A Roma salutano ogni giorno la statua del Belli, là in viale Trastevere, sulla riva destra del fiume. A Milano, naturalmente, c’è un monumento dedicato a Carlo Porta, ottocentesco. A Capodistria, invece, non c’è traccia di un monumento dedicato a Tino Gavardo. Cercate pure, in ciò che rimane della nostra antica città, circondata oggi da una serie di strazianti e fredde costruzioni moderne. Niente.
Perché? In parte perché oggi Capodistria è abitata dagli eredi dei coloni jugoslavi, per lo più sloveni, che hanno ripopolato la nostra città, martire dell’esodo della totalità o quasi dei suoi abitanti. In parte perché probabilmente a questi signori che oggi abitano Capodistria la lingua del suo poeta, Tino Gavardo, risulta oscura, forestiera o forse addirittura nemica, vai a sapere. In parte perché ci sono poche speranze che una gente che ha disintegrato il monumento di un eroe repubblicano, mazziniano ed europeo come Nazario Sauro possa poi edificare un monumento a un poeta intelligente, talentuoso, sfortunato in vita e profondamente leale alla sua terra come Tino Gavardo: ammettiamolo, sarebbe miracoloso se Gavardo fosse celebrato in quella che oggi viene chiamata, non senza imbarazzi e amarezze, “Koper”.
Allora, in attesa di sorprese stupefacenti, di prodigi e di piena restituzione della verità e della memoria, ecco che veniamo a raccontarvi qualcosa del poeta Tino Gavardo, con l’aiuto del fondamentale saggio di Paolo Blasi “Poeti dell’Istria alla fine di un’epoca (1870-1914)”, pubblicato dalla Svevo nel 1999, sotto il patrocinio del nostro IRCI.
Blasi ci rivela un poeta di una modernità sconcertante, un ribelle, un anticonformista. Così, dapprima con le parole di Giovanni Quarantotti: “E che altro fu Tino Gavardo se non l’adolescente poeta del popolo di Capodistria? Se non il giovine, e però entusiastico, aedo che non isdegna tradurre, in purezza d’immagini e in dolcezza di suoni, nello stesso patrio vernacolo, ciò che più alto vede e più profondo il popolo sente?”. Già: Giovanni Quarantotti aveva così accompagnato, con la sua prefazione, l’unico libro di poesia pubblicato da un artista morto ragazzino.
Paolo Blasi: “Uscito da un glorioso casato che aveva annoverato intrepidi guerrieri al servizio della Serenissima e nipote di quell’Alessandro, dottore in utroque e accademico di Arcadia, che aveva bizzarramente parodiato in ottava rima Gian Rinaldo Carli, Valentino de Gavardo degli Ughi nacque a Capodistria il 10 luglio 1891 da Antonio ed Anna Chitter. Per bisogno di sincerità e indipendenza, rifiutò il prefisso nobiliare e scelse il vernacolo come mezzo espressivo della sua ispirazione”.
“Già quando frequentava il patrio Liceo-Ginnasio (“scolaro di scarsa diligenza e ribelle, come forse i più tra i ragazzi di vero ingegno”, annota il Quarantotti) scriveva versi; i primi che dette alle stampe apparvero nelle ‘Pagine istriane’ nel 1909 e altri seguirono, con lo pseudonimo di un popolaresco ‘Tita Bidoli’. Nel 1911 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza di Graz e, l’anno dopo, raccolto quanto era venuto componendo, ne fece un volumetto di poesie che affidò alla locale tipografia Priora…”
“Il titolo di quel volumetto intendeva alludere al suo programma di vita, ‘Fora del semenà’, cioè fuori di quel seminato che l’ipocrita morale filistea interpretava: spirito libero, dunque, deliberato a intraprendere ‘la professione di anticonformismo’, per dirla con B. Maier”.
“Il Gavardo, buon patriota e irredentista, era condiscepolo e amico di Pio Riego Gambini, trascinatore dei giovani mazziniani dell’Istria che, arruolato volontario, avrebbe incontrato la morte sul campo nei primi mesi dopo che l’Italia era entrata in guerra. Ma Tino lo aveva preceduto sulle vie dell’eterno, perché lo schiantò il tifo il 14 gennaio 1914. La critica salutò, unitamente ai lettori, con unanime consenso, i trentun componimenti di ‘Fora del semena’ considerando il giovanissimo autore qualcosa di più di una promessa”.
“Successivamente” – continua Paolo Blasi – “Bruno Maier, docente di Letteratura Italiana all’Università di Trieste, rivolse i suoi studi sull’opera gavardiana ripubblicandola nel 1950 e nel 1989, con la cura del testo e l’arricchimento di ulteriori composizioni, edite e inedite, di prose e di lettere, sì da farne una summa completa”.
Da allora [sono “appena” 32 anni e qualcosa…] il nulla: silenzio assoluto nella Capodistria “cragnolina”, slovenizzata, ovviamente, ma silenzio assoluto anche dalle disastrate, tenebrose patrie lettere; inerte e assonnata certa editoria nostrana superstite, che pure dovrebbe essere più sensibile a certe questioni e certe figure. Rimediare si deve, rimediare si può. Presto, però, e con ogni onore e le cure più attente e scrupolose. Presto, perché è più che è un peccato.
Torniamo al poeta. Il bravo letterato Paolo Blasi ricorda che, proprio come l’altro ingiustamente rimosso poeta istriano, Renato Rinaldi da Portole, di cui qui si parlava ieri, Gavardo era “poco più che ventenne e novizio delle lettere”, e perciò non poteva non essere discontinuo e sperimentale; tuttavia la sua arte si sostanziava di valori evidentissimi e tutt’altro che comuni. “Non si può non pensare al Gavardo trascurando il Belli, che eresse un monumento alla plebe di Roma, o al Pascarella, che elevò il vernacolo a poesia epica e che, da vero romano, piuttosto che fustigare i costumi concittadini, ne rise ‘pe’ nasconne meio ‘e lagrime’.”
Capite dunque cosa era, cosa rappresentava e cosa poteva rappresentare Gavardo per Capodistria e per l’Istria, in genere? Capite la portata e il significato della rimozione di un simile talento, di un simile spirito e di una simile personalità? Annichilito il popolo istriano, umiliato e costretto all’esodo in nome dell’imperialismo jugoslavo, c’è stato chi ha giocato a silenziare, minimizzare o peggio a decapitare i suoi più alti ingegni, i suoi simboli, e infine – e santo Dio, che crudeltà, che slealtà, che bassezza – i suoi poeti. Sono stati vigliacchi anche con i poeti, siamo stati vigliacchi anche con i poeti. I poeti.
“L’anno 1914, quando l’Istria piange la morte di Tino Gavardo e Renato Rinaldi, meravigliose promesse, il giornalista Bruno Astori scrive: ‘Non pare che anche il cielo pianga, oggi, che con Tino Gavardo e Renato Rinaldi muore la poesia istriana ch’era nata con Besenghi degli Ughi?”.
E cosa pare a voi, adesso che avete letto e capito che sorte è stata riservata ai due più grandi poeti istriani del Novecento, due ragazzini nati e vissuti ai tempi dell’Austria, costretti a sognare soltanto l’Italia, da mazziniani, da repubblicani, da patrioti e da artisti… e poi profanati dall’oblio, dall’insensibilità e dalla damnatio memoriae, o giù di lì? Ascoltate bene cosa diceva il professor Maier, massimo esegeta di Svevo e Gavardo: la sua è la poesia di un “poeta che resta”.
G. Franchi, 28 gennaio 2021.
Prima pubblicazione: pagina FB dell’IRCI