Romanzo criminale

Romanzo criminale Book Cover Romanzo criminale
Giancarlo De Cataldo
Einaudi
2002
9788806160968

Tutta un’altra Roma. La Roma dei banditi che volevano prendere la città: pensando alla droga, al gioco e alla prostituzione, al ventre molle dell’Eterna, e dimenticando tutto il resto. Trattando la politica come un rovescio della medaglia del loro mondo; legalizzato, ma egualmente condizionato da menzogne, tradimenti e avidità. Trattando tutto il resto con delirante naturalezza; cocaina che circola come le nostre sigarette, puttane come caffè, mesi o anni in galera come mesi o anni vissuti da impiegati in attività d’ufficio grigie e inevitabili, prima di poter ripartire con il progetto. E il progetto è Roma, subito, adesso: uccidendo, se necessario, ricattando e rubando, spacciando e comandando. Lo spirito di gruppo non è dissimile da quello che abbiamo letto nella letteratura dedicata agli eroi di guerra: c’è la fratellanza che niente attenua, il cameratismo che impone lealtà e fedeltà e sacrificio, il voltafaccia e il tradimento di chi partecipa alla battaglia senza condividere la causa. Ci sono i grandi amori e le parole non dette; quelle che potevano cambiare la vita. Ci sono tanti soldi. Tanti e facili; e tante ironie su chi quei soldi non li vedrà mai in tutta la sua vita, sfiancandosi per vedere certi zeri sull’assegno intascato a fine mese. È tutta un’altra Roma, quella che descrive e trasfigura De Cataldo; tanto lontana dalla nostra sensibilità che fatichiamo a credere che possa esistere, e che sia esistita; e che, proprio in quella Roma, dei giovani banditi siano riusciti, negli anni Settanta e Ottanta, a prendere effettivamente controllo di tante imprese, e di tante vite, finendo a fiancheggiare quando la Mafia, quando lo Stato, quando le formazioni estremistiche di destra o di sinistra.

A un tratto ti accorgi che i personaggi sono così vivi che è difficile non simpatizzare per le loro sorti. Miracolo della carta: De Cataldo sta parlando di nemici, e ha il cuore così grande che riesce, per empatia e per umanità, a mostrarceli come probabilmente erano. Figli del popolo estranei alle nostre regole borghesi, ma non estranei a un’etica, mai estranei al sentimento. Figli della borghesia estranei agli uffici, ma non al sacrificio – sino al rischio della propria vita. Figli del popolo che stanno giocando, semplicemente, un altro gioco: le regole sono quelle che non accetteremmo mai. Loro direbbero lo stesso delle nostre. Credo di sì.

Ne deriva un grande romanzo corale capace di evidenziare almeno cinque figure cardine. Quella del Libanese, primo leader di questa banda, uomo d’ordine (che paradosso) e formidabile organizzatore, carismatico accentratore e amministratore della giustizia (già: quella di strada), amico d’infanzia di Dandi. Quella del Freddo, nato da buona famiglia ma estraneo alla borghesia, assassino e uomo di parola, innamorato d’una donna che poteva significare un futuro diverso; se solo fosse riuscito a levarsi dalla partita prima del tempo, se solo non fosse cresciuto sulla strada, e non si fosse nutrito della sua polvere. Quella di Dandi, figlio di romani poveri di Roma Centro, che per tutta la vita sente il richiamo del ritorno alle sue origini, ma da padrone; e scimmiottando gli intellettuali e i borghesi si ritroverà a tradire le regole del branco, ma a conquistare considerazione, denari e imprese nell’Eterna. Il contrappasso è inevitabile. E ancora: quella della sua donna impossibile, una puttana bellissima, lunatica e insolente, Patrizia, leale solo al denaro e forse al sogno d’un altro amore – quello col commissario Scialoja, che indagherà sulla banda e sui suoi legami con ogni altra organizzazione, finendo per ammettere che la sua esistenza dipende dalla strana tolleranza d’una misteriosa parte dello Stato. E spiegandone le cause. Quella del Nero, anarchico e individualista ma protagonista di un’amicizia indissolubile, quella con il Freddo, e di lealtà sino alla fine con capi che non smette di tenere in considerazione, a dispetto di tutto; il Nero è l’anima politica – confusa e vaga, e mai condivisa – di questa banda. È un samurai, un cavaliere errante; è atroce, ma devo scrivere che uccide con grazia, come fosse in missione, e si muove con stile. È pieno di rabbia, e non trova mai riposo, né consolazione. È un’ombra.

