Alet
2004
9788875200008
Questo è l’unico libro di Geoffrey Pyke, classe 1894, allora giovanissimo corrispondente di guerra per il “London Daily Chronicle”, arrestato in Germania, durante la prima guerra mondiale, isolato in diverse carceri e infine internato nel campo di Ruhleben assieme ad altri civili inglesi.
È un memoir, trasfigurazione d’un’esperienza esistenziale atipica e drammatica, conclusa con un’evasione grottesca e tragicomica e pervasa da un sarcasmo e da un’ironia non sempre – presumiamo – volontari. Simone Barillari, a questo proposito, scrive nell’introduzione: “Quanto invece alla buffoneria o al coraggio di dire la verità, Geoffrey Pyke adottava spesso la provocazione, e se infine si addentrò nel ridicolo fu soltanto, si potrebbe supporre, dopo essere ormai giunto alla convinzione che gli ostacoli ultimi al progresso non fossero poi di ordine tecnico, ma mentale e intellettuale” (p. X) : è un’interpretazione, non un dogma, ovviamente; tuttavia valga come rivelazione al lettore ancora – immaginiamo – estraneo allo spirito dell’opera per cementare nella sua mente l’idea d’un libro d’evasione, in ogni senso.
È – in un certo senso – narrativa di viaggio: non romanzo di formazione, come afferma Affinati nel risvolto, accostando il libro di Pyke al “Barry Lyndon” di Thackeray o al “David Copperfield” di Dickens; non s’intravede neppure altra coscienza che non sia quella dell’amarezza e della disperazione nel periodo della carcerazione, non esistono segni d’una trasformazione spirituale o intellettuale, né si possono rilevare incontri determinanti nella formazione della coscienza del giovane Pyke. È il libro d’un giovane, sprovveduto e stravagante cronista inglese, che si trova a congegnare una fuga da una prigione e la vive al fianco d’uno “stratega”, che lascia – in più d’una circostanza – l’impressione d’esser stato l’autentica mente e l’unico protagonista dell’evasione.
La prima perplessità – certamente aliena alla sensibilità dei nostri contemporanei – è legata all’opportunità di pubblicazione di questo libro, nel 1916. In sostanza, mister Pyke pubblicava le memorie della sua esperienza come cronista al fronte, e come prigioniero; millantando – o, se preferite, esponendo – le straordinarie vicende della sua evasione da un carcere che ospitava, al momento della stampa, migliaia di civili inglesi.
Era un libro essenziale per la propaganda, e per soddisfare l’ego dell’autore: ma, al di là delle sue cautele, espresse con poca convinzione nella Prefazione, e della sua proclamata “discrezione”, probabilmente e potenzialmente lesivo dello status dei suoi connazionali ancora imprigionati. Non intendiamo avventurarci in un giudizio etico a proposito dell’opportunità di pubblicazione dell’opera nel 1916, nel fulcro del conflitto: tuttavia, ci limitiamo a registrare questa incongruenza, che da un lato motiva l’immediata fortuna del testo (patriottismo, boria, affermazione della superiorità d’un popolo a danno d’un “nemico”), e dall’altro spiega alla perfezione le ragioni del suo rapido declino, e del suo successivo oblio. Editorialmente, aveva senso hic et nunc – almeno, nella madrepatria.
Oggi, “Ruhleben” può assumere altro valore – esteticamente ed eticamente – per il lettore occidentale, cittadino d’un’Europa unita e naturalmente ostile all’idea d’un conflitto tra nazioni sorelle. Come monumento dell’assurdo, per intenderci.
***
Nella prima guerra mondiale, il vecchio ippodromo di Ruhleben era stato trasformato in un campo di prigionia che ospitò quattromila civili inglesi. Oggi è una stazione della metro di Berlino, a pochi passi – leggiamo nell’elegantissima edizione esaminata – dallo stadio Olimpico fatto costruire da Hitler.
