Neri Pozza
2015
978885451116-3
Perché “Walks in Rome”, la più diffusa guida inglese dell'epoca, poteva scrivere, già nel 1892, che vent'anni di governo piemontese avevano fatto più per la distruzione di Roma che tutte le invasioni e i sacchi dei Goti e dei Vandali? Cosa è stato perduto dell'antico fascino della città, dopo la sua conquista per mano sabauda? Cosa significava realmente e cosa implicava, in genere, che Roma, nel 1860, avesse soltanto duecentomila abitanti e non coprisse nemmeno un terzo della sua estensione antica? Qual era l'impatto degli antichi templi e delle antiche, grandiose rovine del passato imperiale in un contesto così caratteristico? Cosa significava poter passeggiare in una città così selvatica, e così rustica? Perché si poteva considerare Roma una città di agricoltori? Che impatto aveva, nell'immaginario dei turisti e dei pellegrini, il canto dei galli, il raglio degli asini e il belare delle pecore, durante le nottate nella Città Eterna, centocinquant'anni fa? E che significava camminare per il Colosseo al chiaro di luna, in mezzo a una vegetazione lussureggiante? Cosa ne è stato di Villa Ludovisi, che Henry James e Goethe consideravano una delle massime bellezze della città? E chi è stato responsabile di quello scempio? Che senso ha avuto “modernizzare” una città così antica e così ben conservata? Quanto è stata sconvolta l'identità della città dalla sua assurda separazione dal fiume? Cosa ha significato per Roma perdere i porti di Ripetta e Ripa Grande? Cosa ha rappresentato perdere tante tradizioni ultrasecolari, come il Carnevale? Perché Dickens poteva scrivere che, nell'Ottocento, la campagna romana era il “cimitero della Roma morta”? Qual era la percezione della campagna romana, agli occhi dei cittadini romani, e perché c'era tanta diffidenza e tanta distanza tra i due mondi? Qual era il segreto di Pasquino, e cosa si nascondeva, davvero, nella sua satira? Quanto era democratica e antica romana, infine, la società romana prima della disastrosa conquista per mano sabauda?
Neri Pozza restituisce, a breve distanza da “Roma, non basta una vita”, una nuova edizione di un altro notevole saggio dell'elegante, coinvolgente e dottissimo Silvio Negro, vicentino, romano d'adozione e d'elezione, storica firma dell'“Osservatore Romano” e del “Corriere della Sera”: “Seconda Roma. 1850-1870” rivede la luce a settantadue anni di distanza dalla prima volta (Hoepli, 1943) mantenendo intatta vivacità, caustica polemica antimodernista, sensibilità e limpida conoscenza della complessa materia capitolina; e finisce per alimentare terribili rimpianti per ciò che abbiamo perduto, e un certo rimorso per ciò che non abbiamo combattuto abbastanza. Il libro di Negro è riapparso, come già il precedente, nella collana “Il cammello battriano”, diretta da Stefano Malatesta. L'impatto di “Seconda Roma” è, nella primavera 2016, più provocatorio e radicale ancora: abbiamo testimoniato, nel mezzo secolo trascorso nel frattempo, nuova e più selvaggia cementificazione, uno sviluppo allucinato e irragionevole della città senza rispetto di nessun piano regolatore, un degrado del territorio, del verde e dei giardini forse senza precedenti a livello europeo; abbiamo assistito alla disintegrazione di altre tradizioni e altre abitudini, e allo snaturamento antropologico della città, con la progressiva trasformazione del centro storico e di Trastevere in un'indegna, ruffiana e caotica città per turisti. Abbiamo assistito alla sconsacrazione di una città santa e antichissima: l'insensato suo adeguamento a una modernità che non poteva appartenerle e la spregiudicata, odiosa avidità delle classi dirigenti di tre differenti, indegne e sempre picconatrici amministrazioni (sabauda, fascista, infine repubblicana sotto plastica cappella nordamericana) ha sfigurato una città che un tempo era considerata “patria” da tutti gli artisti e tutti i fedeli. Diventare “nuova” è stato una disgrazia: antropologicamente, esteticamente, culturalmente, e a quanto pare economicamente. Amen.
Gianfranco Franchi
Prima pubblicazione: Mangialibri
Perché “Walks in Rome”, la più diffusa guida inglese dell’epoca, poteva scrivere, già nel 1892, che vent’anni di governo piemontese avevano fatto più per la distruzione di Roma che tutte le invasioni e i sacchi dei Goti e dei Vandali?