Ab origine c’è più d’una novella boccaccesca, e a latere una letteratura maudit nata dal genio di banditi (Villon); nell’essenza c’è la secolare tradizione del romanzo picaresco, ci sono le autobiografie romanzate dei criminali americani del Novecento (penso a Jack Black e Edward Bunker); c’è l’equivoca mitizzazione del bandito galantuomo (Garrett scrive del suo nemico Billy The Kid: mentendo) e del brigante rivoluzionario e autonomista, come il Salvatore Giuliano già cantato da Mario Puzo ne “Il Siciliano”; infine, c’è tutta la grande epica mafiosa del cinema del secondo Novecento, da “Il Padrino” a “C’era una volta in America”, a giocare un ruolo determinante nella preparazione alla lettura d’un libro come questo.

“Romanzo criminale” è un’opera che poggia su illustri antecedenti e va proponendosi come nuovo paradigma narrativo, imponente e massimalista, della visione del mondo dei capi e dei comprimari delle organizzazioni criminali. Impressiona, assieme, la capacità di tratteggiare uno spaccato di quindici anni di storia d’Italia (1977-1992) proponendo una lettura del terrorismo, delle collusioni tra servizi segreti deviati, movimenti extraparlamentari e organizzazioni criminali, delle interazioni e delle infiltrazioni, delle corruzioni e delle impunità precarie, che convince e seduce. Pure quando minimizza, o sembra minimizzare, i legami tra terrorismo rosso e centri di potere di ogni genere, preferendo insistere sull’alleanza contro i rossi composta praticamente da tutte le altre parti in causa, legali o meno; è una semplificazione paradossale, probabilmente politica. Ma questa è narrativa, non è realtà. Questo non è un documento storico, è un romanzo. Punto. Inutile questionare, la verità del libro non vuole essere verità assoluta. Non la condivido, ma non me ne frega niente.

Stilisticamente non ortodosso e non lineare, più prossimo a un’evoluta e complessa sceneggiatura cinematografica che alla letterarietà pura, il gran libro di De Cataldo si gioca su una lingua innervata da interessanti innesti dialettali (un romanesco a volte artificioso ma indubbiamente efficace) e su dialoghi capaci di tenere fede a tempi e ritmi del parlato in diversi contesti e con attanti culturalmente davvero eterogenei, senza mai perdere incisività. Assieme, diverte la capacità dello scrittore di campionare e integrare, in poche battute, protagonisti del territorio romano; nell’opera, si segnala qualche cammeo degno di nota: Franco Califano, Eros Ramazzotti e Antonello Venditti a rappresentare la romanità nella musica leggera, in quegli anni in particolare; la Roma (Cudicini, Dal Sol, Falcao; i giorni del secondo scudetto, 1983) a testimoniare la centralità della fede nell’unica squadra della Capitale. E così via.

Negli anni, ho visto più volte il film che ne è derivato, per la regia di Michele Placido. Adesso posso apprezzarne le variazioni e le forzature rispetto all’originale, rispetto a queste 630 pagine piene di azione e di sentimento, di rovesci rocamboleschi e di esiti grotteschi: il sangue rimane intatto, e così lo spirito di questi banditi. Davvero non troppo dissimile da quello di qualsiasi gruppo di amici che s’è battuto per una causa; questo mi spaventa. Nel senso che, a questo punto, è la causa – e la scelta del sentiero per difenderla, e per rivendicarla – a fare la differenza; l’amicizia che lega i guerrieri conosce una sola sostanza, quali che siano i guerrieri, quale che sia la loro meta. La mia Roma, la nostra Roma è un’altra. Eppure parliamo della stessa città, degli stessi quartieri, delle stesse strade, degli stessi locali. Molti appartenevano al Dandi, e alla sua gente. Romana come noi.

