Monteverdino verace, Tommaso Giagni, classe 1985, artista padre di due romanzi per Einaudi [“L’estraneo”, 2012 e “Prima di perderti”, 2016], redattore dell’appassionante ed enciclopedico “Ultimo Uomo”, è eccezionalmente tifoso della Lazio. Io aspetto da una vita una raccolta delle sue storie di calcio, e delle sue biografie pallonare – ho la sensazione che sarà un libro destinato a restare. Per adesso, qui al “Caffè Sport” possiamo regalarci l’intervista esclusiva.
Ti ricordi la prima volta che sei entrato allo Stadio Olimpico? Chi c’era con te, e in che settore stavate? Che Lazio era, e cosa ti è rimasto più impresso?
Era il 21 agosto 1992, un amichevole contro l’Espanyol, stavo per compiere sette anni. Naturalmente ero con mio padre, credo in Tevere. La prima partita all’Olimpico con Beppe Signori alla Lazio. Era una squadra ancora convalescente, la prima di Cragnotti, che però iniziava a mettere le basi per la scalata degli anni Novanta. C’erano ottimi giocatori come Riedle, Fuser e Winter. E appunto Beppe Signori, che è stato il mio eroe. Di quella sera ricordo il senso di meraviglia per qualunque dettaglio, gli ultimi metri della scala che portava al settore e la rivelazione del campo e dello stadio, che per me era gigantesco.
Gascoigne ha rappresentato la lazialità? In che senso, e quando, in particolare? E nella tua infanzia, che ruolo ha giocato, simbolicamente?
Gli ho voluto bene ma non mi esaltava, come poi tutti i calciatori problematici o incostanti (da Bokšić a Zarate). Solo negli ultimi tempi sto imparando a interessarmi di chi disperde il talento, se non a empatizzare. Non credo che Gascoigne rappresentasse bene la lazialità, che per me è soprattutto profilo basso.
Cosa hai provato, da romano e da laziale, quando hai potuto presentare, a san Calisto, un libro di Governi senior dedicato a Bruno Giordano – seduto in mezzo tra l’artista e il campione? Cosa ti rimane, adesso, di quel momento?
È stato un po’ come uscire dal tempo e ritrovarsi nella Trastevere, nella Roma, nell’Italia di un’altra epoca. Più che la presentazione di un libro, è stata la festa per un amico. A un certo punto il barista ci ha interrotto, con un telefono in mano, perché una signora non era potuta venire e voleva salutare Giordano. Lui sì, ha rappresentato la lazialità, e il racconto del suo calcio è stato trasmesso fino ad arrivare alle generazioni che non l’hanno visto direttamente, come la mia, nel modo in cui si trasmette un patrimonio.
Quali sono stati i tre giocatori della Lazio nei quali più ti sei riconosciuto, nel corso del tempo, e perché? Cosa avevano di tuo – e in che ruolo giocavano?
Ti direi la fame provinciale di Tommaso Rocchi, che supera i cento gol in una Lazio mediocre, e il calcio poco appariscente di Lucas Biglia, la sua introversione che sembra debolezza. Poi c’è Beppe Signori, che però è un’altra cosa, perché per me riguarda il sacro. Non ne parlo volentieri, come non si parla della propria intimità. Per qualsiasi bambino o adolescente della mia generazione ha rappresentato uno scudo di fronte al mondo. Potevo andare con qualche serenità a scuola, affrontare una classe dov’ero l’unico laziale, perché Beppe Signori giocava nella mia squadra. Quando fu annunciato l’accordo col Parma per la sua cessione (poi saltato grazie a una rivolta di piazza), mi mancò la terra sotto ai piedi.
Eppure vieni da un quartiere, Monteverde, storicamente legato alla lazialità: ti sei mai sentito in minoranza, durante l’adolescenza, tifando Lazio? Quanto orgoglio ne è derivato, e quanta personalità?
In minoranza mi sono sentito sempre. Credo di averne tratto forza, oltre che orgoglio, e inevitabilmente ha segnato il mio percorso. È facile essere della Roma: più tifosi, più soldi, si può anche solo seguire l’inerzia e ritrovarsi con la sciarpa al collo. Essere della Lazio è sempre una scelta.
