Adelphi
2004
9788845923932
In uno dei più bei racconti dei “Sillabari”, “Amicizia”, Parise descrive un uomo che sembra somigliare molto all'archetipo del cantastorie, del moderno narratore: “Sapeva fare una cosa sola nella vita, cioè osservare nei particolari (sempre mutevoli) gli altri nove e il tempo, sperando e studiando il modo, senza che nessuno se ne accorgesse, che tutte queste cose fossero in armonia tra loro” (p. 31). Ecco – questo è quanto intendeva fare lo stesso artista vicentino, ideando quel leggendario lavoro quotidiano di poesia in prosa che sono “I sillabari”. Il gioco si fondava su un criterio molto semplice e vago – alfabetico, tematico – per raccontare storie. D'amore, d'affetto, d'altri, d'amicizia, d'anima, d'allegria, d'antipatia, giusto per restare alla lettera “A”. Ci si ferma alla lettera S, S come “Solitudine”, dopo una decina d'anni di lavoro (1971-1980, “Corriere della Sera”). Parise, nell'avvertenza alla raccolta di questi scritti in volume (1982), spiega perchè: “Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi, e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l'amore”. Sì, soprattutto come l'amore. L'amore sa avere l'odore del sangue.
Secondo il suo primo critico Cesare Garboli, in questo libro Parise "distilla la pietra filosofale del raccontare. Ma non racconta, fa qualcosa di più. Invoglia a pensare che il mondo sia raccontabile". Ancora: questi “non sono racconti, non sono apologhi, non sono operette morali. Io non riesco a trovare migliore definizione che questa: sono romanzi virtuali”. Borges ne sarebbe stato entusiasta, di questa virtualità. E così Calvino, magari con un pizzico di gelosia.
Pier Paolo Pasolini, recensendo il primo volume dei “Sillabari” (1972), scriveva: “Questo senso concomitante del passare del tempo e della sua sostanziale immobilità... è tipico della poesia: non mi meraviglierei se Parise si presentasse ora addirittura come poeta in versi". Sì, sarebbe successo. Poco prima di morire, dettando la fine della vita in tenere elegie. Ancora da riscoprire.
Giuseppe Montesano, nella quarta di copertina della nuova edizione Adelphi (2004), scrive: “I suoi racconti sembrano prossimi alla Mitteleuropa di Peter Altenberg: nel sentimento che non scade nel sentimentalismo, nell'asciutta creaturalità, nella musica fintamente trasandata; ma può anche essere un seguace del Robert Walser dei racconti in forma di temi di scuola: meno follemente didascalico, più narrativo, più carnale; o può somigliare a uno scrittore americano alla Truman Capote: per lo sguardo acuto e quasi tattile che cala nel mondo dell'adolescenza, per la capacità di dare parole ai trasalimenti privi di parole del corpo”. Per la grande amicizia con Truman Capote, possiamo aggiungere, nata quand'erano entrambi giovani scrittori esordienti, uno noto in tutto l'Occidente, l'altro per lo più tra i letterati veneti.
Una delle arti di Parise è quella dell'incipit. Prendiamo ad esempio quello di “Carezza”: “Una sera d'inverno del 1937 in una città italiana fredda e poco illuminata con molti portici e chiese sbarrate un uomo alto con un cappotto lungo e un cappello peloso dalle ali larghe che davano un che di sghimbescio alla sua ombra salì le scale di una casa umida, si avvicinò al buio a una porta e suonò un campanello dal trillo incerto” (p. 86). Sono descrizioni lucide, “precise e potenti”, per dirla con Perrella: sembra d'entrare in un film. E di poterlo abitare, questo film. Altro che 3d.
In altri frangenti, riesce, sempre nelle prime battute, a restituire spaccati della società italiana di valore documentaristico: “Cinema”. Sentite qua. “Una domenica di gennaio del 1942 una signorina di una certa età dai capelli crespi e rossicci raccolti a chignon decise di andare al cinema. Era stata pochissime volte nella sua vita e sempre per accompagnare i bambini ai cartoni animati (era governante in una casa molto signorile), salvo una volta, al film 'Salvator Mundi' che aveva visto insieme alla famiglia il giorno di Pasqua in un anno che non riusciva a ricordare. In casa il cinema non veniva considerato molto bene ma quella domenica la signorina aveva deciso di andarci da sola e di non dirlo a nessuno” (p. 95).
Altrove, è formidabile nel taglio sociologico-esistenziale: è il caso di “Grazia”. Si racconta che “Un giorno un uomo aveva appuntamento con una donna al caffè Florian, a Venezia, alle sette e mezzo di sera. Era l'inizio dell'estate, entrambi avevano un'età particolare, lui quaranta, lei trentacinque, in cui possono succedere molte cose nell'animo umano ma è meglio non succedano perchè è tardi ed è inutile illudersi di tornare ragazzi. Tuttavia i due, forse senza saperlo, avevano molta voglia di tornare ragazzi e accettarono quel loro piccolo flirt appena incominciato come un gioco ma, sotto sotto, con una certa speranza” (p. 165).
L'arte dell'explicit non è da meno. “Cuore”: “Qualche volta l'uomo era inquieto ma non esprimeva a lei la sua inquietudine perché non avrebbe saputo come. Allora diceva, come tra sé: 'Sei uguale, identica'; e lei rispondeva: 'Anche tu'. Ma l'uomo invece sapeva molto bene che tutto ciò che è umano passa e scompare e forse questa era la ragione della sua inquietudine. Si videro per quattro anni durante i quali sembrò loro di rimanere giovani e felici, poi, un bel giorno, lei non venne più ed egli non riuscì a sapere più nulla di lei” (p. 103).
