Garzanti
1955
9788811688358
A sessant'anni esatti di distanza dalla prima edizione, l'esordio narrativo del poliedrico poeta friulano Pier Paolo Pasolini ha mantenuto intatta una eccezionale freschezza espressiva, una scrittura luminosa e visiva, dialoghi in dialetto romanesco che daranno pane ai linguisti per parecchi secoli, un'elastica architettura mosaicale, che maschera da romanzo una raccolta di racconti sbarazzina, di una sconcertante potenza mimetica. Bisogna avvicinarsi a “Ragazzi di vita”, per ritrovarlo e riassaporarlo e restituirlo al presente, con un pizzico di irriverenza e con una buona predisposizione allo stupore, e con una gran fame di archeologia del presente, con la smania di recuperare qualche pezzo di Novecento ormai sostanzialmente perduto: quello vissuto nelle periferie romane, negli anni dell'ipertrofico e irragionevole sviluppo della nostra capitale, nel momento del più limpido e assurdo contrasto tra prati, campi, boschi e ruscelli e palazzi, asfalto, abnormi tubature, chiassose e fastidiose automobili. A quel punto “Ragazzi di vita” viene incontro al lettore come il tripudio di una disordinata, effervescente e rumorosa marcia popolare, come un fumettone sgarbato, ingenuo e sboccatissimo, con la personalità di un superbo giocattolo di legno in mezzo a una pletora di giocattoli di plastica. Tutta questa ruspante anima popolare e tutta questa colorita veracità stonano, però, con la sofferenza e la frustrazione dell'artista.
Adesso, a sessant'anni esatti di distanza dalla prima edizione, sappiamo parecchie cose in più che non possono non spingerci a valorizzare con più profonda consapevolezza certe pagine di questo primo Pasolini narratore. Sappiamo, grazie al lavoro di Silvia De Laude e Walter Siti, pubblicato nell'imprescindibile “Meridiano” Mondadori dedicato a Pasolini, che la genesi di “Ragazzi di vita” è stata singolarmente tumultuosa e sofferta. I primi capitoli del libro, presentati come racconti autonomi, vennero pubblicati su “Paragone” tra 1951 e 1953; già all'altezza del 1953, Pasolini andava autocensurando la sua scrittura, per evitare problemi legali e denunce. Era un'Italia moralista e bacchettona che aveva dimenticato che la lingua dei personaggi dei romanzi può tranquillamente essere scurrile, cruda e sboccata: era un'Italia che si poteva sentire offesa per qualche passo giudicato improvvidamente “osceno”. E quando, nel 1955, Garzanti, l'editore di Pasolini, si lasciò andare a tutta una serie di scrupoli moralistici, Pasolini visse quello che definì, in una lettera a Sereni, “una specie di incubo”: finendo per “correggere e castrare” - scrive proprio questa parola, “castrare”, una delle più violente e sanguinose possibili – diverse battute del suo romanzo, in fase di revisione. Nelle parole dell'artista: quelli furono una serie di giorni atroci, e anzi “a un certo punto pareva che il romanzo non si dovesse pubblicare più (per lo scandalo dei librai): ho dovuto fare correzioni, tagli: sono dimagrito cinque chili. È stato uno dei periodi più brutti della mia vita”.
E se non basta questa notizia a spingerci ad apprezzare la miracolosamente incolume vivacità dell'opera, a lasciarci proprio sbalorditi è la notizia che questo libro venne comunque processato. Troppo libero per un Paese così confuso, troppo onesto per un Paese così ipocrita, “Ragazzi di vita” finì in tribunale su denuncia della Presidenza del Consiglio perché considerato scabroso, osceno e spudorato: toccò a buona parte della nostra miglior società letteraria dell'epoca, da Carlo Bo a Gianfranco Contini, passando per Moravia e Ungaretti, testimoniare a favore dell'imputato e guadagnare la piena assoluzione. Possibile, pensiamo noi lettori e letterati degli anni Dieci di un secolo nuovo, che appena sessant'anni fa, mica seicento!, potesse succedere una cosa del genere? Possibile che Carlo Bo abbia dovuto spiegare ai giudici che “Ragazzi di vita” era un libro profondamente religioso, perché spingeva alla pietà verso i poveri e i diseredati, e non aveva niente di osceno perché “i dialoghi sono dialoghi di ragazzi e l'autore ha sentito la necessità di rappresentarli così come in realtà”? Possibile che Ungaretti abbia dovuto domandare giustizia di fronte a quello che considerava un abbaglio clamoroso, perché il romanzo di Pasolini era semplicemente la cosa più bella che si poteva leggere in quegli anni? Possibile: e anzi se volete una morale della favola, a sentire Vincenzo Cerami, vecchio allievo di Pasolini, “con il senno di poi si può dire che a far scandalo non fu tanto il lessico forte del libro, ma la dignità letteraria che veniva conferita alla parte più bassa e disonorevole della nostra società, cosa che offendeva i benpensanti e l'idea che essi avevano della letteratura”. Ci siamo capiti? Chissà.
