fra sergio

Incontriamo un autentico lettore forte. Un intellettuale classe 1945, ex correttore di bozze ed ex operatore della CISL, attualmente compartecipe della disgrazia dei beni famigliari, vista l’insicurezza del mercato dei BOT. Tengo a ribadire che scrivendo “autentico lettore forte” intendo che non si tratta di un autore pubblicato: il nostro misterioso interlocutore non ha mai pubblicato poesie o racconti o romanzi. Corretto?

“Diciamo di sì”.

Lei era un ghostwriter, più politico che letterario. Grande facitore di necrologi trasversali. Fine dicitore nelle orazioni funebri, come Bossuet. Ha pubblicato articoli di argomento politico, storico o sindacale su quotidiani e periodici, tendenzialmente sotto falso nome o sotto il nome del committente. Quando e come inizia il tuo rapporto con la lettura? Quali sono i primi ricordi, le primi immagini di un libro, le prime letture?

“In bianco e nero, e poi dirò il perché. Il primo libro, a sei anni, era una Odissea bignamizzata. Seguita dall’Iliade, autore un direttore didattico mezzo epurato per trascorsi fascisti, che aveva perso tutti i suoi libri in una missione all’estero e che portava a casa un quotidiano, ‘Il Tempo’, il cui inserto sportivo di quattro pagine, il lunedì, era rosa. Questa era la seconda lettura. Terza, rubando dalla borsa del nonno, era una serie di indicazioni pedagogiche, di cui non capivo assolutamente nulla, accuratamente edita dal Ministero. Qualche atto processuale, e delle relazioni che portava mio padre sull’import-export di baccalà, le marmellate Zuegg e cose varie. Ripeto: assolutamente in bianco e nero”.

E poi?

“Di giornali sportivi esistevano il Calcio e il Ciclismo Illustrato. La Gazzetta dello Sport era per ricchi. La carta dei giornali era ancora di pessima qualità. Quando i campionati mondiali di ciclismo, nel 1954, passarono per i Castelli Romani dove abitavo vidi passare il gruppo – vinse Ockers, e noi tifavamo Bruno Monti, romano – e rimasi allucinato dal colore della maglie. Il mio mondo era in bianco e nero. Stessa situazione l’ho provata qualche anno dopo, quando sono entrato per la prima volta allo Stadio Olimpico e ho visto che il campo era verde, le maglie erano rosse e rossoazzurre – era un Roma-Catania – e la gente aveva un colore. Siamo negli anni Cinquanta. Frequentavo le elementari. Come regalo, nelle feste più importanti, arrivavano libri Garzanti o Vallecchi – c’era una collana che si chiamava ‘I Gabbiani’, mi pare – che oltre a illustrazioni e colori avevano una riduzione per giovani dei grandi classici: Stevenson, Defoe, Dickens… Salgari, chiaramente. E via dicendo. A quei tempi esistevano soltanto queste edizioni”.

Che significa che esistevano soltanto quelle edizioni?

“Pian piano, col progresso economico dell’Italia del dopoguerra, sono cominciate ad apparire edizioni della Dall’Oglio e della Sonzogno. Ricordo un libro stupendo che si chiamava, credo, ‘Il cigno nero’, non ricordo l’autore. Le Mondadori erano edizioni per ricchi, le prime edizioni per ricchi”.

Passiamo agli anni Sessanta. Medie, Ginnasio e Liceo Classico. Periodo 1955-1964.

“La grande rivoluzione cominciò con la BUR. Prosegui con i Libri del Pavone e della Mondadori. Usciva di tutto. Inglesi, americani, e riapparvero libri di famiglia; Salvaneschi, D’Annunzio. Il primo libro comprato, impegnando due settimane di paghetta, fu ‘La Geografia’ di Van Loon. E cominciando a leggere altri giornali, periodici come Epoca, L’Europeo, o riviste femminili come Grazia, Annabella, tutti ci accorgevamo di parecchie novità. E non bastavano i soldi. Una paghetta equivaleva a un libro. Nel contempo, dei parenti ricchi venuti dalla Francia portavano meravigliose edizioni della Pleiade. Era difficile leggere in francese, ma fu tutta una scoperta. Da La Fontaine, passando a Flaubert, Guy de Maupassant e via dicendo, fino a Saint Exupery: il primo ‘Piccolo Principe’ mi è stato consegnato che avevo quindici anni. In Italia, a quei tempi, esisteva una assurda moda ripresa in Argentina dalla crisi Kirchner – i ‘patacones’: assegno in bianco, dichiaravi ho preso questo libro e lo ridarò – lo scambio, più i libri in prestito dagli amici, che non tornavano mai. Tutti investivano su tutto, ma la cultura veniva sfruttata. Se non prestavi un libro eri un tirchio e un usuraio, se lo davi non lo rivedevi più”.