“Odio”: “Caricò gli sci e partirono. Nessuno dell'albergo e delle sdraio si mosse, nemmeno il vigile, e la donna, dapprima a quattro zampe, poi barcollando, si rialzò in piedi, si riassettò, e lentamente, con un fazzoletto al naso, riprese la sua passeggiata” (p. 278).
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Magnifiche le satire del marxismo: nel racconto “Antipatia”, a una tizia che telefona per domandare sovvenzioni per una rivista, basta parlare di “piattaforma di lotta”, perché si sancisca la fine della conversazione. Poco prima, a un tizio che chiamava per domandare fondi a sostegno dei fuggiaschi spagnoli, feriti dal regime franchista, aveva risposto pacato di no; subito s'era sentito dare del “qualunquista, per non dire fascista”, perché “ogni azione dell'uomo è un'azione politica”, e quindi, cioè, nella misura in cui uno rifiuta di fare l'elemosina ai compagni combattenti allora è un fascio. Solita vecchia storia.
Altrove, parlando della libertà e di Rosa Luxemburg, spiega – tra le righe – che la libertà non è il socialismo, è “un pittore americano a Villa Borghese”. Allude a un pittore impressionista che ogni giorno prende e va in bici, per Roma, o entra nei palazzi coi suoi gessi. Se ne sta là qualche ora, a piacere, e poi torna il giorno successivo. E via dicendo. Insomma: no secco al dogma ideologico.
Politicamente, si parla ancora del Biafra (cfr. “Guerre politiche”) in “Fame”. Pagine nere – è il caso di dirlo – quelle di “Guerra”, ambientato nell'Italia settentrionale del Luglio 1944. Si parla di Ico, ufficiale delle Brigate Nere, specialista nei rastrellamenti, bellone con la smania degli oggetti preziosi. Finisce fucilato per furto, la faccia rivolta al muro, di fronte a una chiesa.
Nel racconto “Bacio” un giovanotto, nipote di anarchici, non si riconosce nella frase “la proprietà è un furto”: “se pure in quella frase c'era del vero, dirla gli pareva falso” (p. 59). Nel racconto “Patria”, ambientato nel 1942, un giovanotto dice, a bassa voce ma non troppo, che la sua vera patria è l'altopiano di Asiago – concetto condiviso dal veneto Parise (p. 296).
Difficile poter dare una lettura unitaria d'un'opera così frammentaria, a meno di non volersi concentrare su aspettici stilistici e linguistici, in generale. Oppure, sulla questione degli intenti, degli intenti fondanti il libro. Per questo, ho preferito campionare interventi del passato e frammenti del testo. Sono tra quei pochi che credono che il mito dei “Sillabari” sia eccessivo rispetto alla natura dell'opera: è pur sempre una raccolta di racconti, non sempre riusciti, non sempre perfetti. Sono tra quei pochi che credono che il vero Parise stia nei reportage, e nelle pagine di critica letteraria; nell'ossessione per la morte e per il tradimento che ha dato vita, ad esempio, rispettivamente al “Ragazzo morto” e all'”Odore del sangue”. Questo dei “Sillabari” è il Parise mainstream, che scriveva piano e chiaro per parlare a tutti, e rivelava la sua visione del mondo nelle satire, nelle favole moderne, negli sketch e nei bozzetti. Non sempre con animo di poeta: spesso con spirito di Giovenale. Nemico dei dogmi, in qualcosa tuttavia credeva; negli esseri umani, e nella scrittura. Malato di solitudine, sapeva ritrarla con esattezza chirurgica – cosa che fa male a chi va in cerca d'esperienze empatiche, nella lettura.
Mi sarebbe piaciuto che la postfazione di questo libro – postfazione inspiegabilmente assente – fosse stata composta da un'antologia scelta e ragionata di giudizi critici, pubblicati nel tempo; recensioni o lettere private che fossero. Credo proprio che avrebbe raccontato molto sia della società letteraria, sia della cultura italiana degli anni Settanta e Ottanta. Ci sarà, infine, una ragione – mi ripeto – per cui Parise lo stiamo riscoprendo a venticinque anni dalla sua morte, dopo qualche eccessiva negligenza. Magari l'accoglienza d'antan e subito post mortem, completa di dati di vendita di ogni singola pubblicazione, potrebbe parlare più delle bandelle enfatiche, e delle quarte d'autore. È una sensazione. Andrebbe comprovata...
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986), scrittore, sceneggiatore e giornalista italiano.
Goffredo Parise, “Sillabari”, Adelphi, Milano 2004. Collana Gli Adelphi, 348.
Prima edizione: 1971-1980, “Corriere della Sera”. In volume: “Sillabario n.1”, Einaudi, 1972; “Sillabario n.2”, Mondadori, Milano 1982; quindi, “Sillabari”, Mondadori, 1984.
Approfondimento in rete: WIKI it / Casa di Cultura Goffredo Parise
Gianfranco Franchi, marzo 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Il gioco si fondava su un criterio molto semplice e vago – alfabetico, tematico – per raccontare storie. D’amore, d’affetto, d’altri, d’amicizia, d’anima, d’allegria, d’antipatia, giusto per restare alla lettera “A”…