Romani che hanno sbagliato? Sì. Ma sbagliavano anche quelli che se ne servivano, che li manipolavano, che li armavano contro altri nemici; De Cataldo mostra quanto labile sia il confine tra male e bene, tra rispettabilità e impresentabilità, e certi pensieri rimangono a stordirti per tanto tempo. Quanto è sporco il denaro che circola? Quanto ne siamo consapevoli? Da quante bande di criminali ci stiamo difendendo, oggi? Hanno, almeno, la stessa etica che aveva il Libanese? Oppure l’etica coincide con la giacca e la cravatta che stringono al collo ogni mattina, maneggiando le carte del potere? Hanno già preso Roma? Con quali metodi?

A quale costo? E alleandosi con chi? Leggete piano questo romanzo. Lasciatevi popolare dai suoi personaggi. Interrogateli, e liberateli prima che sia notte. Altrimenti v’infestano, e non è detto che sia la compagnia che v’aspettavate. O forse no.

***

BREVE RASSEGNA STAMPA WEB: DE CATALDO PARLA DELLA GENESI E DELLE FONTI DEL SUO ROMANZO

Questi primi due frammenti sono tratti da un’intervista rilasciata a “Vigata”.

Da dove proviene l’idea di scrivere “Romanzo criminale”?

Da una domanda: possibile che gli americani siano riusciti a re-interpretare in chiave metaforica la loro storia recente, caricando di senso mitico l’assassinio di un Presidente, una guerra disastrosa, il razzismo e quant’altro abbia percorso le vene inquiete di quella grande nazione negli ultimi quarant’anni, e noi, che abbiamo vissuto la stagione delle Stragi, del terrorismo, dell’offensiva mafiosa non siamo stati capaci d’inventare un’epopea della nostra recente “storia criminale”? Ecco: “Romanzo criminale” è la mia personalissima, discutibilissima risposta a questa domanda.

Lei ha conosciuto personalmente molti degli esponenti della banda della Magliana. E’ a loro che si è ispirato nella creazione dei personaggi? E se sì, a quali?

Più che agli esponenti della Magliana, mi sono ispirato a figure di carcerati, carcerieri, coatti e traffichini incontrate in vent’anni di mestiere giudiziario. Anche se è innegabile l’interesse destato in me da certi killer glaciali, eppure ricchi di un mondo interiore solcato da venature persino etiche, o dai vecchi malavitosi che si arrabattano per sopravvivere, o dai terroristi, rossi e neri, che dopo la dissociazione vivevano insieme, come i vecchi ginnasiali della canzone di Venditti che s’incontrano al bar dove “Nietzsche e Marx si davano la mano”… ma nomi non ne faccio, ci mancherebbe!

Con ancora più chiarezza, leggiamo, nell’intervista rilasciata a Nino D’Attis per Blackmailmag:

D: Le gesta della vera banda della Magliana sono state documentate su un numero imprecisato di atti ufficiali ed hanno riempito le pagine di cronaca nera in un arco di tempo che va dal 1976 alla prima metà degli anni Novanta. È stato difficile gestire questa considerevole mole di informazioni e innestarla nel tessuto puramente narrativo del libro?

R: L’errore di fondo sta nel considerare Romanzo Criminale come una storia della Banda della Magliana. Prima ancora che dai rapporti giudiziari e dalle sentenze, la vera storia di questa holding criminale è stata ottimamente scritta da Bianconi, Flamini e altri. Il compito del narratore è di tradire la storia (che sarebbe bella cosa, diceva Tolstoi, se solo fosse vera) piegandola alle esigenze del Mito. Estrarre dai nudi fatti una linea metaforica e mitologica e puntare al cuore di una falsa storia: per ciò stesso più vera, e comunque più convincente, di quella 'ufficiale'.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giancarlo De Cataldo (Taranto, 1956), giudice, sceneggiatore, traduttore e scrittore italiano. Vive a Roma dal 1973.

Giancarlo De Cataldo, “Romanzo criminale”, Einaudi, Torino 2002.

Adattamento cinematografico: “Romanzo criminale“, di M. Placido, 2005.

Gianfranco Franchi, dicembre 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.