SE
1999
9788877104267
“Ho in me risorse immediate, vorrei dire…per condurre la mia ricerca, per poter inventare, per scoprire, con mezzi che sento nel mio intimo, che da soli hanno la forza di incendiare, di bruciare, di splendere, come un pensiero, di luce eterna, e di aprire un varco di luce nella più oscura eternità del nostro piccolo mondo…Così sento incessantemente qualcosa di più, qualcosa d’altro, una luce che dal mio intimo brilla all’infinito…Sono talmente ricco da essere costretto a dilapidare ciò che è in me” (Schiele, Lettera a Oskar Reichel, settembre 1911).
L’arte di Egon Schiele è un dono che un’umanità indifferente ad un’esperienza della bellezza che non sia rassicurante e istantanea non ha saputo intendere, accogliere e interiorizzare. L’arte di Egon Schiele è il pensiero che splende di luce eterna, ma noi apparteniamo a una civiltà che ripudia l’eternità e rifiuta l’infinito: fortunate le generazioni che sapranno riconoscere la purezza e la dolcezza del maestro austriaco, fortunati quei pochi che sentono, già oggi, il canto del dio morente perdendosi in tele come “La morte e la fanciulla”, o “L’abbraccio”. Schiele poteva affermare “Ich ewiges Kind”, “Io eterno bambino”: Schiele aveva l’adorabile sfrontatezza del genio precoce, in lui pulsava un incrollabile sentimento d’adesione all’arte (non moderna, perché l’arte è eterna) e di dedizione alla ricerca; e sapeva che la chiave del suo sentiero era l’innocenza, quell’innocenza che neppure l’incontro con la morte aveva dissolto.
Cosciente della sua grazia e della sua invincibile giovinezza, l’insolenza del destino l’ha strappato alla vita appena ventottenne, quando aveva appena assunto, con commovente consapevolezza, l’eredità artistica e spirituale del suo maestro e mentore Klimt. Il futuro sognato s’era disintegrato: pochi giorni prima, la moglie, in attesa del primo bambino, era morta per l’epidemia della “febbre spagnola”; e rimane il prezioso osso di seppia di quel sogno, “La famiglia”, che è la rappresentazione dell’amore compiuto e la sintesi dell’unione delle anime.
Il talento mitteleuropeo è morto imperfetto e incompiuto: ma la vita del suo pensiero e il senso della sua ricerca non sono andati smarriti, perché forse qualche relitto d’intelligenza e di sensibilità fortunosamente permane nella nostra società, e ribelle domanda giustizia e gloria e rispetto per i pochi, veri artisti dell’ultimo secolo. La grandezza di Egon Schiele iniziava ad essere riconosciuta, in vita, proprio nel 1918: già imprigionato da un sistema che non comprendeva la sua ricerca e la sua dedizione alla bellezza, già condannato dai maledetti moralismi di una società fatiscente e in decomposizione, già isolato da un ambiente che non comprendeva l’arte, finalmente il pittore stava trovando fortuna. È terribile e atroce sapere che un’intelligenza così splendida e viva e un talento così limpido siano stati distrutti da un male, ad appena ventotto anni d’età. Unica consolazione, l’adorazione della sua opera: nuovo sostegno alla comprensione e allo studio, la pubblicazione di questo interessante volumetto.
Il libro è strutturato in tre parti: “Lettere”, “Liriche e prose”, “Diario di Neulengbach”. Si tratta di una campionatura frammentaria e lacunosa: soltanto la sezione dedicata alle poesie e alle prose ha caratteri di organicità e completezza; il diario è addirittura apocrifo. Tuttavia, semplicemente attenendoci alle poche pagine effettivamente (o plausibilmente) scritte dal geniale artista austriaco, possiamo accorgerci, con ammirazione e inquietudine, della profondità del suo spirito e della sua incredibile precocità. Scansando, s’intende, qualunque pretesa di letterarietà.
