Voland
1998
9788888700342
La razza umana conosce fortune episodiche. Una di queste episodiche fortune è la nascita di un semidio. Un semidio – o una semidea – è una creatura che conosce l’essenza della bellezza. E quando scrive, o osserva, o canta, o dipinge, o scrive musica, o parla, si rivolge, con sconsolata disillusione, a un pubblico che non ha volto e non ha colore, cercando disperatamente di riconoscere i suoi simili. Amélie Nothomb è una semidea. È una scrittrice di un’intelligenza e di una profondità straordinarie, capace di risvegliare nel lettore tutto il disprezzo per la mediocrità d’una specie incapace di rimanere inchiodata di fronte alla bellezza, e troppo limitata per poter riconoscere e salutare l’intelligenza e la grazia in un essere vivente. Io dico che chi si priva della lettura dei libri della Nothomb non capisce sinceramente un cazzo di letteratura. E non mi stupisce che sia qualcuno che va nutrendosi dei casi letterari dell’anno, per pavoneggiarsi nei salotti borghesi, oppure che si tratti d’uno di quei pestilenziali imbrattacarte che si dedica esclusivamente non alla letteratura, ma all’editoria contemporanea per sfogare le sue frustrazioni di autore inespresso o non del tutto riconosciuto; e dunque conosce a menadito le pubblicazioni dell’editore epsilon e dell’editore omega, trascurando di godere d’una esperienza estetica totalizzante come la lettura dei libri del genio nato a Kobe, da sangue belga. So soltanto che ogni romanzo di Amélie Nothomb è un’iniezione di fiducia nell’arte letteraria, e un passo avanti nella coscienza di non poter che disprezzare chi non legge, o peggio ancora legge i libri sbagliati. Ringrazio la scrittrice per ogni singolo libro pubblicato: per tutto il godimento estetico e spirituale che ne ho potuto trarre, e per tutto il disprezzo che ho avvertito per la maggioranza assoluta dei miei contemporanei. Orgoglioso d’annoverarmi nella ridotta schiera di chi vive ed esiste per la bellezza, e soltanto per termini come “infinito”, “eternità” e “arte” respira, so d’aver trovato una corrispondenza che nessun’altro artista contemporaneo ha potuto garantirmi. Questo romanzo, ad esempio: a dispetto d’un titolo piuttosto fastidioso, è sinceramente geniale e nothombiano (dunque: wildiano e postmoderno) e orgogliosamente massimalista.
Protagonista e io narrante, al solito, è la deliziosa e adorabile scrittrice belga: stavolta descrive tre anni della sua infanzia, vissuti nel degrado comunista della Cina degli anni Settanta, dopo l’estatica esperienza infantile nipponica (cfr: il successivo “Metafisica dei tubi”). Amélie passa da una nazione (non sempre) intelligentemente occidentalizzata e, almeno a livello d’una minoranza, orgogliosamente uncinata ai valori del suo glorioso passato, ad un regime vigliacco e assassino, che ha massacrato il suo popolo uniformandolo in una gabbia di cemento armato, nella miseria più deprecabile e assoluta. È una bimba che ha già saputo riconoscere il piacere d’essere viziata e amata e idolatrata: e ha imparato che l’esistenza ha senso soltanto se viene vissuta in questi termini; almeno, ciò vale per quella minoranza d’esseri umani che non appartiene al nauseante branco dei materialisti, e dei mediocri. Descrive una Cina che, quando non conosce splendori come la Grande Muraglia, è assolutamente orribile. Eccelle in immondizia, disperazione, ghetto, sorveglianza (pp. 10-11): è una nazione in cui dominano il non vero, né falso, per via d’una propaganda governativa immonda e aberrante; è tuttavia un Paese che ha conosciuto grandezza e gloria, e indubbiamente rende pretenziosi (p. 10).
Amélie è una bambina di sette anni che, nelle prime pagine, carezza il dorso del suo “cavallo” (al neofita scoprire il senso di queste virgolette) e carezza il cielo di Pechino: è un tesoro, lei, la bellezza del mondo; e tutto il suo spirito è rivolto a pavoneggiarsi alla luce dei viandanti, per accecarli e vederli prostrarsi ai suoi piedi. Vuole qualcosa che non delimiti lo sguardo, e lo trascini anzi verso l’infinito (p. 8): a lei appartiene quel che soltanto i semidei possono intuire e condividere, la fame d’eternità. Accompagneremo la piccola che trovava giusto che una schiava le pettinasse i capelli ogni mattina, e trovava disdicevole che costei non mutasse il nome che lei aveva avuto la bontà di darle, nei suoi tre anni di Pechino; sin dal suo arrivo nel grigio e degradato aeroporto dello Stato comunista, attraverso la narrazione della guerra nel ghetto che lei e gli altri figli dei diplomatici d’ogni nazione del mondo avevano condotto per anni, senza esclusione di colpi. Nemici unici, prima i tedeschi dell’Est (tentando una generica prosecuzione del secondo conflitto mondiale), quindi i nepalesi, colpevoli d’aver una bandiera non rettangolare. Amélie è un’esploratrice che si diletta a torturare i nemici catturati con la licenziosità e l’esasperazione che solo un bambino eccezionalmente intelligente può conoscere; è enfatica ed estrema sin da allora, e non conosce limite. Non deve conoscerlo, del resto. Deve accecare.
