Rien va

Rien va Book Cover Rien va
Tommaso Landolfi
Adelphi
1998
9788845913457

Dieci anni dopo “La bière du pécheur” – anni solcati da racconti per bambini come “La raganella d’oro”, dal poema drammatico in sei atti “Landolfo IV di Benevento” e da diverse raccolte di racconti – ecco un nuovo diario di Tommaso Landolfi: “Rien va”. Qui si accenna alla stesura di “Mezzacoda” e di “Landolfo” e in parte alla loro circolazione; ci si dispera per la costrizione alle traduzioni di Puskin, e alla relativa stesura dell’introduzione – ribadendo tuttavia che altrimenti non si campa, e mancano i quattrini; si danno un paio di bastonate alla Repubblica (unità nazionale “idea mostruosetta e volgaruccia”), una a Robbe Grillet (libro esemplare per le letture al cesso); s’accenna alla supremazia del gioco e alla sua necessaria presenza nella vita delle persone e – si tratta in questo caso dei passi migliori – si racconta della nascita della figlia, la “seconda bambina” di Landolfi; la prima era la moglie; si idolatra il genio e la resistenza di Dostoevskij (memorabili pagine dedicate ai Karamazov).

Un po’ poco per giustificare la pubblicazione – in vita – di un diario che di letterario, a parte quanto accennato, ha sinceramente molto poco. Piuttosto, parrebbe altro veicolo da quattrini (magari pochi) proprio come la traduzione di Puskin, per Landolfi; in questo caso l’artista rinuncia a essere spietato con se stesso, prende appunti sulla vita e riflette sulla sua scrittura. E parecchio. Si corregge, si fustiga, si apprezza, va per autoironia e paradossi, minimizza e s’infiamma. Appunto, materiale da cassetto dell’autore (oggi diremmo: da blog), e se si va a confrontarlo col di poco successivo “La vita agra” dell’altro autore-traduttore di grido del tempo, Bianciardi, sono guai. Landolfi traduttore-scrittore-diarista, nell’epica minima di se stesso, qua ne esce con le ossa rotte.

Rien va” è meno cupo e contrastato – in altre parole: meno credibile, e decisamente più artefatto – del diario precedente, mostrando rassegnazione e un pizzico di autocompiacimento nella descrizione della propria scarsa attitudine alle cose della vita. Difficile non trovare un papà emozionato dalla nascita della figlioletta, ma le parole dell’autore, in ogni caso, in quei frangenti toccano, e strappano più di un sorriso tenero. Purtroppo direi che non possa bastare. E dire che nella prima promettente pagina un Landolfi quasi cinquantenne scriveva che voleva questo fosse “il libro (il registro) del mio abbandono, il quale (registro) non riguardasse altri che me. Ma intanto in questo faticoso preambolo è già andato perduto ciò che poteva importare stamane, e già ineluttabilmente ho preso a ripassare e riaggiustare le lettere mal riuscite… come vorrei finalmente non essere inteso, non da tutti! (!) Pure, non è già questa una preoccupazione letteraria? Ah, sarà quello che sarà”.

Ecco qui: i giocatori chiamano bluff una sortita del genere. Sembra che ci sia qualcosa in mano ma in realtà chi siede al tavolo non ha granché; magari è una doppia coppia. E tanta confusione sul da farsi. L’impressione, a dirla con franchezza, è che davvero le cose siano andate così; questi sono appunti, ideuzze, malesseri, sprazzi di gioia assemblati e confezionati.

Dire “riservato ai cultori” o agli studiosi dell’opera landolfiana è sinceramente bastevole, in assoluto, per concludere qui la lettura dell’articolo.

Da qui in avanti restiamo in pochi. Landolfi parla dell’impotenza:

Impotenza non è che una parola, quando di essa si ha coscienza e quando se ne soffre (vi è peraltro un’impotenza fisica che la volontà né la coscienza non bastano a vincere): davvero non saprei cavarmi da questo spaventoso stagno dell’anima e del corpo?” – come si può facilmente dedurre, quanto rimane in comune col precedente diario è questa ricerca di rimedio e soluzione tramite la scrittura; con la convinzione che il monologo sia un’indagine approfondita in se stessi, con la fede che le parole sapranno sgranare il muro del mistero e del malessere interiore.

Il dramma della madre – perduta troppo presto – spiega almeno in parte le complesse dinamiche delle interazioni dei personaggi di Landolfi (talvolta, inevitabilmente, verrebbe da dire: di Landolfi stesso) con le figure femminili. In “Rien va” si accenna in diverse circostanze al desiderio di tornare nell’utero materno; il narratore non vuole tornare, “se non al nulla primordiale, alla assorta vita prenatale”: si giudica inetto all’esistenza consociata e la “formulazione imperativa” è rientrare nell’utero materno.

L’impresa – va da sé – non può che essere letteraria; e in ogni caso qui non viene nemmeno tentata. Piuttosto si va a stringere grossi nodi attorno al proprio ombelico, con questa epica piccina del letterato stravagante, povero e aristocratico: uno spartito già suonato in passato da Landolfi e con ben diversa classe. Insomma, consolato e riequilibrato dal matrimonio e dalla paternità, rimane un autore che deve scrivere per vivere. E magari pubblicare, a questo punto, tutto, proprio tutto.

Il libro esce nel 1963. L’appassionato lettore postero continuerà a risalire nella produzione dell’artista di Pico Farnese con qualche pregiudizio, felice di vederlo dissolversi – come il patrimonio dei giocatori – in una serata o poco più.

L’impressione è che qualcuno abbia cominciato a spegnere la luce.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.

Tommaso Landolfi, “Rien va”, Longanesi, Milano, 1970.

Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1963.

Quindi, l’edizione esaminata, Longanesi, Milano, 1970; Rizzoli, Milano, 1984; Adelphi, Milano, 1998.

Approfondimento in rete: Centro Studi Landolfiani / Wikipedia

Gianfranco Franchi, aprile 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Rien va” è meno cupo e contrastato – in altre parole: meno credibile, e decisamente più artefatto – del diario precedente, mostrando rassegnazione e un pizzico di autocompiacimento nella descrizione della propria scarsa attitudine alle cose della vita…