Egon, a diciannove anni, scriveva: “La malinconia porta la pazienza, la pazienza porta l’esperienza, l’esperienza porta la speranza e la speranza non si può distruggere. (…) Sopportare per sopportare è una cupa follia; la normale pazienza è per lo più mancanza di sensibilità, pigrizia e codardia; solo la pazienza che si oppone saggiamente al peso delle circostanze e sa attendere il suo momento se coraggio e forza non portano subito alla meta, quella è virtù che ricompensa se stessa” (Schiele, tratto da una lettera al suo tutore Leopold Czihaczek, cinque marzo 1909).
Già la malinconia non aveva più segreti, già la speranza s’era rivelata unica fonte inesauribile, già la pazienza aveva rivelato la sua ambiguità. Schiele avanzava nella sua ricerca forte della coscienza della sua maturità e della sua natura d’artista. Senza timore d’essere frainteso, senza paura di risultare arrogante, senza pensare, verrebbe da dire, all’impatto delle sue affermazioni sull’alterità, affermava: “L’arte rimane sempre la stessa: arte. Perciò non esiste un’arte nuova. Esistono artisti nuovi (…) L’artista nuovo è e deve essere assolutamente se stesso, deve essere creatore, deve saper costruire da solo il fondamento, direttamente, senza ricorrere al passato e alla tradizione. Allora è un artista nuovo. L’artista mostra un’epoca”.
Mentre crollava il grande impero absburgico, s’esprimeva l’arte di talenti irripetibili: Trakl e Schiele sono affratellati nello spirito, nella sorte ingiusta, nella rara e ondivaga comprensione dei presenti. Restituire luce e ribadire la grandezza di chi se n’è andato senza vedersi riconosciuto, senza essere capito, senza essersi realizzato, è dovere etico e piacere estetico. Non ho nulla da obiettare alla pubblicazione di un volume come questo: nonostante, razionalmente, mi risulti intollerabilmente incompleto e disordinato (a dispetto del promettente titolo). Volevo leggere frammenti di Schiele, frammenti di Schiele ho ritrovato. Volevo ascoltare le parole di un genio e immaginare il suo mondo; adesso i suoi quadri assumono un volto nuovo. Da leggere.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Egon Schiele (Tulln an der Donau, Austria, 1890 – Vienna, 1918), pittore austriaco.
Egon Schiele, “Ritratto d’artista”, SE, Milano, 1999. Traduzione di Claudio Groff. Con uno scritto di Rudolf Leopold. Il volume dispone di una sezione di notizie biografiche e di un’appendice iconografica.
Il testo è diviso in tre parti: “Lettere”, “Liriche e prose”, “Diario di Neulengbach” (probabilmente apocrifo).
Le lettere, raccolte e catalogate da Christian M. Nebehay, sono state scelte, in questa edizione italiana, da Leonardo Quaresima.
Gli scritti ospitati nella sezione “Liriche e prose” costituiscono l’intera produzione poetica dell’artista austriaco. Composti, secondo Arthur Roessler, tra il 1909 e il 1910, sono stati pubblicati postumi (eccetto qualche prova apparsa in “Die Aktion” tra 1914 e 1916) nel volume: Egon Schiele, “Briefe, Prosa und Gedichte”, Lanyi, Wien, 1921. Tuttavia, a causa dei copiosi interventi di Roessler, il curatore dell’edizione italiana ha preferito attenersi alla ricostruzione filologica di Nebehay, pubblicata in “Egon Schiele. 1890-1918. Leben, Briefe, Gedichte”, Residenz Verlag, Wien, 1979.
Il “Diario”, pubblicato per la prima volta nel 1922 dal solito Roessler, potrebbe essere un falso: il manoscritto originale non è mai stato recuperato. Roessler si dovrebbe essere basato sulle annotazioni, le lettere e i racconti dell’amico pittore.
Gianfranco Franchi, settembre 2003.
Prima pubblicazione: Lankelot.