Armando Siciliano
2002
9788874420926
L’opera prima di Giuseppe Buemi, narratore classe 1978, è un breve romanzo di formazione. A suggellare ouverture ed epilogo è un’insolita pioggia che rinnova la Sicilia, e trascina il protagonista al di là della linea d’ombra: a far da colonna portante dell’opera, un grande amore. Narrato – e questa è forse la caratteristica più interessante – in una cinematografica terza persona, che soltanto nelle ultime battute si dissolve rivelando l’io narrante: vissuto tanto nell’ombra di Max, schivo e romantico antieroe del libro, da essere divenuto la sua ombra vera.
È un libro tardoadolescenziale. Un Jack Frusciante sicilianissimo, concentrato nella celebrazione dell’immagine di un ragazzo spiritualmente “diverso” e socialmente “atipico”, folgorato dalla bellezza e dall’intensità d’un amore che niente potrà cancellare, incredulo e perplesso nel momento dell’assunzione di coscienza delle sue caratteristiche e del suo temperamento.
Max è un ragazzo che sembra sentirsi libero soltanto guidando il suo motorino, un vecchio e glorioso Zundapp che non (l’)abbandona mai; segno d’un desiderio di autonomia, di indipendenza e di distinzione (almeno: estetica) che origina riflessioni e considerazioni e confronti con l’alterità. Crede troppo nell’amicizia per nominare amico altri che non sia Mario, fedelissimo amico d’infanzia e d’ogni estate, sanguemisto tosco-siciliano; e sembra meravigliarsi quando s’accorge che può egualmente esistere spontaneità e comprensione in un ragazzo, Stefano, che pure percepiva, dapprincipio, come estraneo e alieno al suo mondo.
Disprezza il disinvolto e opportunista impegno politico dei suoi compagni di scuola, candidati a essere rappresentanti d’istituto: osserva con lucidità e freddezza il deterioramento del loro idealismo, e scuote costantemente il capo di fronte al loro pressappochismo e alla pavoneggiata e vuota loro parata dialettica – degna, al solito, d’una prevedibile catechesi assorbita e interiorizzata nella sede del partito. Non è un sognatore. È un osservatore della realtà. È un sentimentale. Incapace di tradire: almeno, se tradire significa mentire. Max tende a non mentire a se stesso. Rifiuta interazioni ipocrite, col prossimo. Sa d’appartenere alla ragazza bolognese che ha conosciuto nell’estate prima della maturità, Gioia, che sognava di diventare pittrice e aveva cambiato la sua vita in qualche settimana – perché stare vicino a lei significava conoscere euforia e stupore e leggerezza e comprensione – e rinuncia allo status di suo compagno solo quando s’accorge che l’autunno e l’inverno vanno ferendo l’attesa (di quell’estate che sembra non tornare: “ma quanto tempo ci separa dalla prossima estate?”, come diceva qualcuno in quel glorioso e dolce numero 74) e negando l’esistenza. Solo essenza esiste, a dispetto d’esistenza e d’apparenza: Max avrà l’amore d’una sua affascinante compagna di classe, Paola, ma vivrà attendendo il ritorno di Lei.
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Retroterra siculo. Paesino di quattromila abitanti, tra Palermo e Trapani. È l’estate della vita d’un ragazzo: è la stagione delle prime volte, del ribellismo e delle manifestazioni di coscienza e di indipendenza. È la stagione delle prime vere sbronze, delle sigarette fumate di nascosto, delle pomiciate da post-stilnovista, della provinciale passione per l’ormai catodico Celentano; percepito come stravagante e autoironico campione della consapevolezza dell’ignoranza, deificato come regista d’una squadra di calcio in un campionato della Playstation. È un’estate non estranea alla lucidità, come si scriveva. E orgogliosamente e totalmente coraggiosa. Max vuole combattere il morbo della mafia, che ha già mostrato la sua crudeltà e il suo drammatico potere strappandogli un amico, Ciccio, assassinato previa mutilazione delle mani, e precipitato in burrone. Perché aveva rubacchiato nella proprietà d’un mafioso. Max non ha paura di denunciare i contrasti e le contraddizioni della sua isola: splendida e selvatica la natura, adorabile l’ibrida e irripetibile eredità culturale delle antiche civiltà, atroce l’egoismo e l’indifferenza contemporanea, e la conseguente tolleranza della logica dell’omertà.
