Mondadori
2005
9788804549772
Con buona pace di quanti credono e scrivono che Piovene fosse rimasto estraneo alle critiche rivolte all'Italia fascista, “Romanzo americano” è un librotto di narrativa retorica, antifascista, piccolo borghese e filo-statunitense. È, in sintesi, la storia di un giovanotto, Michele, che parte per gli States negli anni Trenta, lasciando in patria una fidanzata inconsolabile per la sua partenza e per la morte di suo fratello, un grande amico di lui; morte avvenuta, va da sé, per ragioni politiche (casus belli, la questione abissina). Michele si ritrova a vivere ospite di uno zio ormai americano (e americanizzato) a Boston, custodendo sempre viva la sua italianità: infine, vent'anni dopo, può tornare in Italia, al fianco della fidanzata di sempre, perché l'incubo del regime è terminato e tutto può ricominciare. Come ogni libro di Piovene, “Romanzo americano” si lascia leggere con grande facilità e immediatezza, a dispetto del peso degli argomenti trattati; in questo caso potrebbe essere un limite, perché certa leggerezza suona proprio come una semplificazione, non poco snob. È una dichiarazione d'amore allo spirito amorevole d'accoglienza e di tolleranza yankee, e di appartenenza – nonostante tutto e tutti – all'Italia: in particolare, alla Lombardia, protagonista, nelle battute finali, di sviolinate di manzoniana memoria. È – potrei sbagliarmi – un romanzo rimasto allo stadio di bozza, che necessitava ancora revisioni e rimaneggiamenti per guadagnare compattezza, uniformità e senso. Così com'è, è e rimane un libro politico. Servirà a placare quei neo-marxisti che preferiscono trascurare la lettura di Piovene per ragioni ben lontane da quelle estetiche. Speriamo.
“Romanzo americano” apparve postumo, nel 1979. Nella nota introduttiva, Mimy R. Piovene scrive che la prima, breve stesura dell'opera venne iniziata a Parigi, nel 1950: i due stavano per partire per gli States, per un viaggio-inchiesta durato quindici mesi (ne sarebbe derivato il “De America”: ne parleremo più avanti, in un altro articolo). Vent'anni d'abbandono dopo, Piovene riprese a scrivere il libro nel 1973; terminò il lavoro nel marzo 1974. Difficile decifrare con quanti e quali cambiamenti; Mimy Piovene sostiene che qualcosa della prima stesura sia rimasta in quella definitiva, preferendo restare assolutamente evasiva.
Il romanzo racconta la storia di Michele, come accennavo in apertura, profugo dall'Italia fascista, fuggito a Boston negli anni Trenta, ospite di uno zio medico, John, orgoglioso di aver ricevuto lavoro, benessere e protezione nella terra di Uncle Sam: tanto che da Giovanni Campi adesso è diventato John Fields. Michele è un ragazzo serio, semplice, simpatico, ma “sciupato e magro”, nelle prime battute; lo zio vuole provvedere a tutto, perché possa ricostruirsi una vita presto e bene. Intanto, durante il viaggio, cerca di prepararlo alla società di Boston: gli italiani stanno sempre con gli irlandesi. “Te li regalo tutti. Intransigenti, gretti, incolti, violenti e pronti a sindacare gli altri (…). Io non li bazzico; tu farai come vuoi” (p. 12). In realtà, il guasto era che si trattava tendenzialmente di italiani meridionali: lui, lombardo, non aveva nessuna intenzione di frequentarli. Sentimento molto moderno, a quanto pare.
John vive con sua moglie, Bessie, materna e solare; è una borghesona yankee, appassionata di pittura astratta. Hanno una governante (vecchia, negra) silenziosa e gentile; nessun erede; ben poca voglia di fare vita sociale.
