Franco Cesati
2018
9788876677267
La rivoluzione basagliana, puntando sulla restituzione "collettiva e condivisa" dei manicomi, è stata, nelle parole della Guglielmi, "una macchina narrativa incentrata sui luoghi del manicomio che non si è mai arrestata", "coniugando il livello visivo a quello espressivo" con apprezzabile naturalezza. E allora: come e da chi è stato raccontato il manicomio, in Italia, dagli anni Sessanta ad oggi? Che significa che l'attività di Basaglia ha innescato un "meccanismo narrativo" che ha squarciato e illuminato i luoghi manicomiali, spazzando via la loro storica invisibilità, aprendo e trasformando luoghi altrimenti inequivocabilmente chiusi? A queste domande risponde il saggio "Raccontare il manicomio. La macchina narrativa di Basaglia fra parole e immagini" [Franco Cesati Editore, 2018; 184 pp., 28 euro]: uno studio pubblicato non per raccontare "la follia" ma "gli spazi di reclusione sociale", per cercare di decifrare con quale strategia diegetica è stato scardinato il "paradigma manicomiale", puntando soprattutto su quelle opere che hanno avuto più fortuna nel tempo, escludendo le testimonianze più individualistiche (Ottieri, Merini).
"Raccontare il manicomio" è un lavoro destinato a sintetizzare l'estetizzazione di luoghi e scene altrimenti, e da generazioni, chiusi al pubblico. Ovvi protagonisti di quel contesto: malati, psichiatri, medici, operatori. In copertina, ça va sans dire, uno scatto tratto dal famigerato "fototesto" "Morire di classe. La condizione manicomiale", epocale reportage di Carla Cerati e Gianni Berengo Bardin [Einaudi, 1968; 68 pp. non numerate], "oggetto culturale polisemico e ambivalente" diffusamente e profondamente analizzato nella prima parte del saggio.
Nell'introduzione, la professoressa Gugliemi va meditando sulla "ricezione sociale del folle" e sulla "rappresentazione della follia" nel corso dei secoli, ricordando ripetutamente i fondamentali studi di Foucault ("Storia della follia nell'età classica", "Spazi altri. I luoghi delle eterotopie") e considerando, con amarezza, quanto arbitrario, infondato e insensato fosse l'internamento dei cittadini, per diverse generazioni, e in che strutture imponenti (e inaccessibili) avvenisse; ribadisce che il suo saggio è dedicato alla "eterotopia inaccessibile dell'ospedale psichiatrico", riferendo che la narrazione di ciò che capitava nelle mura dei manicomi avveniva attraverso tre modalità: "il racconto professionale" di chi aveva accesso all'eterotopia perché ci lavorava o vi soggiornava, a vario titolo, con ruolo egemonico, come il gran rivale di Basaglia, la nemesi Mario Tobino; "il racconto testimoniale" di chi, ospite o comunque subalterno, restituiva le sue memorie, come Fabrizia Ramondino; "il racconto finzionale" di chi ricostruiva o immaginava quei luoghi. Naturalmente, l'ibridazione era possibile, da diversi punti di vista: un "racconto professionale" o "testimoniale" poteva tranquillamente includere elementi fictionali, sia nella letteratura che nel cinema che nelle manifestazioni politiche e artistiche, in genere.
Il saggio è suddiviso in due parti e un intermezzo. Nella parte prima, "Il manicomio raccontato", vengono ricordate inchieste giornalistiche di clamoroso impatto come "Manicomi come lager" [1966] di Angelo Del Boca, notevoli sinergie editoriali come la collana "Biblioteca di psichiatria e psicologia clinica" della Feltrinelli [1961], esperimenti di situazionismo come la gita aerea di medici e malati del 1975, da Ronchi ["Centro Trasvolatori dell'Ospedale Psichiatrico Provinciale"], filmata da Silvano Agosti; locandine-simbolo come l'autoritratto di Hugo Pratt come internato; documentari eccezionali come l'empatico "I giardini di Abele" [1969, Rai1] di Sergio Zavoli, che rivelavano, ad esempio, cosa significasse che i manicomi venissero costruiti sempre ai margini o meglio ai confini delle città, e quanto fosse naturale e pacifico intervistare i matti, e quanto giusto fosse interessarsi al malato più che alla malattia; e poi ancora film come "Nessuno o tutti" [1975] di Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, poi ridotto da tre ore a due ore e un quarto e ribattezzato "Matti da slegare"; naturalmente viene ricordato il celeberrimo "One Flew Over The Cuckoo's Nest", film di Forman [1975] e romanzo di Ken Kesey [1962], in cui "il pubblico era ammesso visivamente nell'eterotopia inaccessibile per assistere dall'interno del reparto alle diverse fasi di oggettivazione di McMurphy e di tutti i pazienti mediante un'ininterrotta e capillare azione di repressione e di violenza, unita alla pratica dell'elettroschock fino alla tragica perdita definitiva di coscienza e di volontà"; en passant, viene menzionato il recente "La pecora nera" [2010] di Ascanio Celestini, storia di un bambino cresciuto per caso in un ospedale psichiatrico e là rimasto segregato, "per inerzia, per malvolere o per ottusità"; verrà più ampiamente analizzato nella parte seconda del libro.
