Cavallo di Ferro
2011
9788879070904
“Amo il frammento del ricordo, la parola che illumina, il rigo ritrovato, la parola che, sbiadita, più non si legge e deve essere interpretata. Amo il vecchio che stenta nel racconto ma che pure mi disegna un sentiero. Amo la parola colta al volo, il ritaglio di giornale sbucato fuori, una fotografia con uno sguardo che già contiene mille pagine da scrivere. Amo il vagabondare lirico, senza efficienze e neppure comodità, e soprattutto il passo in solitaria quando si sa che può accadere un agguato, ma che proprio da un agguato può sorgere il miracolo di una parola, di una frase. Mi sento senza presunzione un frate stordito dal chiasso del mondo [...]” (Acitelli, “Sulla strada del padre”, p. 127].
Da qualche anno a questa parte, l'artista capitolino Fernando Acitelli, classe 1957, conosciuto al grande pubblico come il poeta del calcio, e dei calciatori (“La solitudine dell'ala destra”, Einaudi, 1998), si sta dedicando alla trasfigurazione e alla restituzione dell'amata città di Roma. E cosa restituisce e trasfigura, in particolare, della città di Roma? L'aristocrazia proletaria. Tutta la buffa e fascinosa grandezza delle abitudini, dei capricci e della quotidianità dei figli del popolo, in periferia, e in certe borgate. Tutta la poesia di una gente che si vantava di bere acqua, limone e zucchero, per scansare la morte e la povertà. Acitelli s'avvia a diventare una sorta di Pinelli: una volta s'andava a cercare Roma Sparita nelle stampe d'un pittore, adesso si può andare a cercarla nei racconti, nei frammenti e nei romanzi (atipici, come in questo caso) d'uno scrittore. Acitelli è il custode della memoria del Quadraro, di Portonaccio, di Casal Bertone, di Tor Pignattara. È un custode ruvido e onesto, in apparenza – ma quando inizia a parlare diventa un torrente di sentimentalismo e di dolcezza.
E così, a quattro anni di distanza dal discreto “I vecchi esultano la sera” (Avagliano, 2007) e a un biennio pieno dal riuscito e ispirato “Miagola Jane Birkin” (Coniglio, 2009), il poeta dell'aristocrazia proletaria s'è inventato un altro romantico libro di memorie – stavolta più personale ancora. “Sulla strada del padre” (Cavallo di Ferro, 2011) è un ibrido tra un diario, una biografia del padre, una rubrica di ritratti dei calciatori e un clamoroso amarcord di persone, parole, cose e case della periferia di Roma. Stilisticamente, Acitelli rimane fedele al passato, giocando su un periodare ultradescrittivo e liricheggiante, senza paura di cadere ogni tanto in qualche eccesso, in qualche ridondanza: l'artista romano gronda di memoria e di sentimento e scrive per necessità – è come se Acitelli stesse scrivendo per svuotarsi, per liberarsi da una responsabilità. Quale sia questa responsabilità è forse abbastanza comprensibile: prendere e raccontare la società e le persone e la città da cui è disceso e derivato, a cui è appartenuto, in cui s'è riconosciuto, perché a ben guardare queste persone e questa città non hanno avuto cantori veramente fedeli. Acitelli non scrive del popolo per mandato di un partito, scrive del popolo per amore del popolo e perché è parte del popolo. È una cosa bella e soprattutto pulita. Non convenzionale. Il lettore se ne accorge quando, in certi frangenti, ha la sensazione di andare avanti per pagine intere scritte piangendo, o comunque scritte da uno scrittore sopraffatto dall'emozione e dalla commozione. Acitelli sembra, in quei casi più ancora, un letterato dell'Ottocento, un poeta elegiaco fragile e gentile. Credo che questo sia, Acitelli: un poeta elegiaco fragile e gentile. Romanissimo, e orgoglioso di questa romanità come nessun altro al mondo. Aristocratico proletario.
