Serbia Hardcore

Serbia Hardcore Book Cover Serbia Hardcore
Dušan Veličković
Zandonai
2008
9788895538174

La scrittura di Dušan Veličković, giornalista ed editore serbo, è un'iniezione di intelligenza, misura e semplicità. L'artista cerca le parole per rappresentare lo sconcerto, il dolore, la paura, l'angoscia di uno Stato che stava sprofondando. In certi frangenti, la sua scrittura è più vitale e illuminata ancora, illuminata dalla comprensione che non esiste senso nella violenza, perché ogni violenza finisce per riprodursi all'infinito. “È così: oggi i serbi scacciano gli albanesi e la NATO bombarda i serbi, domani gli albanesi scacciano i serbi, dopodomani...” (p. 84).

Siamo nei giorni tristi e terribili del bombardamento americano. Le bombe massacrano Belgrado. I bombardamenti diventano parte della quotidianità: il pericolo di morire è la normalità. Si scrive come fosse parte di un'autoterapia, per fronteggiare la follia e la disperazione, per illudersi di poter fermare il tempo. Si attende, senza sapere precisamente cosa si stia attendendo (p. 39).

“Le bombe sono cadute a poche centinaia di metri da casa, all'angolo delle vie Vardarska e Maksim Gorkij. Una ragazza di vent'anni ha perso la vita. È stata sepolta con l'abito da sposa due giorni dopo. Era la trentaseiesima notte dall'inizio dei bombardamenti. L'anno non era il 1984. E non combattevamo contro l'Oceania o l'Eurasia. Semplicemente, ci avevamo fatto l'abitudine” (p. 22).

Belgrado, Serbia. Frammenti diaristici, rapidi, secchi ed essenziali, suddivisi in due parti: “Amor Mundi” e “Portofino”. Amor mundi (Hanna Arendt): in tempo di guerra, riflettere sul rapporto tra condizione umana e amore del mondo è difficile: il problema primo è trovare da mangiare, sperando non si tratti di niente di radioattivo. Portofino: post terrore, osservare e decifrare prospettive e speranze e stato delle cose in una nazione scombussolata e ferita a morte, ma non sconfitta e non distrutta.

La narrazione prende piede dalla descrizione di una gioventù serba americanizzata e negligente, fuori da una discoteca, nel 1999, mentre la questione del Kosovo non viene risolta; mendaci promesse governative di rispettare la libertà di stampa, e angoscia del popolo tutto. L'America mostra i muscoli. Sono minacce pesanti.

Tranquillanti venduti come fossero noccioline. Sedativi e alcolici per cancellare i pensieri: per disintegrare la coscienza della caducità di tutto, della possibilità di morire in un momento. Senza senso. Primi allarmi aerei, i cittadini si sintonizzano sulla CNN per scoprire cosa sta accadendo. Belgrado come Baghdad. Diciottesimo giorno di bombardamenti. Patriottismo e disperazione. I serbi indossano maglietta con su scritto “target”; vogliono diventare scudi umani. Intanto, la stampa ostile al governo subisce intimidazioni. C'è chi, come l'editore Curuvija, si ritrova assassinato per difendere la sua coerenza e la sua onestà. È pericoloso passare per “traditori” nei giorni in cui la patria sta per morire. Ecco che “non c'è più differenza tra giornali di regime e quelli indipendenti. Le trasmissioni televisive sono tutte uguali. Molti hanno fretta di mostrare la loro lealtà, il loro patriottismo, l'odio verso il nemico” (p. 33). La propaganda sostiene che la Serbia sta difendendo il mondo intero (p. 53). La libertà è come “un granello di polvere nascosto tra le righe” (p. 54).

La corrispondenza viene severamente controllata. Chi riceve lettere dall'estero deve firmare. Non importa che siano raccomandate. C'è qualcuno, tra i cittadini, che per sopravvivere alla povertà si dedica al mercato nero, al contrabbando: sigarette, benzina, oro. Il narratore si domanda se è il caso di vendere la macchina per avere qualche soldo, comprare da mangiare. Evita, perché l'automobile potrebbe servire per fuggire.

