Elliot Edizioni
2009
9788861920583
Mark Oliver Everett, leader degli Eels, esordisce in narrativa con questo drammatico memoir: la storia della sua tragicomica, sfortunata e magnifica vita. “Ho vissuto momenti molto brutti e momenti molto belli, ma le cose potevano anche andarmi peggio, considerato che non avevo né una mappa con le direzioni né un briciolo di autostima” (p. 12), confessa. Ha capito una cosa: non va matto per le tragedie. Ne ha capita un'altra: dopo i momenti più brutti sono arrivati quelli più belli. E sa che comunque la vita è “imprevedibile bellezza e strane sorprese” (p. 14). Non sa quanto potrà vivere ancora, come nessuno di noi, del resto; ma non vuole lamentarsi. Si sente solo, ma sogna già i nipotini. Scrive musica per trasfigurare il dolore e il male; vive chiuso in casa perché soffre la socialità. Questo fin quando non è Tom Waits a cercarlo. Ognuno ha le sue debolezze.
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Tutto ha inizio nell'estate del 1982. Ha diciannove anni, sua sorella Liz ha appena tentato il suicidio per la prima volta, dopo che il suo ragazzo ha tentato di ucciderlo con un coltello da cucina. Suo padre muore di lì a poco, appena cinquantunenne, probabilmente d'infarto. È Everett a scoprire il suo cadavere, a cercare di soccorrerlo – invano – e a vederlo trascinato fuori di casa, infine, all'interno di un brutto sacco nero, che non riuscirà mai a dimenticare. Il futuro leader degli Eels è distrutto: pensa di ammazzarsi, come prevedibile; buttandosi da un ponte, sparandosi, infine prendendo pillole. Tiene duro. Non s'arrende. Vuole giocarsela, prima. Quell'estate parte in viaggio con la sua macchina, comprata per cento dollari da sua cugina Jennifer. Lei morirà l'11 settembre 2001, schiantandosi sul Pentagono. Era diventata una hostess, credeva che la vita fosse meravigliosa. A bordo di quell'aereo c'era anche suo marito: suo collega.
Quell'estate del 1982 Everett cerca di dare un senso al suo futuro; si iscrive all'Università di Richmond, scopre di appartenere solo e soltanto alla musica e presto si dimentica degli studi. “Camminavo in trance per le strade di Richmond – racconta – sognando di tornare a casa e di sedermi al pianoforte di mia madre con un registratore e un microfono” (p. 14). La musica serviva a trascendere tutte le situazioni terribili che aveva vissuto: le traduceva, le trasformava, le rendeva sensate.
Il padre di Everett era il famoso Hugh Everett III, autore della Teoria dei Molti Mondi: un fisico meccanico quantistico considerato universalmente un genio quando ormai era troppo tardi. Prima veniva trattato da svitato. Succede. Era un uomo molto silenzioso, e poco vicino ai suoi piccoli; da ragazzino, aveva avuto un carteggio con Einstein, tutto concentrato sugli universi paralleli. Sua madre era una poetessa pazza, suo padre un colonnello dell'esercito. Hugh Everett III crebbe i suoi bambini lasciandoli fare, secondo il metodo pedagogico “buttati: nuota o annega”. “Se ne stava semplicemente là. Si animava così raramente che, quando succedeva, io e mia sorella restavamo strabiliati” (p. 24). Completamente perso nei suoi pensieri: nell'ideazione della possibilità dell'esistenza degli universi paralleli.
La madre di Everett era una segretaria di Princeton, Nancy Gore. Dopo il matrimonio, lei e Hugh si erano trasferiti in Virginia. Era spesso depressa. Liz nacque nel 1957, Mark Oliver nel 1963. Vivevano a un passo dal quartier generale della CIA; da quelle parti, abitavano spie, ufficiali e diplomatici ospiti, oltre ai redneck, cioè gli operai e i contadini autoctoni, bianchi e razzisti. Neri ce n'erano pochi, e non si direbbe fossero ben integrati.
Everett sa di essere un insicuro, probabilmente per via della sua educazione (“ridicola”, dice); tuttavia, più avanti aggiunge che ama Lennon e Presley proprio perché sono uomini insicuri: “Ed è proprio quell'insicurezza a renderli artisti del tutto umani (…). Gli artisti più fichi del momento non ti trasmettono questa sensazione. Sono troppo impegnati a fare i fichi” (p. 35). La fragilità è fondamentale, a quanto pare. È prova di autenticità.
i suoi genitori non sono stati affatto autoritari e non hanno saputo garantire normalità. “Ci hanno instillato la solitudine” (p. 27), aggiunge. Ma sapevano esaudire i loro desideri, come la batteria giocattolo ad appena sei anni. Sarà quella del primo “concerto” del futuro leader degli Eels: a sei anni, quando “cominciò lo strano universo parallelo della mia esistenza: nasconditi dentro te stesso nella vita reale, altrimenti riceverai soltanto offese e umiliazioni, ma sali sul palco ed esibisciti con passione e sentimento, figlio di puttana” (p. 31). E questo è quanto.