Sei nato nel 1985, quindi ti sei perso Roma-Liverpool e Roma-Lecce. In compenso, hai vissuto esperienze come Roma-Inter [finale Uefa], come Roma-Sampdoria sotto Ranieri, come Manchester-Roma 7-1 [Ferguson firma gli autografi ai suoi tifosi a cinque minuti dalla fine]. Cosa è stato meglio?
Ti sei scordato la finale di coppa Italia con la Lazio, 26 maggio 2013. No, il meglio è quando, dopo la batosta, passato un breve periodo di elaborazione, il romanista torna alle sue velleità, alle sue mitomanie. E così mi rassicura che il ciclo ricomincia.
Considerando la centralità della figura del padre nella tua produzione artistica, cosa ha rappresentato, per te, l’iniziativa “Di padre in figlio”? Esistono eretici, in casa Giagni, oppure, da tre o quattro generazioni, restate ortodossi?
È un’iniziativa molto nostra, sobria, varie generazioni di tifosi che si stringono intorno a varie generazioni di giocatori. Casa Giagni ha un’ortodossia che lungo la linea verticale (mio nonno, mio padre, io) non si discute.
Chiudi gli occhi e raccontami l’odore dello stadio, poi il primo coro che senti, poi il gol più bello che hai visto dagli spalti. Voglio sapere tutto: stagione, giocatori, portata di quel gol.
L’odore, direi un insieme di sigaretta, sigaro, cesso, fumogeno. Il primo coro che mi viene è quello che scandisce semplicemente, a oltranza, “Lazio! Lazio! Lazio!” in una ripetitività rituale. Il gol più bello, se parliamo di sola estetica, credo sia quello di Bokšić alla Sampdoria nel 1997/98: sulla trequarti supera un primo avversario, con l’esterno ne supera un secondo, e dal limite dell’area fa un pallonetto lento, del tutto in contrasto col ritmo e la forza che aveva dato a quell’azione. Il portiere era Ferron, non provò neanche a saltare e applaudì quando vide la palla entrare. Sola estetica perché era il 3-0 di una partita quasi finita.
Cosa ha significato, per te, la Lazio di Cragnotti? Dov’eri il giorno del secondo scudetto? Ci credevi, oppure te ne eri andato da un’altra parte, a pensare ad altro?
L’era Cragnotti fu una specie di abbuffata a una tavola dove non sapevo se mi era permesso stare. Non è stata la mia Lazio preferita, anche se ha collezionato titoli importanti, uno dopo l’altro, come chissà se succederà più. Al di là dello scudetto, il trofeo che mi ha emozionato di più è stato il meno prestigioso, una coppa Italia (1998) conquistata contro tutte le previsioni. Invece il 14 maggio 2000 ero con mio padre in una rosticceria del quartiere, che oggi ha chiuso. Avevo quattordici anni e sì, ci credevo, come credevo alla giustizia. Era giusto che quello scudetto fosse nostro.
Ti aspettavi un simile exploit da Simone Inzaghi? Vedendolo giocare a calcio, ti sembrava così intelligente e così ossessionato dalla tattica? Possibile che sia stato frainteso sia come giocatore che come allenatore? E in che misura?
Non me l’aspettavo perché da calciatore mi sembrava più velleitario che dotato. Un fraintendimento non direi: penso che le persone cambino nel tempo e che comunque non sia il primo caso di giocatore discreto che si rivela allenatore interessante.
Poche settimane fa sei entrato a Trigoria, per intervistare Alisson. Cosa hai provato, sinceramente? Hai avuto la sensazione di essere prigioniero in territorio nemico o più di aver profanato un tempio di un dio minore?
Ho cercato di concentrarmi il più possibile sul lato professionale della cosa. Poi avevo in tasca un bellissimo fazzoletto della Lazio anni Ottanta, come un amuleto.
Gianfranco Franchi, aprile 2018.
Prima pubblicazione: Mangialibri, “Caffè Sport”.
Per approfondire: GIAGNI in Porto Franco.