Santi Quaranta
2013
9788897210177
Un bel giorno Aron Hector Schmitz, scrittore triestino, si trovava a Milano per tenere una conferenza sul suo amico irlandese, grande narratore, figuro molto chiacchierato, James Joyce. Nel pubblico, c'era il trentenne poeta Eugenio Montale, genovese, figlio di un fornitore della fabbrica di vernici di sua moglie, la famigerata Veneziani. Il giovane poeta, insomma, conosceva abbastanza bene i triestini, e Trieste. Era caduta da poco l'Austria, ma poco poteva cambiare nell'essenza di quei matti. E così, fiutata l'aria, uno o due spritz alle spalle, il poeta domandò allo scrittore: “Come xe a Trieste, ah? Come va? Vi odiate ancora tanto?”. Normalmente, chi conosce i triestini ride parecchio, per questo aneddoto. Chi non ha mai avuto niente a che fare con Trieste, naturalmente, non capisce. E non capisce nemmeno perché il più grande scrittore del Novecento europeo fosse un triestino che preferiva farsi chiamare “Italo Svevo”. Che bisogno poteva avere di dichiarare così la sua natura anfibia? Chi voleva stuzzicare? Da chi si stava proteggendo? Cosa stava spiegando? Soprattutto: non vi stupisce che si facesse chiamare “Italo Svevo” e non “Italo Slavo”? Quante domande.
In libreria, autunno 2013, un buffo romanzo breve dà qualche risposta. Ho detto “qualche”: è un libro satirico. “Triestiner”, si chiama. Autore, lo scrittore giuliano Massimiliano Forza, classe 1966, contrabbassista di fama nazionale e viaggiatore instancabile, narratore già pallino di Giovanni Pacchiano, sin dai tempi del suo esordio, “Antifurti psicologici” (Piemme, 2001).
“Triestiner” è la storia di una comunità di stravaganti triestini che hanno deciso di lasciare la loro città, ma non sono mai riusciti nell'impresa. Vivono a Londra e hanno triestinizzato ogni cosa. Confusamente, inconsciamente, vanno in cerca del perduto cosmopolitismo nella città più babelica d'Europa: sbarcati là, si ritrovano provinciali – peggio: paesani, gente di borgo – proprio come i triestini storicamente sono stati, almeno dai tempi di Roma, duemila anni fa, e fino all'inattesa, irreale fortuna del loro porticciolo [più onesto chiamarlo, fino a quel punto, “modesto scalo”] nel 1750. Un porticciolo pittoresco diventato vivacissimo emporio internazionale. Un paese di gente latina, un paese in cui tutti conoscevano tutti, un paese rimasto praticamente fedele alla sua pianta medievale, per oltre mille anni, che tutto a un tratto diventava una città, una grande città, popolata da avventurieri e pirati di tutto il mondo, e lavoratori di mezza Europa. Una città che cresceva con ritmi nordamericani, sbalorditivi, espressione però d'una civiltà diversamente elegante e sofisticata, quella austriaca, asburgica. Nata sublime.
Questa spiegazione serve a capire uno dei grandi equivoci di Trieste, e dei triestini. Capita spesso, in città, di sentir millantare tradizioni millenarie, o ultrasecolari [“eh, Trieste era così da sempre!”], di incredibile attività del porto, straordinarie fortune commerciali, irresistibile fascino dell'emporio, incredibile e fortunata posizione geografica, penalizzata non soltanto recentemente dall'invidia dei veneziani e dei romani... peccato che siano tutte fantasie. “Monade”. Trieste è stata grande per poco più di un secolo e mezzo: tra 1750 e 1918, porto del più grande impero d'Europa, borgo amato e popolato da tante etnie; borgo latino, borgo ebraico, borgo greco, borgo sloveno, borgo serbo, borgo francese, borgo austriaco: contate le chiese di Trieste, della vera Trieste austriaca: ognuna parla alla sua gente, ognuna parla una lingua. Tutte vuote, oggi, o quasi. Ma tutte in piedi, oggi.
Prima di quel 1750, Trieste sopravviveva per le saline. Grandi rivali erano la vicina Muggia, storicamente veneziana – là cominciava e comincia l'Istria, alle porte di Trieste – e l'oscuro e sinistro castello di Duino. Queste erano le misure di Trieste, cosmopolita quanto uno stagno, internazionale quanto la piccola Grado. E cioè: per niente. Trieste non aveva niente di esotico. Da sempre.
