degradazione del dibattito culturale hanno distrutto i partiti di massa. È bene dunque ricordare gli anni in cui la politica aveva assunto una valenza sacra: è bene ricordare gli anni in cui la politica era un incarico onorevole da tutti i punti di vista. È bene ricordare quando fare politica coincideva con avere un ideale. È bene, perché pensare alla classe politica degli anni Cinquanta e Sessanta può aiutarci a forgiarne una nuova. Degna. Italiana.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Ugo Intini (Milano, 1941), giornalista, scrittore e uomo politico italiano. Ha diretto i quotidiani "Avanti!" e "Il Lavoro di Genova". È stato portavoce del PSI dal 1987 al 1993, deputato tra 1983 e 2006, membro dell'esecutivo del PSE, sottosegretario agli Esteri nel governo Amato e viceministro degli Esteri nell'ultimo governo Prodi.

Ugo Intini, “Un bambino e la storia. 1941-1950: memoria per unire. I bombardamenti, la guerra civile, la ricostruzione”, Mondoperaio-Ponte Sisto, Roma 2010. In calce a ogni capitolo, bibliografia e indice dei nomi.

Gianfranco Franchi, aprile 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.