Passigli
2001
9788836806980
Drieu La Rochelle, in questo “Drole de voyage” del 1933, è una volta ancora Gille, “L’uomo pieno di donne”, innamorato dell’idea dell’amore, dongiovanni accecato dall’eterno femminino: appartiene – e si direbbe integrato – a una società medio-alto borghese non estranea a vezzi aristocratici; ha una professione, quella di diplomatico, che gli assicura credibilità e adeguato tenore di vita; è un individualista che sembra dare il meglio di sé, paradosso ma non troppo, in contesto salottiero. Come di consueto nella narrativa sentimentale-esistenziale di Drieu, l’uomo che non aveva vissuto, piuttosto come gli adolescenti aveva conosciuto soltanto il desiderio si trova a domandarsi – assaporando l’opportunità d’una seduzione nuova – quanto questo sentimento dipenda dall’amore, e quanto dalla sua ostinata renitenza ad accettare una giusta solitudine. Secondo nodo del romanzo – scritto nel 1932 e pubblicato, come s’accennava, nel 1933 – è la peculiare posizione politica dell’alter ego del narratore; importante proprio in considerazione delle sue successive e tristemente note vicende (cfr. “Racconto segreto”). Non lesina satira e veleno nei confronti dei regimi, quali che siano, mostrandosi in ogni caso più distante dai bolscevichi che dai fascisti; spezza una lancia a favore dell’ipotesi d’una Chiesa finalmente nemica del capitalismo; ridicolizza i confini degli Stati, prendendosi gioco dei doganieri e della burocrazia (ritiene Hitler l’ideale figlio di un doganiere); infine, racconta la decadenza del nostro tempo.
Prima allegoria è la pittura: “(…) i soli pittori capaci ancora di dipingere hanno saputo rifugiarsi nella negazione della pittura. Quando i contemporanei inclini a questo genere di esercizio si sono accorti della debolezza della nostra cultura e dell’anemia del nostro temperamento, hanno inventato la teoria di una pittura rudimentale e inumana (…)” (p. 23).
In questo passo s’evidenzia una critica estetica e sociale piuttosto severa, volta a dimostrare come una società fragile, fredda e decadente non possa non avere uno specchio come la “pittura negata”; una pittura, appunto, rudimentale e inumana. D’altra parte, in questa società…
“Non si può demolire nulla, è tutto marcio. Ma tutto rimane in piedi…, come questa casa” (p. 61). E allora Gille, che viene da un’estate rabbiosa, da una crisi esistenziale terribile (“L’amore, l’amicizia, tutte le sue passioni avevano cozzato tra loro. Tutto si era infranto ed egli si era ritrovato nudo nella realtà della solitudine. Da quel momento era assorto in una fantasticheria senza fondo e lasciava scorrere i giorni (…)”, p. 20) si ritrova, incompiuto e irrealizzato, tra vecchiezza e giovinezza. E smania. Sognando una solitudine estranea all’egocentrismo (possibile?), che sappia “spezzare il suo io”.
Così: “Si sentiva invaso di nuovo dall’eterna tentazione di andarsene, di nascondersi nell’ombra, nella solitudine, di sottrarsi alla vita comune per immergersi in una vita più segreta, orribilmente acre, ma forse più vitale. Dov’era la vita? Una sola divinità esisteva per lui, la Vita, e voleva servirla. Qual era il comandamento principale di quel dio? Gettarsi nel ristretto cappio di una donna oppure fuggire, fuggire sempre? Ma anche all’interno della solitudine, passato il momento dell’ebbrezza e del dissolvimento nell’estasi, avrebbe ritrovato il suo io, altro cappio e altra strettoia” (p. 67)
L’introspezione incrina ma non spezza l’inerzia. Beatrix, ricca e seducente, nomen omen impronunciabile in Letteratura da qualche secolo, è l’oggetto delle considerazioni di Gille. Dovrebbe essere una donna con molto cuore, dice l’amico Gabriel, quella che s’affianca e s’unisce nel tempo a un uomo come lui. Capace di bontà estranea all’indulgenza, di distacco necessario, di ragionevole passione, di sacrificio totale, in altre parole.
Non si sta sfaldando soltanto la società. Sta crollando l’individuo, ripiegato in se stesso, elemento d’un sistema che si sta disintegrando. Umana tragedia del Novecento, intellettuale e artista spettro e non specchio: figuretta malata, affranta e incapace di interazioni lontane dalla precarietà, dalla caducità, dalla cerebralità a qualsiasi costo. Tutto è finito in discussione: ogni istituzione, ogni colonna portante. Lo Stato, la famiglia, il matrimonio, la chiesa, l’ideologia. Il tratto caratteristico del nostro Novecento, e del primo duemila, è la consapevolezza che i pilastri delle società occidentali sono fradici, e che non s’intravedono soluzioni né rimedi. Serve un’invenzione radicale, fondante: un’idea nuova di Stato, che inevitabilmente converga in altra famiglia, altra chiesa, altre dinamiche professionali; altra gerarchia di valori. Serve rinunciare all’idea che possano esistere nazioni composte da molti milioni di individui; perché inevitabilmente è un’idea che coincide con la necessità di un regime, e di una serie di violenze, prevaricazioni, arbitrii e ingiustizie: con la creazione di oligarchie regnanti, con la distruzione di tradizioni e la negazione di necessità, richieste, esigenze. Tutto s’assimila a un’idea, e non si particolarizza; universalizzare è una menzogna atroce. Drieu l’aveva capito.
E finalmente aveva paura di morire in se stesso come in una prigione. L’isolamento intellettuale è intollerabile. “Ora bisogna che io doni qualcosa o muoia”, scrive Gille (p. 157). “Bisogna che finalmente mi affidi a una creatura che si affidi a me”: non vuole più avventure, non può più averne. Logico che questa coscienza, considerando da posteri l’opera di Drieu, risulti artefatta e inapplicabile; piuttosto rimanga tendenza, appunto desiderio. Illuminazione tardiva, espressa ma inattuata. Ripartire dall’impossibile, ripartire dall’amore. Un amore adolescente. Una delle poche illusioni che hanno senso.
Perché intanto uomini come Gille vivono, al di fuori del lavoro e quale che sia il loro lavoro, come vagabondi che dormono sopra una panchina, e si procurano denaro mendicando (p. 202); succede grazie allo stupendo anonimato delle città moderne. E non serve nascondersi nei salotti per illudersi del contrario, non serve proprio a niente.
Drieu scrive mentre l’Occidente va incontro alla nuova disfatta della guerra. Il clima politico e culturale, settant’anni dopo, ha fatto passi in avanti verso la fatiscenza. L’obsolescenza è un dato acquisito. Romanzo modernissimo, lettura necessaria.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Pierre-Eugène Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 16 marzo 1945), romanziere e saggista francese. Esordì nel 1917 con “Interrogation”. Partecipò ventenne alla prima guerra mondiale, fu collaborazionista nella seconda. Direttore, in quegli infelici anni, della Nouvelle Revue française, morì suicida, rifiutando (o evitando) d’essere processato per la sua adesione al nazismo.
Pierre Drieu La Rochelle, “Che strano viaggio”, Rusconi, Milano, 1971. Traduzione e Introduzione di Alfredo Cattabiani.
Nuova edizione: Passigli, 2001.
Prima edizione: “Drole de voyage”, Gallimard, Paris 1933.
Gianfranco Franchi, gennaio 2008.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Ad Angela. Grazie di cuore.
Drieu La Rochelle, in questo “Drole de voyage” del 1933, è una volta ancora Gille, “L’uomo pieno di donne”…