Feltrinelli
2012
9788807880933
¿Le gusta este jardín, que es suyo? ¡Evite que sus hijos lo destruyan!
“E la coscienza era stata data all'uomo soltanto perché se ne rammaricasse nella misura in cui ciò avrebbe potuto cambiare l'avvenire. Perché l'uomo, ogni uomo, sembrava dirgli Juan, proprio come il Messico, deve lottare senza posa per elevarsi. Che cosa era la vita se non uno stato di guerra e la sosta di un forestiero? La rivoluzione infuria anche nella terra caliente di ciascuna anima d'uomo. Non v'è pace che non debba pagare un congruo contributo all'inferno” (p. 123)
È il grande romanzo dell'incomunicabilità: della frustrazione e della sofferenza del perduto amore, del distacco dall'idea, dell'impossibilità dell'appartenenza. Dell'appartenenza a una nazione quando diventa impero, dell'appartenenza a una donna quando decide che più non esisti, e che più non hai senso. Tornare indietro non serve a niente: stai già precipitando, e l'alcol ti accompagna in fondo al baratro.
Ambasciatore inglese, ex poeta, reduce di guerra, beve ora dopo ora per non ammettere la decadenza del sogno; la fine dell'amore; l'impossibilità di restituire Yvonne al suo presente. È consapevole della sua nuova invincibile impotenza. Lei appare e si lascia desiderare, ci si illude invano e infine tutto sfugge, si dissipa nel bere. Hanno divorziato: lei è tornata per stare al suo fianco; non si riesce, non si può (domani non più esiste).
Messico, città di Quauhnahuac, a sud del Tropico del Cancro: diciotto chiese, cinquantasette cantinas, quattrocento piscine. Laruelle, quarantadue anni, non abbandona la speranza che il suo cinema possa cambiare il mondo. Sotto la luce della luna, con una racchetta da tennis per scudo e una torcia per bisaccia, può sembrare un cavaliere antico. Ama una sua attrice, Yvonne, e non riesce a capacitarsi che se ne sia andata. Pensa che la Francia non deve trasferirsi nel Messico, nemmeno sotto travestimento austriaco (e la maledizione di Miramar non si deve ripetere: la stupenda passione di Massimiliano e Carlotta infranta dal tempo, e dalle cose della vita; il dolore diventato pazzia, e morte). Un suo vecchio compagno di giochi è il locale console inglese: il destino li ha riuniti, per bizzarre traiettorie.
Geoffrey Firmin, ex orfano anglo-inglese, adottato e cresciuto dalla famiglia di un poeta, famiglia di magnifici camminatori e incredibili bevitori, è il console ferito dai tradimenti della sua compagna, Yvonne, e dalla fine del loro amore. Le scrive lettere sterminate, magari finiscono sotto il fuoco. Si alcolizza a tutto spiano per cantare la sua assenza, per tingerla di senso, per sublimare il dolore del tradimento. Quando pensa ai soldi stabilisce equivalenze in alcolici. Sogna di essere amato per la sua aria imprudente, irresponsabile – per la nascosta, e forse non spenta, fiamma del genio ereditato dal patrigno poeta, Abraham Taskerson, che tanto credeva nel suo futuro. Perché il genio se la cava sempre.
Yvonne, capelli castani schiariti dal sole, gambe lunghe e belle, aristocratiche, naso all'insù; orecchie piccine, caldi occhi castani, “velati ora e dolenti, bocca ampia, dalle labbra carnose, calda essa pure e generosa, il mento lievemente morbido” (pp. 84-85); è la perfezione smarrita, e tuttavia incarnata, e viva. È la dolcezza di chi vuole recuperare quel che s'è infranto: la sensualità del passato, la nostalgia del presente.
Hugh è un giovanotto di ventinove anni che ha letto troppi libri di Jack London, e crede di poter vivere al limite, radicale e coerente; è un giornalista – consapevole che il giornalismo sia la prostituzione intellettuale maschile, e quindi è un giornalista giunto quasi al termine della sua missione. Per molti anni ha avuto bisogno di azione, ora scrive come corrispondente dall'estero. Ovunque va – come un marinaio – si porta con sé la sua nazione. La sua nazione è l'Inghilterra. Desidera contribuire a un futuro diverso per Geoffrey e Yvonne: fantasticano di un loro trasferimento in Canada, al di là di Vancouver, a vivere come i pionieri, autosufficienti e clandestini. È un testimone della fine di tutto.
