Rizzoli
1977
9788817121323
Nel primo Novecento assistiamo alla collisione tra il cammino di chi decide di consacrare la propria esistenza all’arte e il cammino di chi aderisce pacificamente ai valori borghesi della società. La collisione, col trascorrere dei decenni, si fa sempre più aspra e stridente: ad un osservatore esterno appare la visione di una scissione. Dalla frattura insolubile dei due mondi, nei decenni iniziali del secolo, sorge per qualche tempo un’isola. Il popolo di quest’isola è consapevole di essere destinato ad un respiro breve, e si ostina tuttavia a resistere, a innalzare il proprio canto, ammettendo e invocando a tratti la morte, e vivendo ogni sentimento con una disperata e commovente intensità. L’isola vive in una dimensione crepuscolare, dove le sensazioni si increspano e crepitano in una combustione che non risparmia la vita degli abitanti dell’isola, ma sprigiona come per incanto frammenti di poesia perfetta, e echi d’un Verbo che pare esser prossimo ad inabissarsi con quel che rimane del tempo passato.
Questa poesia è la poesia delle “Farfalle” di Guido Gozzano: adorazione della bellezza, e rimpianto per la caducità dell’esistenza; canto della dolcezza della piccola borghesia, delle sue umanissime contraddizioni, e dei suoi emblemi, nati privi di vita. Canto di parole che sorgono da memorie popolari, e al popolo sembrano destinate a tornare: in versi totalmente comprensibili e privi di qualsiasi traccia d’ermetismo, scevri da qualunque esasperazione intellettualistica e tuttavia raffinati e sofisticati nella severa attestazione dell’eternità dell’arte.
Gozzano assimila il senso dei versi di Mimnermo e di D’Annunzio; non ripudia, come poteva essere prevedibile per chi spogliava la poesia di D’Annunzio dei barocchismi e degli eccessi ornamentali, il misticismo. E in una lettera ad un amico, ad un amico prossimo a ordinarsi sacerdote, appena ventenne spiega, con una maturità e una consapevolezza che appartengono solo a chi sa di voler combattere e sconfiggere la morte con l’eternità del proprio canto, che il cammino di ricerca letteraria è intriso di una spiritualità irrefutabile, ed immensa. Pagine impregnate di paganesimo, come quelle dell’allora popolare D’Annunzio, e pagine sacre come quelle di Francesco d’Assisi o di Caterina da Siena hanno in comune un riflesso: e quel riflesso è ciò che preesisteva alla creazione del mondo: il Verbo.
L’opera poetica di Guido Gozzano, si diceva, è allora elegiaca poesia piccolo borghese; la ribellione dell’artista, la cui ricerca viene rifiutata e travisata dalla società, che perlopiù ne saluta l’effimera e superflua consistenza, si circoscrive in questa circostanza ad una adesione al sistema di oggetti, segni e significati della società stessa: il poeta stesso diviene una creatura che eroicamente afferma la propria umanità in un mondo che si appresta a disumanizzarsi, e il nostro potrà scrivere, nella “Via del Rifugio”: “Ma dunque esisto! O strano! / vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!”
Questa strofa mi sembra particolarmente importante per introdurre alla dimensione lirica del Gozzano. Al di là del tono ironico, o paradossale, che nel nostro secolo erediteranno con alterne fortune Luciano Erba e Alberto Arbasino, e della ahimè allora poco discussa presenza della rima, che lascia sempre la sensazione di una semplificazione semantica, mi preme sottolineare due aspetti: schiaccia di dolore e provoca fastidio l’ultimo verso, quella riduzione dell’artista ad un nome scritto in caratteri minuscoli, una dichiarazione di minimalismo e di pietosa reificazione, annunciata dalla definizione “cosa vivente”, e stimola all’opposto alla speranza e alla fiducia nella lucidità dell’artista la consapevolezza di “vivere tra il Tutto e il Niente”.
Considereremo più avanti l’essenzialità di questa dicotomia, scoprendo nel “nihil” del Gozzano una sintesi suprema di vita e morte. Per adesso limitiamoci a salutare la piena consapevolezza di quella posizione che certe frange critiche ritennero “crepuscolare”, proprio in questo passo.
Più avanti, nello stesso testo, Gozzano esterna ed esemplifica quale e quanto grande sia la propria lucidità e la coscienza di sé, in una strofa che potremmo senza esitazioni salutare come programmatica. Ne riporto il frammento essenziale: “Non agogno / che la virtù del sogno: / l’inconsapevolezza”.
Il poeta dunque non desidera, né brama: ma agogna. Il verbo implica una violenza che oltrepassa i limiti del consueto desiderio: lo travalica, lo sublima, lo esaspera. Agognare dunque, questa esplosione aspra nelle mandibole, questa sprezzante richiesta a denti stretti, così amara e distante dall’autoironia della strofa appena citata. Agognare è parola che va fatta schioccare, va fatta rombare: suona bassa e grave, come una lapide che precipita dall’alto di un monte in terra. E cos’è che l’allora giovanissimo Gozzano agogna così intensamente? L’incoscienza, l’inconsapevolezza. L’annullamento di se stesso: quella reificazione che scopriamo così fittizia e letteraria, calembour appunto piccolo borghese, finalmente demistificata da questi versi.