“Si introdussero, come uso, grandi speculazioni librarie: non sono mai stato un bibliofilo, ero un bibliomane. Cercavi i vecchi luoghi dove dei rigattieri compravano eredità svendendo libri, elemosinavi o lavoravi gratis nella distribuzione di piccole aziende, la più famosa era Tumminelli, che ti faceva avere libri col 20% di sconto. E poi si trovò un canale stupendo – libri venduti sottocosto, a peso o su misura, per le case del boom economico, e nel mucchio estrapolavi cinque o sei testi che ti servivano o valevano. L’ordine religioso a cui uno si ispirava, per archiviarli, era: Letteratura Varia, con approfondimenti nazione per nazione; Storia; Gialli; Fantascienza; Fumetti; Obliqui. In mancanza di tutto ciò, uno leggeva le istruzioni dei medicinali – le più belle erano quelle del dentifricio Durbans, nei momenti di solitudine”.

Università: 1965-1969.

“La grande crisi fu sul modo di leggere. Lettura veloce, lettura d’esame, solita critica degli amici – ‘come fai a leggere tanti libri in così breve tempo?’ – senza sapere che un libro che non interessa si legge in tre minuti, un testo universitario con le glosse in non meno di tre mesi, e poi… mi sono accorto che la grande critica della gente è sempre sulla troppa lettura. In quel periodo sono passato alle letture al di là dei canoni ufficiali. I testi proibiti del fascismo, del nazismo, del bolscevismo… ma il più difficile da trovare fu il testo di Giuseppe Toniolo che fu base della Democrazia Cristiana. Anche se, in fin dei conti, bisognava ringraziare i servizi segreti americani e russi. Marx non l’ho mai finito. Trotsky era un dromedario. Mi piacevano gli scrittori maledetti francesi: ma bastava leggere ‘Il Secolo d’Italia’ per tornare all’età della pietra. Che palle Spengler! I grandi testi di Tolkien, C.S. Lewis li ho scoperti attraverso amicizie straniere, olandesi. E poi è entrata la metafisica della ricerca. Storia, medioevo, le grandi bibliografie; filosofia, Teillard de Chardin, Dewey, Juenger (perso e ritrovato molto tempo dopo) e cose varie”.

Anni Settanta.

“Il tripudio. Tutto a buon mercato. Aumentati i soldi in entrata, una parte cospicua anche nelle varie relazioni sentimentali era dedicata alla lettura. Il mio post coitum non poteva prescindere da sigaretta, bicchiere di champagne e libro letto di nascosto. Di tutto”.

Anni Ottanta.

“Col tempo, la ricerca si fa sempre più approfondita. Per lavoro, leggevo quindici o venti periodici; mi informavo attraverso la musica dei vari sviluppi, ad esempio: leggendo la storia dei Cajun della Louisiana capire la storia degli Stati Uniti, e quindi comprare tutti i libri che mi aprissero una visione su questo sistema. A quei tempi, il traino fondamentale della cultura era la musica, ai Cajun ci arrivo dopo i Launeddas sardi, le canzoni di Stefano Rosso e la ricerca del folklore in ogni Paese. Dalla Louisiana passo al Sudamerica, poi all’Europa Nord-Occidentale (esclusi gli Abba), ai Canti Caucasici e ai dischi in triestino. Di lì la grande mania sulla Mitteleuropa. Attraverso conoscenze, le varie storie – non solo letterarie… e via dicendo. Grandi passioni nel frattempo la Letteratura Spagnola post-franchista, i quadri di Magritte e i noir francesi – Boris Vian, Simenon, la Vargas”.

Dagli anni Novanta ad oggi.

“Tutto. Ma non tiene più la memoria. Leggo un numero imprecisabile di libri l’anno, e lo stile di lettura è cambiato. L’editoria è diventata un ammasso di credenze ispirate al mercato nordamericano, in cui la piccola ape che produce un libro vende un milione di copie; e io in Italia ho scoperto Orengo su una bancarella dell’usato. Contesto totalmente la nuova piccola e media editoria italiana, che produce una pletora di autori che scrivono tutti nello stesso modo, pallidi epigoni di Bukowski, ma penso sia un frutto atroce del tempo in cui per un ragazzo di Monteverde Manzoni è una scuola, Ippolito Nievo una piazza e Pasolini un frocio”.

Editori o collane preferite?

