Cairo Publishing
2010
9788860523167
Raccontare la morte dimenticando la prospettiva dell'eternità, dimenticando la possibilità della reincarnazione e accantonando qualsiasi meditazione sull'anima, e sulla vita dell'anima, può diventare un incubo di sofferenza, disperazione e malessere. Può diventare un gorgo in cui si sprofonda. Quando la letteratura trasfigura una morte ingiusta, come ingiusta sembra essere a noi che restiamo in vita ogni morte che accade “prima del tempo”, ossia quando accade a uno che è ancora “figlio” o genitore di figli piccoli, o non abbastanza adulto da poter essere chiamato “vecchio”, allora c'è la possibilità che l'arte stia fronteggiando il male per domarlo e disarcionarlo, oppure che si stia limitando a descriverlo in tutto il suo orrore per aiutare a sopportarlo, per aiutare a sopportare l'idea ch'esso esista, e quindi per accettarlo. È stato il caso, qualche anno fa, dell'atroce “Tutti i bambini tranne uno” di Forest, storia vera della morte della figlioletta del letterato francese, un sinistro omaggio, respingente e magnetico al contempo. Raccontare la fine di quella bambina per eternarla, rovesciando addosso a ognuno di noi gli schizzi del torrente oscuro di dolore che aveva vissuto con sua moglie, è stata la scelta di Forest. Stessa disperazione e stessa ossessione si ritrovano, nel 2010, nel romanzo di Maria Pia Ammirati “Se tu fossi qui” (Cairo, 158 pp. Euro 12), funebre precipizio nei pensieri tumultuosi e aggrovigliati d'un marito e d'un padre vedovo a nemmeno quarant'anni. L'autrice, scrittrice classe 1963, alle spalle un esordio molto apprezzato dalla critica nel 2001 (“I cani portano via le donne sole”), scrive tirandoci per i capelli nell'abisso. Non c'è traccia di luce e di speranza, in questo suo libro. È buio, e freddo. Una storia come questa è la mia idea personale di orrore: è una guida all'orrore. L'orrore va combattuto, vinto e distrutto. Ma per combatterlo, vincerlo e distruggerlo serve conoscerlo. “Se tu fossi qui” è un libro per chi vuole conoscere l'orrore. O almeno ricordarselo. Non muta pelle, non muta colore, non muta odore.
Trama. Luisa muore improvvisamente, soltanto trentaseienne, e lascia solo Matteo, suo marito, a crescere le loro due bambine. E lui subito sprofonda nella sofferenza di dover essere e restare presente nonostante quel dolore terribile, sordo, inconsolato. Ci sono un sacco di piccole e meno piccole cose pratiche da fare, ora dopo ora. Parole da dire e non sai come e telefonate da fare con un sacco di silenzi in mezzo. E c'è sempre qualcuno che non si riesce a contattare, qualcosa che non riesci proprio a fare, e c'è chi scopre che lei è morta tutto a un tratto, a freddo, più a freddo degli altri. Matteo riesce a guadagnare una prima pausa. È fredda, surreale. “Quando furono usciti tutti mi chiusi nello studio. La casa era già infestata di fantasmi, di cose irrecuperabili, di anime volanti. Da oggi avrei potuto pensare a Luisa solo come a un'anima, una presenza casalinga. Ci avrei parlato e a volte mi sarei vergognato, come se potesse spiarmi” [p. 20].
Le ragioni della morte nessuno le riesce a capire. Lei soffriva da tempo di mal di testa. Quella doveva essere “un'estate come le altre, fatta di preparativi e di valigie, di domeniche troppo calde e di mare” [p. 35]. E come tutte le estati stava a lei, stava a Luisa dettare i tempi di tutto. Matteo non soltanto si sente disperatamente solo, ma non ha nemmeno una vaga idea di dove cominciare per tornare a vivere. La prima coscienza della morte coincide con la prima coscienza del disastro. “La mia vita era distrutta, minata alla base, nelle sue consuetudini più banali e nelle sue aspettative più grandi. Non mi aspettavo di vivere un dolore così profondo. E forse non lo meritavo” [p. 39].
La prima notte senza di lei passa. Matteo s'addormenta con le bambine nel letto di nonni, piangendo, “loro per la solitudine e la mancanza e io per il loro pianto innocente, per la loro vita che da domani avrebbe preso un'altra direzione, per me stesso in balia del destino” [p. 57]. E piange perché si fa tristezza da solo, e per la rabbia d'aver perduto lei senza accorgersene nemmeno. E la mattina il risveglio è guasto, è un incubo ed è guasto. Sono dieci anni che ogni mattina si risveglia vicino a lei. Adesso deve riabituarsi a non vederla più, a non sentirla più, a non chiamarla più. E mano a mano ricomincia ad ascoltare la litania della solidarietà, che forse in quei momenti può essere profondamente vera e sentita, peccato che non ha durata. “Mi dispiace. Se hai bisogno... le bambine...”
E poi. E poi, con la sensazione d'avere alle spalle una “vita precedente”, Matteo trova un oggetto, in casa, che ha una sua straordinaria e inattesa vivacità. È il telefono di sua moglie. Dieci telefonate senza risposta. Tutte vecchie a parte una, proveniente da un nome che Matteo non riconosce: A.R. La stessa persona spediva messaggi, anche. Preoccupandosi che non ci fosse risposta. Matteo si mette a studiare la cronologia e il testo dei loro messaggi. Sembrano due amanti. Si sentivano tutti i giorni. E allora Matteo risponde. E poco a poco si ritrova a dover scoprire e accettare che il passato è stato diverso. Fermiamoci qui. E ricordiamoci di amare la vita, e di viverla con intensità. Assoluta. Sempre. Qualsiasi cosa accada. Sempre. E di non rinnegarla di fronte alla morte. Troppo facile. Soprattutto quando la morte fa così paura, perché è così acerba.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Maria Pia Ammirati (1963), dirigente RAI, scrittrice e giornalista italiana. In narrativa ha esordito nel 2001 col romanzo “I cani portano via le donne sole” (Empiria). In precedenza, aveva pubblicato un saggio sulla narrativa IT degli anni Ottanta, “Il vizio di scrivere” (1992).
Maria Pia Ammirati, “Se tu fossi qui”, Cairo, Milano 2010.
Gianfranco Franchi, novembre 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.