Einaudi
1968
Sergio Corazzini è stato l’incarnazione reale del sogno ideale di Novalis: un divino fanciullo, vissuto nel contrasto insanabile tra l’eternità della poesia e la caducità dell’esistenza umana, malinconico e nostalgico e debole sin dalla prima abbacinante apparizione della consapevolezza. Nato a Roma in un’epoca, quella del tardo Ottocento, che seminava morti e sofferenze per malattie oggi sconfitte, fu sconfitto dalla tisi, appena ventunenne, minato dallo stesso morbo che aveva attanagliato la sua famiglia. Il male apparve precocemente, e fu cinico e spietato e veloce. L’instabilità e le difficoltà segnano il suo cammino poetico e biografico: giovane rampollo borghese d’una famiglia di ricchi commercianti, contemplò nel breve e folgorante suo percorso esistenziale la decadenza e la rovina del benessere dei Corazzini. E tuttavia, nonostante le ristrettezze economiche e le ancor più deteriori e degradanti prime avvisaglie del male sottile, il giovane poeta viveva di sogni di lancinante bellezza e di incandescente vitalità. Attorno a lui era radunato un gruppo di giovani artisti ed intellettuali, cultori appassionati del bello e del vero. La sua morte spezzò irrimediabilmente il cerchio sacro. Ci fu chi, come Alberto Tarchiani, si imbarcò per l’America, conscio di aver visto, distintamente, che “nulla rimaneva per me, se non l’esodo. E così fu”.
La morte del giovane e promettente divino fanciullo romano incrinò le speranze e i sogni di un’intera generazione di letterati. Un senso atroce, quello dell’esistenza di Corazzini, che ha tristi e sinistre analogie con l’esperienza biografica di Keats, l’uomo il cui nome era scritto nell’acqua, e Novalis, l’angelo della poesia tedesca, il poeta della notte e dell’amore bambino. Suggestiona inevitabilmente la distanza dai crepuscolari e da certi crepuscolarismi, e lascia invece perplesso il lettore moderno la presenza di qualche rima desueta e semplicistica. È opportuno ricordare a chiunque si stesse avvicinando alla fragile e ombrosa poesia di Corazzini che i suoi scritti presentano le pecche e le qualità indiscutibili di ogni giovane poeta; si respira un’energia e una passione letteraria che non hanno facile eco nei letterati più equilibrati, maturi e raffinati; quella perfezione sublime che è l’imperfezione, l’incompiutezza. Ecco, questa raccolta ha il segno divino dell’arte perfetta, perché destata da una sorgente limpida, dalla sorgente delle origini del sentimento: è un’incompiuta.
Esistenza incompiuta dunque, e disperata e consapevole e onirica, e poesia incompiuta, tenue, amara, vivida. Corazzini si erige a simbolo. Il simbolo della giovinezza della poesia, e del canto del poeta da giovane. Nella galleria dei Rimbaud, dei Keats, dei Novalis e, in ambito musicale, dei Curtis, dei Cobain, dei Drake, è presente il poeta degli asfodeli e della morte, e del canto innocente e ingenuo della bellezza del momento di splendore rappresentato dalla vita umana di un’anima intrisa di infinite reminiscenze di giustizia e amore e arte. Bisogna accostarsi a questa poesia come se si sedesse in un lago di cristalli di Boemia; ammirare la sua integrità e la sua vacuità, la sua oscura profondità e il suo nascosto sorriso di artista. Sorriso d’accettazione di quelle che appaiono le ingiuste e insanabili leggi non scritte dell’umanità: il perfido e irrevocabile rapimento della giovinezza, che significa segregare i sogni e affidarli alle tempeste del ricordo.
Corazzini dialoga incessantemente con la morte, e con la poesia: le richiama, le invoca, dichiara lucidamente la sua appartenenza ad entrambe, ma avviene che “Io, vedi, soffro molto, / e più soffro e più sento /che soffrirei; se ascolto // il mio vaneggiamento/ continuo, senza tregua, / senza un breve momento // di pace, e se dilegua / poi non so come, pare / che l’anima lo segua / oltre il cielo, oltre il mare” (“Dolore”).
Come in una tela di Friedrich, lo sguardo del poeta si fa infinito e catartico e puro nella contemplazione e nel soffocamento della natura. L’anima di Corazzini, come quella di Leopardi, riesce da uno spioncino di carta, da una siepe di inchiostro, a concretizzare la tensione all’infinito e alla verità dell’uomo. La chimera di Corazzini è l’arte, e l’attesa del sentimento nuovo e della rivelazione incompiuta. E allora è puro solipsismo il dialogare con l’anima:
“Anima pura come un’alba pura, / anima triste per i suoi destini, / anima prigioniera nei confini / come una bara nella sepoltura […] / non più rifioriranno i tuoi giardini / in questa vana primavera oscura”.
E, come nella splendida “Toblack”, saremo piccole fontane che piangono un pianto eternamente uguale; al passare di ogni funerale, il cielo consolerà l’epilogo inquieto del cammino di un uomo: “E quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile / e di perduto è in questa tua divina terra, / è in questo tuo sole inestinguibile, // è nelle tue terribili campane / è nelle tue monotone fontane, / Vita che piange, Morte che cammina”.
Le campane, il lamento, la nenia dell’umanità dolente che rifiuta la rivelazione del senso e del segreto: quel segreto e quel senso che Corazzini conoscerà, e già intuisce nella sua condizione di poeta dell’ombra e della coscienza dell’istante perfetto, e della malinconia di quanto è trascorso ed è perduto. La nostalgia dilaga, si innalza come un’onda di fuoco ed implode nella sua elevazione più grande; è hybris la volontà di esprimere ed esternare ciò che di divino si ha sentito, percepito, chiarito e disegnato nella propria mente.
L’anima invano si martora di sogni, scrive Corazzini; è la consapevolezza della quiete che tutto attende e tutti reclama a dover essere conquistata. “Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta? // Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. / Le mie gioie furono semplici, / semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei. / Oggi io penso a morire”.
Corazzini canta la sua natura: non saper che morire, e vivere di piccole gioie ineffabili. Quelle piccole gioie che provoca nell’anima l’angelica voce della poesia, e il desolato rimpianto per il suo figlio più innocente. Poggiamo un fiore sul fiore della poesia del primo Novecento: l’angelo di sabbia liberato dalla vita. Quelle campane, come nelle “Onde del Destino”, dal cielo improvvisamente echeggiano. Ascoltatene la musica: è un verso spezzato dalla coscienza della sua perfezione.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Sergio Corazzini (Roma, 1886 – Roma, 1907), poeta italiano.
Sergio Corazzini, “Poesie edite e inedite”, Einaudi, Torino, 1968. A cura di Stefano Jacomuzzi.
Gianfranco Franchi, febbraio 2002.
Prima pubblicazione: Ciao.com. A ruota, Lankelot.