“La più grande casa editrice italiana è la Laterza. Subito dopo Il Mulino, splendidi esempi i De Donato di Bari, ma rispetto al gusto della tradizione franco-fiamminga rimpiango di non aver letto in inglese. Einaudi era troppo di parte. L’Italia è ancora un Paese allo stato paleolitico. Rispetto all’Inghilterra, mica all’America… Stupende le culture evanescenti della nuova unità europea… ho comprato su una bancarella la storia della letteratura rumena, polacca, slovena, ungherese; in Italia è stato tradotto lo 0,2% di quegli autori. Apprezzavo Franco Maria Ricci, che aveva lanciato un modo nuovo di fare libri. Ho sempre odiato Feltrinelli, per il suo bisessualismo mentale e politico. Altro? Nell’astro Calasso non voglio entrare, anche se le classifiche dei libri dei maggiori quotidiani appartengono alla top ten degli italiani che non votano, non leggono, parlano solo dietro le spalle e devono in qualche cocktail fare esercizio di cultura. Il mio autore preferito, col passare degli anni, rappresenta una delle più grandi ferite in quanto, avendo scritto su un giornale romano ed essendo morto qui… non l’ho letto fino a sessant’anni. È Giani Stuparich. Quanto alle collane… amo molto “I Bassotti” di Polillo, ex direttore del Giallo Mondadori, perché mi ha fatto scoprire che Milne, romanziere e poeta inglese, era l’autore di ‘Winnie The Pooh’, il cui marchio apparteneva a una casa tedesca, che anche sulle enciclopedie viene fuorviato. Senso che la letteratura è un’arte d’oltretomba peggio della pittura. Solo Gaudì sopravvive. Come architetto, o santo”.

Libri che ti hanno cambiato la vita. Libri che avresti voluto scrivere. Libri che avresti voluto leggere.

“Cambiato la vita… nell’infanzia, ‘Il richiamo della foresta’ di London. Nell’adolescenza, ‘L’amante di Lady Chatterley’ di Lawrence. Nella giovinezza, ‘Il giovane Holden’ di Salinger. Da adulto, ‘Case, amori, universi’ di Fosco Maraini. In vecchiaia, ‘Istanbul’ di Pamuk.  Libri che avrei voluto scrivere… ‘I tre moschettieri’ di Dumas, nell’infanzia. ‘Cioccolata a colazione’ di Pamela Moore, in adolescenza. ‘Fuoco fatuo’ di Drieu La Rochelle, nella giovinezza. In maturità, ‘I guerrieri di Salamina’ di Cercas. In vecchiaia… ‘L’Enciclopedia del Vino’ di Bollati e Boringhieri. Stupenda come pubblicazione. Libri che avrei voluto leggere… il Vangelo, e “Necronomicon” di Lovecraft”.

Come ti informi a proposito delle nuove pubblicazioni? Quotidiani, periodici? Quali sono i tuoi critici di riferimento, e come decidi di acquistare un libro?

“Mentalmente. Seguendo le tracce dei libri letti precedentemente, da quel che leggo sui quotidiani, sui periodici, sento in televisione, sulla stampa straniera o sento commentare dagli amici. Secondo il gusto del momento. Attualmente ho una preferenza per la Storia dell’Impero Ottomano, per la Mitteleuropa e per la Prima Guerra Mondiale, e per l’Impero Inglese. Se esce qualcosa legato a tutto questo, punto e vado alla ricerca. L’esempio più strano di come ho scoperto un periodo storico è quando avevo comprato per sbaglio un libro di non ricordo chi, ‘Il Calligrafo’. Di lì sono passato a comprare la poesia inglese di John Donne, William Blake, e poi ho approfondito su Boswell, già vecchia mania, sulla storia della Letteratura Inglese nel periodo elisabettiano, e su un libro dono di mio figlio che non riesco mai a finire, Jonathan Coe. Mi annoiava. Poi ho proseguito su qualche irlandese minore, mi sono fermato e ho cominciato a leggere testi sulla Massoneria in America ai tempi di Jefferson e ho finito con un saggio sulla Spagnola, pestilenza che fece più vittime della prima guerra mondiale. Odio i critici letterari. Sono la forma più indegna di mercato attualmente in Italia. Apprezzo molto le recensioni asettiche. Preferisco, ad esempio, prendere un articolo di Sergio Romano per fare ricerche sul periodo storico-letterario in questione, anche se mi è difficile perché non uso computer e internet, per scelta personale. Ma questo è solo il proemio. Non si può parlare di cinquantacinque anni di lettura in poche ore…”.

Infine: dove e quando acquisti? E da quanto è così?

“Da sempre, dappertutto. Preferibilmente dal libraio di quartiere, anche se devo aspettare qualche giorno, dopo aver ordinato. Odio e amo i posti come le Feltrinelli. Amo i vecchi banchetti dei morti, ho trovato e rilegato libri di Craxi. Ma di fronte a della carta stampata non so resistere”.

Come vorresti essere sepolto?

“Con una bottiglia di champagne, assolutamente non millesimato, e una copia del ‘Robinson Crusoe’ di Defoe e un piccolo libro che ho perso, illustrato da Cagli, sulle ‘Metamorfosi’ di Ovidio. Che grande poeta”.

Gianfranco Franchi intervista l’anonimo triestino, 30 marzo 2008.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Luglio 2016, intervista riletta e ripubblicata qui nel Porto Franco, intatta. “Anonimo Triestino” era mio padre, Sergio Amanzio Franchi, morto a Roma nel settembre 2009 a 63 anni.