Zandonai
2011
9788895538525
“Ho pensato spesso che la vita che mi è toccata ha avuto – in ogni tempo e in ogni luogo – un punto fermo e immutabile: la precarietà di un futuro sempre e comunque ignoto. In Francia, come negli altri Paesi in cui sono stato vagabondo, soldato, studente liceale o viaggiatore mio malgrado, non sapevo mai che cosa ne sarebbe stato di me e se, in seguito agli infiniti rivolgimenti di cui ero testimone e parte, mi sarei ritrovato in Turchia o in America, in Francia o in Persia; e anche a Parigi, nonostante un lavoro decisamente monotono, provavo sempre, ogni giorno, la stessa sensazione che avrei provato seguendo il corso di un ruscello che finiva puntualmente per insabbiarsi” [Gazdanov, “Strade di notte”, p. 167].
Lo scrittore serbo Dragan Velikić, prefatore d'eccezione della bella edizione Zandonai del romanzo esistenzialista dell'esule russo Gazdanov (San Pietroburgo, 1903-Schwabing, Monaco, 1971), ci avvicina alla letteratura di un artista che in patria viene considerato oggi un “classico moderno”, come Bulgakov per capirci, ma che da queste parti fatica ancora a essere apprezzato e interiorizzato a dovere.
Gadzanov, così ci racconta il suo grande lettore serbo, è uno che aveva passato venticinque anni per le strade di Parigi alla guida di un taxi, uno che aveva avuto la giovinezza solcata e ferita dalla guerra civile e dal martirio dei Bianchi per mano dei rivoluzionari leninisti, uno che aveva capito parecchio delle dinamiche psichiche degli esseri umani, e non aveva dubbi a proposito della relatività di tutto, e non aveva nessuna voglia di autocelebrarsi. E questo a dispetto del fatto che, secondo Velikić, uno come lui non aveva niente da invidiare al compatriota Nabokov. Andiamo a riscoprirlo col dovuto entusiasmo, allora.
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Il narratore di “Strade di notte” è uno che ha conosciuto miliardari con le unghie sporche che lavoravano sedici ore al giorno, vecchi tassisti che avevano case e terreni ma nonostante tutto, fegato a pezzi o polmoni esausti, andavano avanti e indietro per la città per una manciata di franchi, e così avrebbero fatto fino alla fine dei loro giorni. È uno che ha ben chiaro che c'è gente che nel lavoro si spegne e nel lavoro si nasconde – che finge di dedicarsi a qualcosa per non ammettere che non ha nessuna idea su cosa possa essere e significare la vita: su cosa possa essere vivere. È uno che ha una gran memoria, uno che non dimentica nulla di ciò che vede e prova. Magari dimentica le trame e i contenuti dei libri e dei manuali letti tempo prima, e dimentica le formule matematiche. Ma le persone no, quelle le ricorda tutte quante. Gadzanov è uno che non ha nessuna difficoltà a raccontare quanto miserabile sia la Parigi che nessuno racconta, quella delle periferie e dei sobborghi operai, inquinati e davvero miserabili. Non s'è innamorato della Parigi da cartolina. Ha vissuto per una città complessa, piena di contrasti e popolata da diverse etnie. Sa raccontarla con disinvoltura e lucidità. Ci restituisce la Parigi dei primi anni Quaranta. Tutta, mi piace pensare. Quella notturna in primis.
Gadzanov è un russo esule, e per la capitale francese non fa che riconoscere e incontrare suoi compatrioti. Gli esuli russi sono tutti feriti dalla malinconia e dalla nostalgia per la perduta patria, inequivocabilmente, e per il perduto ruolo, per la perduta appartenenza a un tessuto sociale ben riconoscibile. La loro vita passata ha cessato di esistere, “rimpiazzata dalla miseranda realtà straniera che, per scarsa conoscenza del francese e assenza di senso critico, avevano eletto a ideale della loro esistenza”. E in questa realtà sono diventati come gli animali metamorfici di quel libro di Wells, “L'isola del dottor Moreau”: hanno impiegato poco a dimenticare il linguaggio e a tornare bestie. Hanno impiegato poco a perdere “senso critico e sovrabbondanza intellettuale”. Gazdanov ha la sensazione di vivere in un gigantesco laboratorio, in quegli anni, in cui le più diverse forme di esistenza vengono sottoposte a esperimenti: “il destino si divertiva a trasformare le belle ragazze in vecchie, i ricchi in poveri, le persone oneste in mendicanti di professione, e lo faceva con una perfezione straordinaria, incredibile”.
In “Strade di notte”, spiega bene Dario Olivero di “Repubblica”, “[...] chi attira l'attenzione di questo russo che parla e veste come un francese, ha imparato l'argot e miracolosamente è astemio sono gli abitanti del demi-monde: calicisti, impiegati sfiancati del sabato notte, caffè di clochard e filosofi boulevardier, banlieue dove gli unici Lumi mai arrivati sono le lanterne delle prostitute accese anche di giorno, dove è ancora medioevo e l'odore di miseria non se ne andrà mai, proprietari di caffè che hanno consacrato la vita al lavoro come la gente rimasta sola fa di solito con Dio, cercatori di mozziconi, puttane che incominciano il mestiere e poco dopo non le distingui più dalle altre, il corpo e gli occhi imparano presto a non pensare [...]”.
E questo libro è il loro jazz freddo – il jazz freddo di questa umanità variopinta e maudit, suicida, sudicia e isolata, insofferente e vera. Niente male.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Georgij Ivanovič Gazdanov, alias Gajto Gazdanov (San Pietroburgo, 1903-Schwabing, Monaco, 1971), scrittore russo, esule post guerra civile. Fu uomo dai molti mestieri a Parigi. A Parigi riposa.
Gajto Gazdanov, “Strade di notte”, Zandonai, Rovereto, 2011. Prefazione di Dragan Velikić. Traduzione di Claudia Zonghetti.9788895538525
Prima edizione: “Nocnye dorogy”, 1991.
Approfondimento in rete: wiki en
Gianfranco Franchi, maggio 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.