È un libro eccezionalmente carico, e maestosamente tragico. Se volessimo paragonarlo a un vino, dovremmo considerarlo uno di quei vini schietti che i viticoltori evitano di commercializzare, preferendo passarselo tra clan amici, bevendoselo all'oscuro di tutti. Dà subito alla testa e lascia un senso di disorientamento e di dolore invincibile. Lowry ha dato vita a una galleria di personaggi di grande umanità – per una poetica del fallimento, della sconfitta: interessante, assolutamente contemporaneo – e ha mostrato di saper animare una scrittura capace di forte descrittivismo, profonda analisi introspettiva, limpido – perché eccezionalmente forte – simbolismo. La sensazione è che la struttura sia stata come una vecchia barca spedita in missione dall'Inghilterra al Messico: l'acqua è penetrata dappertutto, in certi frangenti, e spesso il vento ha dirottato altrove la navigazione. E tuttavia, quando s'è aperto qualche squarcio di sole e di luminosità, s'è avuta la sensazione che si potesse approdare in un golfo simile a un gomito. Che si trattasse di un'opera di genio.
Non sprofondate nella consolazione dell'alcol dopo aver letto questo romanzo, non serve drogarsi di mescal per cancellare la realtà, né per descriverla meglio. L'alcol la deteriora soltanto, la realtà: e intossica la scrittura, assieme allo stato d'animo. L'alcol amplifica il malessere e vi trasforma in mostri ossessivi. Ecco, questi personaggi sono ossessivi come tutti gli alcolisti che avete incontrato sul vostro sentiero. Il pensiero etilico è maniacale, è un assist per gli analisti, in un certo senso, o per i confessori; e tuttavia, pur essendo un assist, è un assist contorto, complesso, non articolato ma labirintico, perché pur fondandosi su un pensiero soltanto poi si macchia di digressioni sul niente, o sul laterale – come se i pensieri fossero diagonali che si incrociano sempre sullo stesso punto. Qualcosa del genere.
“Ti ricordi domani?” - lesse. No, si disse; le parole cadevano come sassi nella sua mente. Era un fatto: egli stava perdendo contatto con la propria situazione... Era dissociato da sé stesso, e nello stesso tempo se ne rendeva perfettamente conto, lo shock delle lettere ritrovate avendolo in un certo senso svegliato, anche se soltanto per passare, diremo, da uno stato di sonnambulismo a un altro; era ubriaco, era lucido e normale, era in preda ai postumi di un'ubriacatura solenne; tutto in una volta (...)” (p. 374).
Ho letto che il film di John Huston è molto fedele al romanzo: è un'opera del 1984 che andrebbe studiata e comparata a dovere. Se ha saputo fondere sentimentalismo, esistenzialismo e simbolismo a questo livello e con questa intensità non può che essere potente e serenamente autodistruttiva. Gli amici cinefili sapranno ragguagliarci. Ringrazio Andrea Consonni per la segnalazione del romanzo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Malcolm Lowry (Wallasey, 1909 – Ripe, 1957), poeta e romanziere inglese. Visse per lunghi periodi tra Francia, America, Canada e Italia. Morì per overdose di sonniferi.
Malcolm Lowry, “Sotto il vulcano”, Feltrinelli Milano 2005. Traduzione di Giorgio Monicelli. Quarta di Maurice Nadeau.
Prima edizione: “Under The Volcano”, 1947. IT: Feltrinelli, 1961.
Riconoscimenti rilevanti: 11esimo nella classifica dei 100 best novels of the 20th century della Modern Library. Time lo classifica tra i "100 best English-language novels from 1923 to the present".
Adattamento cinematografico: “Under The Volcano”, di John Huston, con Albert Finney, 1984.
Gianfranco Franchi, marzo 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.