Passiamo all'intermezzo: in "Che cosa è un muro?", si analizza l'esperienza collettiva goriziana della costruzione di Marco Cavallo [1972-73], il grande cavallo di cartapesta divenuto iconico, incarnazione del "sogno di una cosa migliore" per Basaglia, qui riletto come "dispositivo narrativo che narra tanto quanto viene narrato e produce narrazioni" e come "oggetto transizionale" (Winnicott), una sorta di "proiezione mentale" per far oltrepassare il muro ai matti reclusi. Nelle parole della scrittrice Ramondino, Marco "era un cavallo aggiogato a un carretto che trasportava lungo i viali del san Giovanni la biancheria sporca e le vettovaglie. Eppure, nel ricordo di coloro che per decenni erano stati a guardarlo da dietro le sbarre, era un'immagine di libertà"; per la Guglielmi, "non solo rappresenterà l'animale salvato, ma diventerà contenitore di tutte le storie possibili, collocate simbolicamente negli oggetti che i malati inseriranno nella sua pancia cava".
Nella parte seconda del libro, "Raccontare gli spazi dall'interno", ci si concentra maggiormente su quella parte della rivoluzione basagliana che puntava, forte delle suggestioni di Foucault, a cambiare l'aspetto delle nostre città: vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici; cambiare la destinazione d'uso delle strutture esistenti e di quelle all'epoca in via di completamento; doveroso trasformare luoghi di repressione e reclusione in luoghi di accoglienza; opportuno riconoscere la decisiva relazione tra spazi e stati d'animo. La Guglielmi si concentra su diverse opere narrative e cinematografiche in cui le riflessioni basagliane sulla "contaminazione esistente tra spazio della reclusione e internati" vengono elaborate in diverse narrazioni. Si parte dalla nemesi di Basaglia, il dottor Tobino: l'autrice osserva quanto sia limpido lo "sguardo architettonico" del gran rivale della rivoluzione, che già scriveva nelle "Libere donne di Magliano" che "nel manicomio tutto si svolge tra i muri. È un castello", e accuratamente riferiva quanto fossero strette le celle delle internate, sostanzialmente dei carceri dalle pareti nude, ciascuna chiusa da un pesante portone, con pratico spioncino per poter monitorare il "paziente". Per la Guglielmi, due sono le istanze decisive alla sua concezione della malattia mentale: "in primo luogo, il manicomio è rappresentato come il contenitore silente, il testimone muto – con le sue mura e le sue celle – dei deliri della follia. In secondo luogo, esso rappresenta, per i sani, la difesa necessaria contro la violenza subdola del folle". Contrapposta a Tobino è la testimonianza di Fabrizia Ramondino "Passaggio a Trieste" [Einaudi, 1998]: il suo memoir dei due soggiorni nel Centro di Salute Mentale, completo di saggi rilievi sull'opportunità di armonizzare l'architettura dei luoghi con l'esperienza estetica di chi li abita; appassionanti le divagazioni sugli anti-luoghi di Antonio Villas. A ben guardare, manca, a questo punto, il vecchio esordio di Claudio Morici, "psicologo pentito", poi copy, romanziere e oggi performer: "Matti slegati" [Stampa Alternativa, 2003], a metà strada tra le posizioni tobiniane e quelle basagliane. È la cronaca di un deragliamento.
La Guglielmi passa poi ai "manicomi sullo schermo", al cinema: non poteva non essere nominato "La meglio gioventù" [2003] di Marco Tullio Giordana, scritto dai "soliti" Rulli e Petraglia; interessanti le annotazioni sul "biopic" basagliano "C'era una volta la città dei matti" [2010] di Marco Turco e sul meno riuscito "La pazza gioia" [2016] di Paolo Virzì.
Qualche cenno biobibliografico, per finire. L'autrice, Marina Guglielmi, insegna Teoria della Letteratura all'Università di Cagliari. Si occupa di intermedialità, psicanalisi, letteratura femminile ("Sorelle e sorellanza nella letteratura e nelle arti", 2017) e geocritica. Dirige la rivista digitale di comparatistica "Between". È figlia di una psicanalista: durante la sua infanzia, ha potuto osservare sua madre al lavoro in un manicomio infantile, qui a Roma: "Non ho mai dimenticato gli sguardi da lontano di quei miei coetanei in attesa di un contatto che restituisse loro una parvenza di affetto. Oggi che quel luogo non esiste più dedico a lei e a tutti quei bambini questo mio libro".
Gianfranco Franchi, febbraio 2019.
Prima pubblicazione: Alfabeta2.
Qui in versione leggermente più estesa.
Per approfondire: Fahre.
Uno studio pubblicato non per raccontare “la follia” ma “gli spazi di reclusione sociale”, per cercare di decifrare con quale strategia diegetica è stato scardinato il “paradigma manicomiale”, puntando soprattutto su quelle opere che hanno avuto più fortuna nel tempo…