Mark e Liz iniziano a drogarsi molto presto: canne e coca già quando Mark ha appena quattordici anni, ed è appena entrato al Liceo. Lei, nel frattempo, se ne va di casa con un quarantenne che somiglia vagamente a Charles Manson. Lui si sfoga con i superalcolici, a tutto spiano. Acidi a quindici anni (solo un paio di volte), e poi – fortunatamente – un gran bello spavento: si trova sotto processo per qualche cazzata grave come guidare la macchina dei suoi senza patente, e sotto alcol, e la paura della galera lo trasforma in un liceale placido e tranquillo. Introverso, e chiuso. La musica rimane il suo totem: al quinto anno delle superiori entra in una band come leader. Si chiamano “A.S.A.P. Band”, laddove ASAP sta per Alcohol Safety Action Project: si tratta di un programma obbligatorio, in Virginia, per chi viene pizzicato ebbro al volante. Lui è l'unico estraneo al programma.
Liz torna a casa, post Manson, e si innamora di un certo Michael, soldato a Honolulu, presto indomabile e intrattabile fanatico cristiano. Allora Mark va a prenderla alle Hawaii, si droga di speed, e post traghetto guida senza interruzione dalla California a El Paso, Texas. Non sarà l'ultimo degli amori di Liz. Tutti conditi, nel frattempo, da eroina, alcol, cocaina. Niente da fare, è bella ma fragilissima; autodistruttiva e incosciente. La sua bellezza non potrà salvarla. Qualche anno più tardi, mentre Mark si sta finalmente affermando a livello internazionale come musicista, si suiciderà. Pillole.
Mark fugge in California, in cerca di fortuna e di distanza da tutto; va a Hollywood, cinquemila chilometri da casa. “Tre lunghi anni pieni di tristezza, lavori merdosi e avvilenti, e una cupa depressione. Grazie a Dio, avevo le mie canzoni da scrivere e registrare. Non facevo vita sociale di nessun tipo, soltanto lavoro e canzoni, lavoro e canzoni. Ogni santo giorno” (p. 76). Questo fin quando, dopo qualche timido contatto coi giornalisti musicali, dopo una festa noiosa si ritrova in autobus vicino a un tizio simpatico. È uno scout dell'Atlantic Records, si chiama John Carter. Il giorno dopo, ascolta le registrazioni, capisce, apprezza. Vorrebbe fargli firmare un contratto, ma perde il lavoro proprio in quei giorni; grazie a una comune conoscenza, così, Everett passa alla Polydor. Primo successo: “Hello Cruel World”, e subito dopo psicodramma concerti: non suona dal vivo da quando aveva sei anni. Saprà affrontare il pubblico con umanità e ispirazione, saprà vincere le sue paure.
Everett racconta tutto, da questo punto in avanti, di ogni suo album; genesi e fortuna del disco, nascita della band, stesura dei testi, emozione di fronte ai suoi eroi, finalmente in carne e ossa. Se può, evita di incontrarli perché si innervosisce e dice sciocchezze: è la “versione estrema di quello che faccio in generale con la gente, perciò tendo a stare a casa da solo ogni volta che è possibile per evitare queste situazioni imbarazzanti. Ho incontrato altri miei eroi e, in alcuni casi, ho imparato a controllarmi un po', ma finisco sempre per dire qualcosa di stupido perché sono estremamente a disagio” (p. 133).
C'è spazio per le nuove morti che contrappuntano la sua vita; quella, dolorosissima, della sorella, e quella del suo roadie, Spider. Mark tiene duro e non dimentica quanto può essere bella la vita, nonostante il male. E quando proprio sta per sprofondare, si chiude in casa e scrive musica. Tutto qui.
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Last but not least, "Il Kurt Vonnegut del rock" (Rolling Stone) racconta letture, visioni e ascolti: tra i romanzi, “Uomo invisibile” di Ralph Ellison, “Brother Ray” di Ray Charles; tra i film, “Tempesta di Ghiaccio” di Ang Lee, “Frankenstein Junior” di Mel Brooks, “M*A*S*H*” di Robert Altman, “American Beauty” di Sam Mendes, tutto Kubrick e tutto Bergman, “Paris Texas” e “Le ali del desiderio” di Wim Wenders.
Tra i dischi, “Live at Leeds” e “Quadrophenia” degli Who, “Plastic Ono Band” (“straordinario”) di John Lennon, “Last Waltz” della The Band, “Hot Fun in the Summertime” di Sly Stone; e poi tutto Elvis, Bob Dylan (“Sign on the Window” e “The Freewheelin' Bob Dylan”), Nina Simone, Van Morrison, Marvin Gaye, Merle Haggard, Willie Nelson, “Zuma” di Neil Young, Buck Owens, Grateful Dead (“mi piacevano solo alcuni loro dischi, tutto qui”), “Good Old Boys” di Randy Newman e Little Richard (in fila alle poste: p. 74); Tori Amos, Tom Waits (idolo), Portishead (grande fonte di ispirazione) e Nirvana, Hole, Liz Phair, Pizzicato Five, Aimee Mann (grande amica), Muddy Waters, Lisa Germano, Elliot Smith (con tanto di commemorazione).
Prendete nota.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Mark Oliver Everett (Virginia, USA, 1963), musicista negli Eels, scrittore americano. Questa è la sua opera prima.
Mark Oliver Everett, “Rock, amore, morte, follia. E un paio di altre sciocchezze che i nipotini dovrebbero sapere”, Elliot, Roma, 2009. Copertina di Maurizio Ceccato. Collana Scatti. Traduzione di Clara Nubile.
Prima edizione: “Things The Grandchildren Should Know”, 2008.
Gianfranco Franchi, novembre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.