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“Strade di usci malandati e tosse insistente. Strade dove ancora si coglie l'odore di cardi e sambuco e dove i macchioni sono ancora séparé di un segreto d'amore. Strade dove sulle casupole il ricamo è il balconcino e la vernice data alla ringhiera è sempre qualcosa di definitivo. Strade su cui finiscono gli sguardi, perché da esse provengono lo stupore e la fantasia. Strade dove pur disponendo di una macchina fotografica verrebbe da chiamare un fotografo e vestirsi da anni Trenta: la giacca precaria, la maglia col collo a camicia, i pantaloni larghi, qualche goccia di Venus sulla chioma e comporlo definitivamente, per tutti, lo sguardo dignitoso e onesto. Sensazione forte questa, che mi giunge qui, in via dei Quintili, subito dopo via Quinto Ortensio, quando, al semaforo, s'avvistano gli archi dell'Acquedotto. (Appunto trascritto al volo perché intenso e dunque possibile di dissolvimento)” (Acitelli, “Sulla strada del padre”, pp. 37-38).
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“Sulla strada del padre” è anche un grande omaggio a Italo Acitelli, padre di Fernando. Cittadino onesto e mite classe 1916, padre amatissimo, educato e semplice e buono, romano, soldato catturato dagli Alleati negli anni Quaranta e imprigionato, assieme a futuri grandi scrittori come Giuseppe Berto e a futuri politici come Beppe Niccolai, a Hereford, in Texas. Il figlio racconta giovinezza, guerra, ritorno in patria e farraginosa integrazione del suo papà nell'Italia ferita dal massacro bellico; racconta passioni e amori grandi, il calcio e naturalmente la Roma prima di tutto, e ingiustizie e rovesci della sorte, la cardiopatia prima di ogni cosa, e le tante corse all'ospedale, mannaggia, vissute con un senso di disperazione e di angoscia che soltanto certi figli possono capire e raccontare.
Io dico che il massimo Acitelli lo dà in questo passo, sintetizzando la sua visione del padre, della sua grandezza e della sua nobiltà, a partire dal suo amore per la Roma, e dalle lacrime spese per lo scudetto del 1983: quello bellissimo di Liedholm, e di Bruno Conti, e di Ancelotti. “Che militanza, che fedeltà, che passione per il gioco del calcio e per la vita! Osservo queste foto e la prima cosa che noto è la tua onestà. Emerge con un nitore che soltanto i poveri di spirito, i cialtroni, potrebbero evitare l'argomento. Mai una parola contro qualcuno, sempre pensieri buoni, concilianti verso il prossimo, tu il vero signore, non io, tutt'altra pasta io, davvero, mica in meglio, appena qualche scheggia di te se io pure con l'Assoluto ho sempre avuto un conto aperto. Ma la mia è una pratica che difficilmente si chiuderà, una specie di atto di citazione con provvedimento d'urgenza, come si dice. Un signore vero tu, padre mio […]. Niente da spartire col mondo, tu, un delicato a oltranza... da sala d'aspetto di Dio, in vero, mica logico per te un posto quaggiù...” [p. 241].
Ecco: e così probabilmente uno capisce come sia stato possibile che nascesse un libro assurdo e bellissimo come “La solitudine dell'ala destra”, tanti anni fa. La sensibilità del poeta s'è forgiata nell'esempio paterno, nella meraviglia bambinesca per l'amore paterno per la Roma, e per il gioco del calcio, e per Roma. Nonostante Roma. Già: certe volte, Roma, è 'na favola.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Fernando Acitelli (Roma, 1957), poeta, scrittore e giornalista romano. Ha studiato Lettere Moderne alla Sapienza e Filosofia alla Pontificia Università Lateranense. Scrive sul “Messaggero”.
Fernando Acitelli, “Sulla strada del padre”, Cavallo di Ferro, Roma 2011.
Gianfranco Franchi, Luglio 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.
E cosa restituisce e trasfigura, in particolare, della città di Roma? L’aristocrazia proletaria.