Gozzano ammette d’essere maledetto e dannato: ogni ricercatore è condannato, antica tracotanza prometeica ripudiata dagli dei, forse; o sorte orfica, di conoscenza e controllo d’una bellezza che incanta gli inferi, ma non restituisce che l’ombra dell’esistenza. Agogno la virtù del sogno: l’inconsapevolezza. L’irrealtà, allora, o la pseudo realtà, diremmo oggi la “realtà virtuale”; l’oblio delle regole e delle leggi del sistema, l’oblio di se stessi. Drammatico.
Nella poesia “il Responso” scopriamo, svelata in un distico, l’ennesima contraddizione della realtà che il poeta crepuscolare canta: l’artificiosità dei nuovi conformismi e delle nuove norme è tale, da costringerlo a scrivere: “Ah! Se potessi amare! Vi giuro, non ho amato / ancora: il mio passato è di menzogne amare”.
Il sistema ha sconsacrato il poeta. L’anima s’è inaridita: il poeta è “quella cosa vivente”, ed ecco l’annichilimento dei sentimenti e delle sensazioni; solo il rifugio dell’arte rimane, e dell’ascolto impassibile e improvvisamente estatico del canto del verbo. La realtà è preclusa a chi vive d’arte: la sua realtà diviene la menzogna, la privazione dell’innocenza e dell’amore. L’artista può, come in “Nemesi”, allora, “ingannare la tristezza/con qualche bella favola”: consolazione dunque, e rassegnata accettazione di un sentiero che è parallelo alla vita reale, ma irrimediabilmente distante. La vita, come ne “I colloqui”, è vissuta da un misterioso fratello: l’ombra del poeta. Ed ecco la strofa finale, eccelsa illustrazione della negazione della vita: “Non vissi. Muto sulle mute carte / ritrassi lui, meravigliando spesso. / Non vivo. Solo, gelido, in disparte, / sorrido e guardo vivere me stesso”.
Addio dunque alla reificazione: qui si giunge ad un congelamento delle sensazioni, ad una morte in vita, all’effetto più tragico del sortilegio: solitudine, freddo, isolamento, astrazione da se stessi. Svaniscono sensazioni e sentimenti, la parola scritta, l’eco del verbo, si nutre avidamente di vita. E così, come in Corazzini, appare un pudore che sa farsi vergogna: si agognerebbe, per tornare al verbo puro del Gozzano, non esser poeti, non esser nati per la poesia. Gozzano va oltre: si approssima la morte, “la signora vestita di nulla”, la sua malattia che lo libera dal maleficio e dai dogmi della coesistenza borghese, e dal rischio dell’atroce reificazione; una malattia che esprime al massimo grado il cigolio delle catene spezzate nel tempo dal poeta, che vi trova rifugio ed espressione e si emancipa dal sistema. Rimane tempo per la passione per la piccola e semplice signorina Felicita; un gioco, il diletto di prefigurare la consegna dell’inerme spirito dell’artista alla borghesia, e quindi l’assunzione nella dimensione del sogno, sorridendo della sfiorata congiunzione dei due mondi.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE:
Guido Gozzano (Torino, 1883 – Torino, 1916), poeta e favolista italiano.
La vita di Guido Gozzano sarà minata e condannata, per una tragica coincidenza, dal male sottile che rapì il tenue poeta romano, suo contemporaneo, Sergio Corazzini. Poeta piemontese di estrazione medio-alto borghese, allievo di Graf, rifiuterà, da prassi biografica dei letterati, di laurearsi in Giurisprudenza preferendo frequentare da esterno la facoltà di Lettere. Come avvenne per Keats, i medici tentarono di guarirlo dal terribile male invitandolo a viaggiare in una zona dal clima propizio alla guarigione: se il poeta della Belle Dame Sans Merci, tuttavia, viaggiò alla volta del clima mediterraneo, trasferendosi a Roma, il poeta della Via del Rifugio navigò alla volta dell’India. La maggior parte dei testi scritti durante il viaggio vennero bruciati dall’autore; quanto ne rimane esprime l’influenza esercitata dal fascino e dalla suggestione esotica della cultura orientale. Gozzano incontrò fortuna editoriale, nel corso della breve vita: la prima raccolta, “La via del Rifugio”, apparve nel 1907, mentre l’autore era appena ventiquattrenne; la seconda, intitolata “I Colloqui”, fu pubblicata dalla prestigiosa Treves di Milano nel 1911. La maggior parte delle liriche dedicate alle farfalle appartengono all’ultima parte della sua carriera.
Guido Gozzano, “Poesie”, Bur, Milano, 1995. Introduzione e note a cura di Giorgio Barberi Squarotti.
Gianfranco Franchi, maggio del 2002.
Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, Lankelot.