La gioia della bambina guerriera conosce un intervallo terribile. Si innamora, infatti, d’una piccola, adorabile italiana, di madre indiana del Suriname; Elena ha sei anni, occhi scuri, immensi e tristi; veste quasi sempre in bianco, e le importa solo essere guardata (p. 39). È una creatura nata per essere adorata: e soltanto chi ha il talento di adorare la bellezza potrà soddisfare le sue legittime pretese. È spietata, come tutte le bellezze che non conoscono limite al loro orgoglio; quando Amélie le dice che la deve amare, lei ride. Amélie chiede perché. Lei risponde: perché sei stupida.
La bambina-narratrice idolatra la bellezza immane e sconfortante della piccola italiana, deliziandosi al pensiero di lei nuda, al freddo, sentendo piacere al solo pensiero di poterla riscaldare. Amélie giudica i maschi dei menomati, e non tollera che un marmocchio incolore, Fabrice, si possa avvicinare alla sua musa. Elena la umilia. Ma Amélie è soggiogata e sedotta, irrimediabilmente, dalla sua straordinaria bellezza. È pronta a qualsiasi cosa pur di poter essere amata da lei. Perfino a mentire sui suoi sentimenti, ad avere un collasso pur di poter assecondare le sue stupide richieste, a rinunciare alla gioia della guerra con gli altri bambini. E il senso del romanzo è in questo passo, che sintetizza l’umiliazione massima che chi adora – non chi ama: sfortunato chi ama senza conoscere la disperata grazia dell’estremismo e della cieca dedizione, sfortunato e limitato – può provare: “Sabotare era un verbo che in me evocava delle risonanze. Non avevo alcuna nozione di etimologia ma in ‘sabotare’ ci sentivo degli zoccoli tipo sabot, e quegli zoccoli erano i piedi del mio cavallo, erano cioè i miei veri piedi. Elena voleva che io mi sabotassi per lei: significava volere che io calpestassi il mio essere sotto quel galoppo. E io correvo pensando che il selciato era il mio corpo e che io lo calpestavo per obbedire alla bella e che l’avrei calpestato fino alla sua agonia. Sorridevo a quella prospettiva magnifica e acceleravo il mio sabotaggio passando alla velocità superiore” (p. 92). Desidero manifestare rispetto al fortunato neofita ancora all’oscuro di questo romanzo, quindi non accennerò nulla a proposito del contesto di questo frammento. So soltanto che, a distanza di un paio di letture, continuo ad emozionarmi al pensiero di un’innamorata che, per esaudire un comando d’una bella, vuole calpestare il selciato fino all’agonia. Niente vale quanto una simile rappresentazione del senso ultimo e profondo dell’appartenenza a un altro essere umano.
L’aficionado dell’opera dell’immortale scrittrice belga riconoscerà, in questo romanzo, i talenti di sempre: la tendenza all’aforisma di gusto wildiano, l’abnorme sensibilità nella resa dei ritmi e dei colori dei dialoghi, l’impeccabile tributo alla bellezza e al dominio del piacere, e ai sentimenti loro cortigiani; se s’aggiunge una miracolosa capacità di comunicare l’estremismo d’un bambino intelligente e deliziosamente viziato, uno stile seducente e sempre riconoscibile, un epilogo d’una crudeltà magnifica e irraggiungibile, allora s’ha la conferma che questo è un romanzo che solo la vena divina di Amélie Nothomb ha potuto originare. Precipitarsi in libreria, ordinare l’opera omnia e drogarsene è un imperativo estetico, e un dovere morale. Per chi davvero ama la lettura, sarà un piacere senza precedenti: essere lettori dell’opera di un genio è qualcosa per cui vale la pena essere vissuti.
Con devozione, un autentico lettore.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Amélie Nothomb (Kobe, Giappone, 1967), scrittrice belga di lingua francese. “Igiene dell’assassino” è stato il suo primo romanzo.
Amélie Nothomb, “Sabotaggio d’amore”, Voland, Roma 1998. Traduzione di Alessandro Grilli.
Prima edizione: “Le sabotage amoreux”, 1993.
Gianfranco Franchi, gennaio 2005.
Prima pubblicazione: Lankelot.