Si chiamava Zeichen, veniva da Fiume. Si chiamava Valentino, era un poeta fiumano, bambino negli anni della nostra disgrazia: profugo bambino, classe 1938, esule qui nell’Italia rimasta, lontano dalla perduta avita patria, dalla “Heimat”. Si chiamava Zeichen, e davvero è stato il segno delle sofferenze spirituali di tanta nostra gente – la parola “Zeichen” questo vuol dire, in tedesco, “Segno”.
Abitava in una baracca, a Roma, ha abitato in una baracca, a Roma, in via Flaminia, fino alla fine dei suoi giorni, 2016. Preferiva così.
Scriveva così:
“Finalmente, anche in me la guerra è finita
i ricordi rispettano l’armistizio
ma continua il dopoguerra.
Fin d’allora vivo a pianoterra;
da quindici anni sono baraccato
in una abitazione di fortuna
arrangiata con materiale edile di scarto.
Il genere di insediamento urbano che preferisco
è il campo profughi dell’infanzia
con le baracche allineate
e i vasti spiazzi davanti
resi terreno di gioco
da cui mi giungono ancora
i vicendevoli incitamenti dei due fronti
nel dialetto fiumano-croato.
Lo squallore delle suppellettili sgangherate
disgusta le persone stilisticamente coerenti:
mi vedono sedere anche d’inverno su poltroncine di vimini
dai braccioli slegati come lacci di scarpini
da calcio, numero quarantuno,
portati in spalla, a bracciarm”.
L’augusto critico Giulio Ferroni diceva del nostro profugo bambino, poeta fiumano, che era un “osservatore del mondo da una specola singolarissima, da cui tutto può guardare e grazie a cui a tutto può partecipare, ma come standone a parte, […] mai catturato in normalità istituzionali-ideologiche”. Scriveva Ferroni che Zeichen aveva attraversato la Roma del secondo Novecento precipitandovi da “altrove” (scrive proprio così), “dal proprio universo fiumano e, in fondo, mitteleuropeo: irregolarità storica e geografica, proiezione obliqua da un’origine che non c’è più”.
Un’origine che non c’è più, Fiume. E una terribile ferita d’infanzia e adolescenza, un trauma irrisolto, il campo profughi. Un’origine che non c’è più e una storia che non potevamo raccontare, non a tutti, non dappertutto, fino a pochi anni fa. Proprio no, assolutamente no. E nel silenzio incosciente e vigliacco della Repubblica Democratica, il bambino profugo diventato poeta, fiumano romanizzato, abitava una baracca sulla via Flaminia. Forse diventerà un museo, quella baracca. Un museo chiamato “casa del poeta”. Dovrebbero piuttosto chiamarla “casa del poeta, profugo fiumano”, per raccontare a tutti il trauma degli oltre 300mila esuli e profughi nostri. Perché nella baracca in eterno voleva abitare chi la baracca era stato costretto a vivere: costretto dalla crudeltà dell’imperialismo titino, dall’arroganza dei nazionalismi ostili, bambino-segno, fratello nostro. Tu, Valentino.
Continua l’augusto Ferroni, Zeichen, “il suo venire da altrove fa emergere segni e volti vari e diversi”. Come no.
G. Franchi, marzo 2021.
Prima pubblicazione: pagina FB Irci