Max cresce con intelligenza, concedendosi uno splendidamente adolescenziale estremismo romantico. Ha la grazia e la gentilezza di chi è ancora innocente, e non può sapere d’esserlo davvero; e tuttavia il suo narratore diventa arrembante e grezzo, quando eccede, inconsapevole, nei cliché e nell’aggettivazione ipertrofica. Eccesso di vitalità: sì, è davvero un’opera prima, ovviamente estranea all’editing, intatta nel suo magma di intelligenza e ingenuità, nell’ambizione di grandezza e nella vagheggiata d’epica d’un individuo che può assomigliare a tanti altri bastian contrari della sua generazione, soltanto mutando l’ambientazione. È un libro che appartiene alla leggenda adolescenziale dell’io del suo autore, ma non può non restituire ricordi e reminiscenze al suo lettore coetaneo: perché quell’innocenza favolosa era patrimonio comune, e forse lo stesso può dirsi dei riferimenti. Penso a un passo come questo, che descrive un momento importante dell’amore di Gioia e Max. “Stavolta partirono diretti verso il mare e non aveva importanza ci fossero i costumi o meno, se potessero o non potessero fare il bagno. L’importante era stare insieme. Entrambi amavano: Vasco Rossi, il numero 74 di Dylan Dog, il gelato al cioccolato affogato nella panna, i film comici ed anche quelli romantici. Perché non si sarebbero potuti innamorare?” (p. 26).
Vale quanto espresso a proposito del romanzo d’esordio del bolognese Fabio Piccoli, “Baraonda”: qui si va tributando un omaggio a una serie di sentimenti d’un’epoca della vita d’un autore esordiente; d’un’epoca che è terribilmente confusa e caotica e intensa, e si presta naturalmente ad una trasfigurazione letteraria. Non si può pretendere misura, né “universalità”: si deve prestare ascolto, sorridere e lasciarsi trascinare; apprezzare gli aspetti più promettenti (in questo caso, la cinematograficità dell’incipit, l’effervescenza e la vivacità di qualche descrizione, la campionatura del dialetto, il rifiuto delle mafie e della “normalizzazione” dell’individualità), prevedendo che qualche passo potrà risultare prevedibile o non innovativo o acerbo. Auspicando, ovviamente, che quanto di buono è stato espresso nel libro d’esordio possa maturare e perfezionarsi nelle future opere dell’autore. Buemi sa mitologizzarsi, e coinvolgere: mantenere questa sua immediatezza e questa sua freschezza, nel tempo, potrà riservare ovviamente esperienze estetiche più piacevoli e originali. Attendiamo. Coraggio.
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PAROLE D’AUTORE (di Giuseppe Buemi)
«Oh Franchi, il grande Franchi, il lucido esteta d’un Franchi, permettetemi tutti quegli elogi che sicuramente non sarei capace di fare di persona al caro recensore per le mie gelide capacità socializzanti. Non posso assolutamente discostarmi da un’analisi così acuta, sebbene ci tenga a precisare che in una così lunga recensione mi aspettassi che almeno rilevasse meglio un particolare: ovvero il passaggio-chiave della perdita definitiva dell’adolescenza. Dico definitiva benché il ragazzo fintanto che si trova a dipendere dalla sacchetta paterna non può dirsi del tutto uomo libero e indipendente (ché poi ’sta libertà e ’sta indipendenza spesso sono bandiere sventolate dal carro del padrone). Già, Max perde a poco a poco ingenuità, innocenza, verginità, fino a perdere sé stesso, si spoglia dell’io, fuoriesce dalla scontrosa arroganza di un ragazzino come tanti e si vede dall’esterno. Lo fa grazie ad un sogno, sì, d’amore, ma che quando ti logora diventa incubo; lo fa grazie ad uno specchio dove ci vede nient’altro che una maschera, il buon ragazzo che credeva d’essere quand’invece sotto la maschera c’è solo uno dei tanti, un giovane uomo, l’eroe bastardo d’un libro. Non è bianco… non è nero… è un meraviglioso ritratto grigiastro in chiaroscuro… è un giovane uomo. Come tanti. È a questo punto che Max si dirà: oh minchia! ma il mio