Dušan Veličković non credeva che la Yugoslavia potesse cadere. Credeva la sua nazione fosse parte dell'Europa, che non avrebbe potuto dissolversi ma al limite confederarsi. Non è stato così. Credeva che quello di Tito fosse – con sagge virgolette - “totalitarismo morbido”. Clinton, in quei giorni (p. 63) parla ai serbi e dice che Tito era uno “statista saggio”: nel periodo del suo governo a Belgrado si viveva in pace. Ma la verità è un'altra: “Ai tempi di Tito il mio Paese mostrava all'Occidente, la fonte dei suoi crediti, un volto quasi liberale, mentre la lealtà all'Est, la fonte del suo potere reale, veniva dichiarata per mezzo della limitazione di quelle stesse libertà decantate agli occidentali” (sempre p. 63). Leggere Sartre significava essere democratici. Ghignate da tutto l'Occidente.

Nella parte seconda, annunciata da un'eclissi solare e dalla sinistra confezione mediatica studiata dal governo per parlarne, va giù il muro di Belgrado: “Non era fatto di malta e mattoni, non poggiava sul basamento ideologico della guerra fredda. Il nostro muro era stato costruito sulle bugie, sul nepotismo e sulla repressione. Il nostro era il muro della stupidità” (p. 109): è il 5 ottobre 2000, le unità speciali dell'esercito disertano gli ordini, un milione di cittadini s'avvicina all'Assemblea Nazionale. Radio e redazioni dei quotidiani vengono liberate. Si torna a pronunciare la verità. Il dolore si scioglie, lento, ma il dubbio sulla natura di tutto quel che è accaduto e sta accadendo, processo all'Aja incluso, non lascia tregua. Veličković torna progressivamente a pensare al suo vecchio mondo artistico e intellettuale, tra incontri del PEN e festival musicali; l'Europa diventa – torna a essere – un traguardo, per la sua Serbia democratica. Ma non tutto fila per il verso giusto. Il premier democratico Dijndjic viene assassinato (2003) da uomini di Milosevic (toccante la commemorazione, pp. 166-167). Il sogno della libertà e dell'armonia si infrange una volta ancora sulla montagna del male.

Eppure la verità vagisce, e pretende ascolto. I serbi la vogliono cercare, ascoltare, gridare. DV riesce a dare voce a questo sentimento. Curiosamente, poco più avanti, è un'amica giornalista italiana a confondere nuovamente le acque della verità: prima ne pronuncia una gigantesca e incontrovertibile, parlando del governo Berlusconi in Italia (“controlla tutto quanto”, a livello mediatico), poi dimentica da chi è formata la sua maggioranza, offrendo una strana spiegazione (“i neofascisti guadagnano sempre più consensi”): mi preme molto ricordare o segnalare alla giornalista Valeria che Berlusconi era il delfino di Craxi, Partito Socialista Italiano (altro che destra!); che parte dei suoi quadri proviene dalle file del Partito Comunista & derivati, del Partito Socialista e della Democrazia Cristiana; che sua alleata principe è la Lega Nord, unita a parecchi papalini e a ciò che rimane di un partito di destra, Alleanza Nazionale, da tempo schierato in posizione a-fascista e tutt'altro che nostalgica. Il potere di Berlusconi è molto più sinistro di quanto gli ex compagni vorrebbero far credere. La destra è ben altra cosa, e nulla a che fare con Berlusconi. Niente. Niente. Non stanchiamoci di ripeterlo. Questa sua è una farsa socialista-cattolica-filoamericana: una riedizione totalitaria del pentapartito. Punto. Ciò detto. Libro importante, intelligente, commovente. Solidarietà ai democratici serbi è sentimento principe nel lettore: si direbbe, leggendo Dušan Veličković, che sappiano e vogliano essere altro dai titini e dai filoamericani. Che si stiano battendo, con dignità e onestà, per una patria libera, democratica e nuova. Che il destino sia gentile, allora.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Dušan Veličković (Belgrado, 1947), giornalista, scrittore, editore serbo.

Dušan Veličković, “Serbia hardcore”, Zandonai, Rovereto 2008. Collana “I piccoli fuochi”. Traduzione di Sergej Roic. Nota di Nicole Janigro.

Prima edizione: “Srbija hardcore”, 2007.

Gianfranco Franchi, ottobre 2008.
Prima pubblicazione: Lankelot.