Michele soffre una tremenda nostalgia di Giovanna, rimasta in Italia, e pensa spesso a Eugenio, un amico morto, fratello della sua amata (“Soffro, ma cos'è il mio dolore di fronte a te che sei morto, e di quale morte”, p. 28): un ragazzo perché s'opponeva al regime, e alla prossima guerra in Abissinia. Come sia morto non è dato saperlo. Michele scrive a Giovanna, chiedendole di restargli fedele: lui deve restare distante, per ora, perché quello “è il suo debito la sua parte” per tenere viva la memoria di Eugenio.
Intanto cerca di studiarsi a fondo Boston: “quella Londra stravagante, e piena di pimenti cristallizzati in un'aria del Nord, dove un passato divenuto chimerico ed un moderno altrettanto chimerico si rincorrevano a vicenda, gli portava eccitanti nuovi” (p. 25) e s'accorge di sentire un'incredibile riconoscenza per John e Bessie. Passano anni. “Lavorava e amava: le uniche due occupazioni che vincono il male e la noia, e rendono questo mondo degno di una vita umana” (p. 35). Ben accetto dagli studenti concittadini, informati che s'era opposto alla guerra in Abissinia (“assassinio vile di un popolo primitivo”) e che aveva visto ammazzare un amico, per questo, Michele si dedica con grande intensità agli studi. Un professore lo accoglie sotto la sua ala protettiva: vuole aiutarlo a integrarsi nella società, perché l'isolamento “poteva snaturare, disumanizzare e guastare i suoi studi” (p. 71). Non riesce del tutto nell'impresa; il ragazzo rimane italiano esule negli Stati Uniti, irrisolto, irrequieto, sempre schivo.
Giovanna scrive cercando di scampare alla censura: racconta di un'Italia in cui “tutto fa schifo”, perché “tutto è come appestato: stupidità, vigliaccheria, prepotenza. Questo regime immondo ci sta, adesso è chiaro, ci sta preparando la guerra. Mi sono ormai ridotta a desiderarla, sperando che almeno la guerra possa portarli via. Capisci adesso perché vivo isolata” (p.49). E in quella guerra, di lì a poco, si sprofonda: il narratore – in terza persona – commenta così: “Il gigantesco anacronismo italiano seguiva eterno la legge di alcune anime morte, l'assassinio e il suicidio” (p. 83). Michele deve scegliere: non ha obblighi, ma non è americano e l'America è in guerra contro il suo Paese. Può prendere la cittadinanza, e vestire l'uniforme, prendere e partire per il fronte, oppure restare così, cittadino d'una nazione nemica ospite d'una nazione generosa, consapevole che qualche noia potrà pur derivarne. Decide di restare a vivere quella vita nuova, senza cambiare cittadinanza. A partire è lo zio: medico al fronte, italo-americano tra gli italiani bisognosi di cure. In Italia, proprio negli ultimi giorni del conflitto, cadrà vittima di un bombardamento.
Due eventi accadono, da quel punto in avanti, prima della fine del romanzo; Giovanna sbarca in America e viene accolta da Michele e da una fredda Bessie: quindi, con brusca cesura nella narrazione, riparte qualche anno dopo, assieme al suo amato, alla volta della Lombardia. L'opera si conclude con un amoroso e romantico spaccato famigliare: l'ex esule ribelle ha ritrovato la sua Italia, e non vede l'ora di crescere, vivere e lavorare per restituire serenità e grandezza alla sua nazione, e a sé stesso. Al suo fianco, la fidanzata rimasta fedele negli anni del distacco, adorante. La morale della favola gronda di una mielosa retorica che non avevo, a memoria mia, mai incontrato nella produzione di Piovene. Tutto ciò è estremamente curioso: sembra quasi di aver letto un Piovene apocrifo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Guido Piovene (Vicenza, 1907 – Londra, 1974), giornalista, scrittore e critico letterario italiano, discendente da antiche famiglie aristocratiche. Esordì pubblicando la raccolta di racconti “La vedova allegra” (Torino, 1931). Si laureò in Filosofia con una tesi sull'Estetica di Vico.
Guido Piovene, “Romanzo americano”, Mondadori, Milano 2005. Collana “Oscar Scrittori del Novecento”.
Prima edizione: postumo, 1979.
Gianfranco Franchi, ottobre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.