disprezzo delle cose più disprezzabili non era giusto? sì lo era! giusto com’è vero che io stesso sono capace d’essere altrettanto disprezzabile! ma non lo sapevo? io, ragazzo cresciuto, mezzo uomo, che per sentirmi tutto uomo e che per affermarlo alzo la voce ed urlo la mia rabbia al mondo cane che sono un gran pezzo d’uomo che detesta tutto il più detestabile, non lo sapevo? No, forse io, il ragazzo mezzo uomo che proprio perché mi manca l’altro mezzo uomo d’esperienza ai genitori uomini interi no cazzo non voglio darla vinta, no, forse non lo sapevo. Ed ora so pure che l’ipocrisia è una maschera che va sempre di moda e che il mio inconscio l’ha sempre saputo, come la mia anima che semmai non dovesse essere davvero tormentata da due forze, da un angioletto e da un diavoletto così folcloristici, beh! di sicuro è un affare alquanto complicato e di difficile decifrazione che già prima di morire conosce inferni e paradisi a seconda di come gira. Ora so che la coerenza è un ideale affascinante, ma io, un uomo appena consapevole d’esserlo, sono ciò che di più incoerente esista. Così la concluderà Max, e la conclusi io, Giuseppe Buemi, giovane autore che a ventuno anni non poteva non scrivere della roba simile. Che la conquista di Max l’ho fatta dopo di lui, dal punto di vista anagrafico; in contemporanea invece al personaggio: che nasceva dalla mia mente, dalle mie mani, che rimodellavo nelle faticosissime revisioni d’un inesperto ragazzino autodidatta alle prese con la sua opera prima, che rileggevo e meditavo ritrovandomelo a sorpresa su un libro e mi costringeva a portarlo in giro per l’Italia, come non seppi fare quando la mia Gioia (che guarda caso si chiama Letizia) sperava forse che fossi tanto coraggioso da fare armi e bagagli per raggiungerla. E alla stessa maniera come l’autore e il protagonista sarà cresciuto il personaggio che parla, che altri non era che una via di mezzo tra il narrante e il narrato. Avevamo bisogno tutti e tre che il nostro eroe perdesse la battaglia. Certo che non poteva non nascere dalle mani d’un ragazzino, sarà per questo che i ragazzini d’una terza media lo stanno leggendo avidamente vedendoci in parte se stessi, in parte una proiezione di quel che potranno essere. Dei miei coetanei ci rivedranno luci ed ombre d’un passato non tanto remoto, ma già bello lontano letterariamente se hanno fatto le stesse letture che feci all’epoca, sarà lontanissimo per chi ne ha fatte più di me. Il romanzo adesso lo riscriverei diversamente, a dire il vero l’ho già fatto, non so quanto sia il caso di ristamparlo così, ma tanto il problema non si pone finché non finiranno le copie. E non è manco detto che finiscano. Quanto all’assenza di editing sono contento, mi sono sudato tutte le virgole, altre ancora ne suderò, e spero che la mia scrittura possa sì migliorare come rimanere più pura possibile. Questo romanzo l’ho amato tanto quanto l’ho odiato, e credo sia arrivato il momento di salutarlo e lasciarlo al suo destino. Il mio in compenso è ben più incerto, combattuto tra un Camilleri e un Fante a causa della fragile personalità autoriale d’un ventiseienne, combattuto fra una versione e l’altra del nuovo romanzo, combattuto tra la cerca d’un’occupazione in terra sicula e l’emigrazione da una minchia di isola che amo malgrado a volte mi faccia incazzare, combattuto tra la povera scrivania dello scrittore e la ragionevole scrivania dell’impiegato, combattuto tra l’addio ai sogni di gloria e l’utopia di una rivoluzione culturale» (Giuseppe Buemi, gennaio 2005).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Giuseppe Buemi (Augusta, Siracusa 1978), scrittore italiano. Ha scritto per il quotidiano “La Sicilia”. “Sogno di un amore di mezza estate” è il suo primo romanzo.
Giuseppe Buemi, “Sogno di un amore di mezza estate”, Armando Siciliano Editore, Messina 2002.
Gianfranco Franchi, gennaio 2005.
Prima pubblicazione: Lankelot.