Ma per l'orgoglio triestino la storia è cominciata allora. E comincia allora, veramente. Nel 1750. E Trieste è diventata, forse istantaneamente, il più grande porto del mondo, naturalmente internazionale, ricchissimo, coltissimo, fichissimo. E il passato? Fine, dimenticato. Per gli austriaci era città austriaca, tanto austriaca da essere “urbs fidelissima” all'impero; per i vecchi latini dell'antico borgo di tremila, cinquemila anima, era naturalmente “italiana”; per gli sloveni che scendevano dal Carso, cioè dai villaggi nei dintorni, dietro la baia, era quasi una città santa, “più slovena di Lubiana”, che all'epoca, per la cronaca, si chiamava Laibach ed era anche lei austriaca; per i serbi che venivano a fare fortuna, “naš Trst”, la nostra Trieste. E così via. Un gran casino. Un gran casino e una gran fortuna che tutto ciò si fondasse su un posto che non aveva storia che non fosse vaga, vacua, fragile. Nemica di Muggia, appunto, ma come ben sappiamo gli italiani non sanno nemmeno dove sia, Muggia. E sbagliano l'accento. I veneziani invece lo sanno bene, dove sta Muggia, e come si pronuncia.
Tutta questa tirata per farvi capire che questo libro è sì letteratura italiana, ma è strapieno di favoloso dialetto triestino; è sì un libro vostro contemporaneo, ma è un libro che probabilmente non capirete mai, a meno di non essere passati da queste parti per più di qualche ora, magari prima di andare in vacanza in Istria o in Dalmazia. “Triestiner” è un libro brioso, particolarmente teatrale e vivace, tutto uno sketch, una boutade, una trovata alla Cecchelin. E forse un cittadino italiano estraneo a questa storia può trovarci l'alienazione di tanti nostri giovani e meno giovani compatrioti che vanno a vivere in città europee di grande fama e grande moda, come Londra o Berlino, e là finiscono per restare italiani e vivere da italiani, bazzicando ambienti italiani e lavorando, magari, con denari provenienti dall'Italia, e continuando a lavorare per aziende italiane. Conoscete il tipo? Ecco. Questo libro è per loro.
Però, per me “Triestiner” va dato soprattutto ai triestini. Perché come i grandi atti d'amore a Trieste, almeno da quando Trieste ha avuto uno straccio di letteratura (cioè, ovviamente, dall'Ottocento in avanti: dal 1800 e rotti in avanti. Prima, niente, niente, niente), è un libro antagonista di Trieste. Ma con amore. Vero. E... “patoco”.
Scrive Forza: “Pur riconoscendone i pregi, io l'avevo vissuta come un collegio, dove non si può certo desiderare di restare in eterno. Regole e distanze ovunque. Uno stare insieme difficile, quasi che il condividere la vita con gli altri fosse impegno, e non piacere. A Trieste si capisce cos'è l'assenza e si impara ad apprezzare l'esilio” [p. 88]. Capito?
“La mia anima ha sempre cercato altro, e mai si è ritrovata nell'imbalsamata realtà di Trieste”. “Che poi, Trieste, era sempre stata” [ocio al “sempre!”, aggiungo io!] “una città di extracomunitari. Chi più chi meno lo eravamo tutti. Ma le contraddizioni erano sempre state parte integrante dell'essere triestino” [ocio al "sempre!", aggiunge il critico. Di nuovo!]. “A Trieste erano le parole taciute a dettar legge, le distanze a regolare i rapporti” [p. 116].
“E mi faceva tanto sorridere l'eterna diatriba dei gaditani legata al porto franco, che da anni non trovava soluzione. Anche a Cadice, come a Trieste, una parte della città era abbandonata e serviva soltanto per far discutere. Ad ogni campagna elettorale si ripescava la possibilità di sistemare il porto franco, quasi le persone avessero ciclicamente bisogno di credere in un sogno. Ovviamente, come a Trieste, se ne parlava e basta” [p. 140].
E per finire, e per capirci, “A London eravamo latin-people” [p. 55], scrive a un tratto Forza. Perché vi segnalo questo passo? Perché forse Trieste è la città meno mediterranea d'Europa. E soltanto un latino può sentirsi fratello degli spagnoli e dei ciprioti, venendo da Trieste. Un balcanico fatica; uno gnocco, cioè un tedesco, figuriamoci. Eppure, Trieste è anche balcanica. Eppure, Trieste è anche austriaca. Mica è soltanto italiana. Come si risolve questo pasticcio? Tornando a leggere Salvemini e Vivante, per esempio. Soprattutto Salvemini. Oppure – e questa è una buona strada – sdrammatizzando un po'. Magari con stile. Come Massimiliano Forza, triestino di sangue istriano, insegna.
Dimenticavo. Caro poeta, sì: a Trieste ci odiamo ancora così tanto. Ma sul serio. Sarà la bora. Oh... ora si dice “The Bora”, isn't it?
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Massimiliano Forza [Trieste, Italia, 1966], scrittore e musicista italiano. Ha esordito nel 2001 pubblicando “Antifurti psicologici” [Piemme]. Ha vissuto a lungo a Londra, e a Roma. Da qualche tempo è tornato a Trieste.
Massimiliano Forza, “Triestiner”, Santi Quaranta, Treviso, 2013.
Gianfranco Franchi. 1 novembre 2013.
Prima pubblicazione, Lankelot.
“Triestiner” è la storia di una comunità di stravaganti triestini che hanno deciso di lasciare la loro città, ma non sono mai riusciti nell’impresa. Vivono a Londra e hanno triestinizzato ogni cosa.