La vicenda viene narrata, naturalmente in un’egolatrica prima persona, a partire dal Settembre del 1914, due mesi dopo l’inizio della guerra tra Germania e Inghilterra. Il giovane e ambizioso mr. Pyke progettava un viaggio in quella nazione che, in patria, veniva proposta come esempio di decadenza, corruzione e miseria; per garantire, bontà sua, altra e più trasparente informazione. Aveva ideato una rotta: da Berlino al Reno, per demistificare la propaganda albionica (il lettore contemporaneo, perplesso, si domanda: possibile?). Casualmente imprigionato, ma non fucilato, si trova a vivere tredici settimane di isolamento – la narrazione di questo periodo della sua esperienza è straordinariamente efficace, intelligente e puntuale.
Succedono quindi i mesi della “maleodorante” e aberrante carcerazione in Ruhleben, l’evocato – ma non descritto – momento dell’evasione e la paradossale vicenda dello sconfinamento in Olanda.
Pyke narra con uno stile essenzialmente visivo ed egoico, tendendo a minimizzare l’interazione con l’esterno, o a ridicolizzarla a dovere quando si tratta di interazione con un tedesco; con un garbo comprensibile e apprezzabile, tuttavia non immune da un irritante senso di superiorità.
La vicenda descritta è francamente appassionante, al di là dell’inevitabile faziosità; grottesca e – in qualche frangente – sorprendentemente minimalista, sa tingere il dramma e il dolore di normalità – quasi a suggerire che sia possibile emergere, con una mente viva e intuizioni limpide, da qualsiasi palude e qualunque prevaricazione o costrizione. A dispetto d’una condizione fisica – a dar retta all’autore – pesantemente condizionata da disfunzioni cardiache acquisite nelle precedenti carcerazioni, e derivata da stenti e privazioni soltanto immaginabili.
È un libro non straordinario, e non impeccabile: è una autobiografia che ostenta limiti e pregi del suo genere. Quel che emoziona il lettore italiano è l’edizione: la neonata Alet di Padova propone un libro graficamente delizioso e affascinante, suggestivo e accattivante. Pyke – a voler prestare fede alla singolare introduzione di Barillari – è stato una figura assolutamente romanzesca – caotica ed eclettica come risulta esser stata la sua esistenza, e i suoi interessi. Probabilmente il capolavoro nascerà quando qualcuno scriverà un romanzo sulla sua vita: questo “Ruhleben” è poco più di un divertissement, e farà notizia più per l’estetica della Alet che per le sue – decisamente modeste – qualità artistiche.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Geoffrey Nathaniel Pyke (1894 - 1948), giornalista e scrittore inglese.
Fondò, nel 1924, la Malting House School di Cambridge, rivoluzionaria scuola per bambini fondata su “an organized collection of emotional and intellectual drives”. Per approfondire questa e numerose altre notizie biografiche relative alla straordinaria esistenza di questo atipico intellettuale inglese si rinvia all’ottima introduzione dell’opera.
Geoffrey Pyke, “Ruhleben”, Alet, Padova, 2004. Tradotto da Ada Arduini. Con un’introduzione di Simone Barillari. Risvolto di Eraldo Affinati.
Edizione originale: “To Ruhleben – and back”, Constable and Company, London 1916.
“(…) e forse l’ebreo Pyke vide poi con più orrore e meno sorpresa degli altri l’osceno proliferare dei campi di sterminio, di cui poteva in qualche modo considerare Ruhleben come una sorta di seme remoto e inammissibile incubazione, e in parte e lontanamente quasi un embrione dell’universo concentrazionario, un inconsapevole laboratorio del Reich prima del Reich”. (tratto dall’introduzione di Simone Barillari, p. XIII).
Gianfranco Franchi, luglio 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Questo è l’unico libro di Geoffrey Pyke, classe 1894, allora giovanissimo corrispondente di guerra per il “London Daily Chronicle”, arrestato in Germania, durante la prima guerra mondiale, isolato in diverse carceri e infine internato nel campo di Ruhleben assieme ad altri civili inglesi…