Sta di fatto che questo povero bel libro, passato per autocensura autoriale e mezza censura editoriale, tribunali e pettegolezzi di vario ordine e grado, finì per ritrovarsi ingiustamente escluso da premi che all'epoca venivano considerati decisamente più credibili di oggi, come lo Strega e il Viareggio, e finì per ritrovarsi bastonato dalla critica marxista come dalla critica fantaborghese e conservatrice, si dovette accontentare di un premio letterario laterale e di una certa fortuna nelle vendite. Io penso che il giovane fortunato lettore che deve ancora oggi avvicinarsi a questo libro, e al suo successivo gemello “Una vita violenta”, abbia il dovere morale ed estetico di tenere presente una simile caotica genesi ed accoglienza dell'opera, perché sono notizie che finiscono per scolpire la società di cui siamo figli, o nipoti, e restituiscono uno spaccato del nostro Paese fedele alle contraddizioni, ai contrasti e alle difficoltà che andava fronteggiando. Soprattutto: escludono nostalgie. E poi, sono notizie che finiscono per dare un altro spessore a un libro che altrimenti sembra soltanto quel che vi dicevo all'inizio: un romanzo viscerale, corale, popolano, popolare, d'un popolo delle borgate e delle periferie romane oggi profondamente differente e distante da quello descritto da Pasolini.
Com'erano le città in quegli anni? “Le città” - scrive il poeta nella prefazione a una notevole raccolta di scritti di Sandro Penna, oggi reperibile solo in biblioteca: si chiama “Un po' di febbre” - “Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai 'cari terribili colori' nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more”. E poi? Poi: “I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua o di là dei piccoli fiumi. La gente indossava vestiti rozzi e poveri, i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti”. Quei ragazzi, canta il poeta, avevano “un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano per costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapeva vederlo”.
Pasolini qui sta parlando probabilmente più della sua poetica che di quella di Sandro Penna: sta tornando a raccontare lo spirito e l'essenza dei suoi “Ragazzi di vita”. In questo libro siamo nel mondo dentro il mondo dei ragazzi delle borgate romane degli anni Quaranta e Cinquanta, un mondo che esisteva solo per chi sapeva vederlo. Come Pier Paolo.
C'è un passo, nei suoi “Scritti corsari”, che trovo giusto abbinare a una lettura di “Ragazzi di vita”. Si tratta di un pezzo scritto per “Il Mondo” quasi vent'anni dopo la pubblicazione del romanzo, e cioè nel 1974. A un certo punto Pasolini, criticando il modello sociale da realizzare nella nuova società, un modello sbagliato e imposto dal potere, spiega che molti non possono realizzarlo, e ciò li va umiliando profondamente. E allora lui ci fa un esempio, un esempio “molto umile”, così scrive. Sentite qua. “Una volta il fornarino, o cascherino - come lo chiamano qui a Roma – era sempre, eternamente allegro: un'allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicetta uno straccio. Però...” - però: sentite qua, sentite bene - “tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva nella casa del ricco con un sorriso anarchico” - un sorriso anarchico, sapete ricordare com'era? - “che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta, questa persona, questo ragazzo, era allegro”. Allegro. “Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?”. Già, dovrebbe essere così, ma oggi questa felicità è perduta. Io dico che negli occhi dei “Ragazzi di vita” c'è qualcosa che le somiglia tanto, mentre vanno vagabondando a Roma Centro con l'aria spaesata di chi non sa come riempire le proprie giornate, e intanto ruba un sorriso al sole, si gode un bagno nell'antico e sacro fiume, e una promessa marinaia a una cameriera di quelle bone.
Il romanzo ha avuto parecchie riedizioni, non solo per Garzanti; negli anni Settanta ce n'è stata una degnissima per Einaudi. L'opera è sempre rimasta di facile reperibilità. Se volete, in circolazione c'è anche l'audiolibro letto da Fabrizio Gifuni, da un anno o due.
Gianfranco Franchi, ottobre 2015. Testo scritto per una rubrica di RadioRai Friuli-Venezia Giulia. In Rete, una versione ridotta è poi apparsa sul "Mangialibri".
Tributo all’esordio narrativo di Pasolini, scritto per RadioRai Friuli-Venezia Giulia