Pochi giorni fa, ospite dell’elegante Libreria Minerva di Trieste, ho partecipato a una delle presentazioni più coinvolgenti ed emozionanti che possa ricordare. Dopo un’ora e tre quarti abbiamo dovuto interrompere il dibattito perché la libreria doveva chiudere, ma si poteva fare nottata, era nelle cose. La sala era ancora piena, e il pubblico aveva cominciato a discutere tra sé: come durante un collettivo, negli anni del Liceo. Un’esperienza insolita, di un’intensità piacevolissima, infiammante. A quel punto mi sono chiesto da quanto non mi succedeva qualcosa del genere, da quando ho cominciato a presentare libri in pubblico. Da relatore, si capisce. Non mi era mai successo. Tutto merito del libro, dell’artista, Giancarlo Sturloni, dell’editore, la Piano B, dell’argomento, la sopravvivenza della specie. È chiaro. Ma io intanto ero nel pieno dell’amarcord, e stavo ricostruendo pomeriggi o serate di cinque, sette, dieci anni fa. Parecchie serate. L’amarcord è questo qua.
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“Raccontare libri” è qualcosa che ho sempre amato fare, da quando ero bambino; “raccontare libri e raccontare scrittori” è stata forse una delle mie principali attività, negli ultimi anni. So bene che l’epoca che stiamo vivendo considera una simile attività poco più che una bizzarra inclinazione spirituale, una stravaganza radicale o un sofisticato diversivo, o al limite una velleitaria strategia politica, comunque troppo lenta (e troppo differita) per poter essere intercettata e analizzata. So bene che tendenzialmente non c’è adeguato riconoscimento economico, e quindi non c’è quasi nessun riconoscimento del valore sociale, della funzione sociale, di questa attività; però, come posso, invecchiando non mi stanco di raccontare libri e raccontare scrittori, levando tempo a tutto il resto.
Adesso so di essere bravo a presentare libri. So di essere più bravo a presentare i libri degli altri piuttosto che i miei. Questo forse per una questione di educazione, o di disposizione, o di umiltà; forse, più onestamente, perché vengo facilmente a noia di me stesso, e comunque mi scoccia ripetere le stesse cose a distanza di settimane o mesi. Mi inaridisce, mi robotizza. Forse perché ho scoperto che se parlo troppo di quel che ho pubblicato poi mi diventa del tutto estraneo, e questo finisce per mettermi a disagio. Non lo so. Ma so che trovo salutare, edificante e civile raccontare libri e raccontare scrittori. Soprattutto in un’epoca come questa, e in una nazione come questa. È un’esperienza che ogni volta cambia qualcosa in me, e rare volte in chi è presente, e ascolta, e domanda. È un rito e un gioco. È qualcosa di bello. E di poco descritto.
Negli anni, in circa cinquanta presentazioni tenute da relatore, e non da autore, mi è capitato di raccontare i libri del più talentuoso art director italiano, Maurizio Ceccato, e dell’ultimo romanziere della scuola romana, Renzo Paris; ho raccontato la poesia dell’unico poeta beat italiano, Antonio Veneziani, e un romanzo di Joe Lansdale in anteprima europea. E poi mi è capitato di dover raccontare libri e scrittori “in memoria”: è successo per il povero Tadeusz Borowski, per l’anarchico Luciano Bianciardi, per l’adorabile Scipio Slataper, per il corrosivo Ambrose Bierce. A volte, ho raccontato libri “in absentia” dell’artista: è successo per il fondamentale saggio di Alfred McCoy sulla tortura, ad accompagnarmi c’era Riccardo Noury di Amnesty International. Bella responsabilità.
Ho presentato scrittori italiani della mia generazione, narratori che considero miei sodali e miei amici come Paolo Mascheri, Claudio Morici, Simone Caltabellota, Mauro Garofalo, Flavio Santi, Domenico Di Tullio; intellettuali di grande respiro come Giancarlo Sturloni e Patrick Karlsen; uomini rinascimentali come Simone Barillari, ed eclettici come Simone Buttazzi; inglesi innamorati del Belpaese come David Hewson, e californiane atipiche come Robin Hobb.
Ho raccontato l’impegno politico di Simona Baldanzi, e la satira amara di Chiara Moscardelli; il fascino dei racconti di Paolo Zardi, e la potenza dell’esordio di Dora Albanese. Ho raccontato il memoir toscano dell’architetto Lino Centi, il memoir romano di Enrico Pietrangeli e il memoir triestino- newyorchese di Ricky Russo; la Roma restituita da Adriano Angelini e la Corsica stregata di Paola Dallolio. Ho raccontato il romanzo sentimentale di Luca Giachi e un romanzo gotico di Danilo Arona, l’oscuro Ottocento della Reim e qualcosa ancora. A volte collane intere, come lo Zoo della Duepunti.
A volte c’erano tre persone, a volte circa duecento, normalmente tra le venti e le cinquanta. Non sono poche. A volte ero all’aperto, a piazza del Popolo, nel borgo di Viterbo o sul Carso, a guardare il tramonto. A volte in un locale, su un bel palco, più raramente in Fiera, normalmente in libreria. A volte ero talmente estraneo al libro che stare lì mi sembrava una sfida, altre volte ero talmente vicino che presentarlo a dovere diventava una questione personale. Parecchie volte sono stato semplicemente professionale, ma adesso non vorrei più. In linea di massima ora vorrei raccontare libri e scrittori, in pubblico, per amore o per trasporto, sincero, o per vera considerazione, per convinto interesse. Non più con mestiere, per mestiere. Mai con freddezza o per convenienza.
Una volta, quando mi sono trovato seduto vicino al professor Cortellessa e a Simone Barillari, ho pensato che potevo considerarmi quasi realizzato. Ancora adesso, al solo pensiero, mi sento in pace. È stato un vero premio per me.
E poi, inevitabilmente, sì: negli anni qualcosa mi sono perso. Parecchio. Per esempio dovevo presentare lo stupendo libro sulla viandanza di Luigi Nacci, ma ho mancato, sin qua. Dovrò rimediare. Dovevo presentare Zadoorian al Circolo degli Artisti, a Roma, qualche anno fa, ed ero veramente felice all’idea di poter parlare a tanta gente di chi aveva scritto “Second Hand”, soprattutto in un posto come il Circolo, che per me e per tanti altri rappresentava qualcosa di unico, ma la sera prima o due sere prima è morto mio padre, e per me è finito un pezzo di mondo.
E poi, in generale, penso che avrei dovuto legarmi, almeno per un po’, a un posto e uno soltanto, per raccontare libri e raccontare scrittori, ma non l’ho mai trovato. Forse non ancora. So che sto cercando qualcosa del genere. Mi piace pensare che un giorno non troppo lontano mi troverò a vivere in un paese piccolo, piccolissimo, magari in campagna. Qualcosa di simile a Montona, in Istria, o a Calvi, in Umbria, o chissà. Istria e Umbria si somigliano tanto, nella campagna, nella semplicità, nella ruvida accoglienza. Nella cristiana dedizione alla terra, e nella limpida spiritualità. Ecco: cercherei un paese antico e mezzo in rovina, e magari poco frequentato, bello disabitato. O forse basterebbe stare sotto un albero in una vecchia piazza che nessuno considera più, in una cittadina decaduta. Forse, sì. Così, davvero, mi piacerebbe pensare di servire a qualcosa, raccontando libri, raccontando scrittori, insegnando a leggere un libro a partire dalla copertina, dalle bandelle, dalla quarta, restituendo ordine a ciò che ordine più non ha, da un pezzo, e spesso nemmeno più senso. No?