A sessant’anni e poco più dalla fine dello spaventoso esodo che ha svuotato le due piccole città, e i tanti borghi e i tanti paesi istriani dalla totalità o dalla maggioranza assoluta della popolazione, il paesaggio istriano non smette di raccontare la ferita dell’innaturale distacco della popolazione autoctona, sparpagliata in una drammatica diaspora in tante e diverse parti del mondo, dal Canada all’Australia, dall’Italia superstite al Sudafrica. A raccontare con disarmante crudezza l’irrimediabile accaduto sono soprattutto le campagne: quello che un tempo era il borgo di riferimento per buona parte del contado, cioè Portole, è forse quello più disastrosamente vicino a un borgo fantasma: sembra abitato da figuranti, o da comparse svogliate; saranno poche decine di unità, forse un centinaio, contro le svariate migliaia degli ultimi due secoli. S’entra, costeggiata la loggia veneziana, in una ghost town veneziana: là dove era la semplice e onesta vita dei figli del popolo non rimane che polvere e ruggine, le case deserte di vita sono state lasciate andare alle intemperie, e quando il tetto non ha ceduto di schianto, agevolando la fatiscenza, sono state prima le finestre o le porte a cedere, e le facciate, e le vecchie gronde. Si scende per le scale di quella che un tempo era la piazza principale del paese, là dove c’è la chiesa: si scende per le scale, giù, e fatti trenta passi si incontrano palazzi e vecchi edifici nascosti da una vegetazione invincibile, imprevedibilmente sopraffatti dalla natura. La strada, a un tratto, finisce, senza più grazia e senza più senso, perché ingombra di erbacce e di calcinacci. Si va per il borgo, tra case in rovina e altre faticosamente restaurate, per lo più da una minoranza di nuovi coloni spediti, a suo tempo, da queste parti dalle logiche bizzarre dell’amministrazione titina: là dove era la splendida fatica della vita dei contadini ora sono i volti allucinati dei forestieri, e degli estranei, figli o forse nipoti di gente spedita da lontano a ripopolare la terra appena conquistata. Si esce dal borgo e ci si ritrova a guardare il panorama da quello che un tempo doveva essere un balcone d’eccezione, venerato dai paesani e apprezzato dai viandanti, simile ai balconi della nostra Umbria; là, un grottesco moncone di un vecchio pilo portabandiera veneziano, con una lapide abrasa, ci racconta che non troppi anni fa la storia si poteva raccontare ancora, con diversa e migliore fortuna.
Nei dintorni di Portole ci sono scenari forse più lunari, e lancinanti: come quello del vecchio villaggio di Cuberton, abitato oggi da una o due famiglie di poche unità di persone, un tempo paesotto con la sua chiesa, la sua piazza, il suo cimitero, i suoi stupendi e faticosi campi, le sue tante case. Cuberton è oggi un luogo da meditazione sul senso della vita e delle cose degli esseri umani, una meta sciamanica, raggiungibile per lo più per strade sterrate, isolata su una collinetta; la wilderness s’è già portata via l’aspetto del paese, camminare per i viottoli e i sentieri superstiti è difficile anche se ti accompagna una figlia dell’esodo, una che ha fatto in tempo a essere bambina e a imparare il dialetto, per sempre, prima di finire profuga a Trieste – anzi: a Padriciano, in Carso, là dove, paradosso dei paradossi, i nostri profughi finivano per ritrovarsi circondati dall’antagonista presenza slovena. L’alternativa a questo scenario malinconico della campagna istriana, che non può non strappare sospiri ai figli, ai nipoti e ai pronipoti degli esuli, e ammutolire fino al torpore i vecchi esuli ancora superstiti, è la reinvenzione dei paesi, in salsa artistoide: chi conosce le vicende d’antan di Calcata, nel viterbese, riconosce una simile impronta nella nuova vita del borgo veneziano di Grisignana, seducente borgo di pietra, vecchio accampamento e vecchia roccaforte della gente nostra; adesso è una sorta di paesotto degli artisti, sulla carta “cosmopolita”, ogni tanto c’è una rassegna musicale o artigianale di discreto ritorno, almeno nei paraggi, e per il resto della cultura millenaria passata non rimangono che l’architettura e il respiro delle strade, a parlare per bene, a raccontare quello che è successo.
Non troppo distante c’è Montona, altro borgo andato deserto della totalità della popolazione originaria, autoctona: dopo un periodo di disastroso abbandono e di crolli e di fatiscenza, adesso ospita periodicamente eventi o rassegne che finiscono per dargli un tono addirittura vivace, almeno la domenica. È forse il paese dell’entroterra istriano che mostra, nonostante qualche restauro assassino e nonostante l’inevitabile freddezza dei nuovi coloni nei confronti del passato veneziano e latino, la sua originaria fratellanza con la campagna umbra o toscana: sta là, orgoglioso e imprendibile, su un monticello, a dominare una vallata; ai suoi piedi, lungo il fiume Quieto, c’è quella che un tempo Venezia chiamava “Foresta di san Marco”; andando per il borgo, superstiti al massacro degli scalpelli, ruggiscono chiari segni della Serenissima. L’aria è buona, e il panorama apre il cuore. Profondamente.
Sulla costa occidentale istriana, quella che forse nessuno degli ex jugoslavi si sarebbe mai potuto sognare di slavizzare, i risultati sono diversi; prima di tutto perché appare diversamente riabitata, o in qualche caso, come Rovigno, ancora abitata da una rispettabile minoranza di autoctoni, o di loro discendenti; elemento questo che ha garantito, nel caso della cittadina di Ligio Zanini, una diversa continuità col passato, nel dialetto e in qualche istituto storico.
I disastri peggiori sono nelle cittadine considerate, un tempo, “gemma dell’Istria”, come Capodistria: quella che chiamavano “Atene dell’Istria” è oggi prigioniera di uno squallido e anonimo megamagazzino sloveno, e da dolce porticciolo è diventata modesto ma aggressivo scalo di una nazione piccolissima che un giorno ha preteso un corridoio e un accesso al mare: esteticamente è irriconoscibile, la città vecchia è circondata dal cemento e dalla plastica oscena del Novecento, è come se Capodistria fosse sfigurata – e non ci sarà nessuna medicina e nessuna chirurgia e nessuna magia per riportarla indietro. Quando si trova, non senza stupore, una viuzza d’accesso alla città vecchia, alla vera Capodistria oggi prigioniera di Koper, lo sguardo si riempie di emozione, e di colori mediterranei; la vecchia Piazza del Duomo è mozzafiato, col Palazzo Pretorio e la Loggia, ed è estraniante non sentire più nessuno parlare in istroveneto, è imbarazzante, e sconfortante.
Isola d’Istria, subito dopo, è un paesetto senz’anima, penalizzato dai soliti restauri criminali, e dalle colate di cemento che hanno finito per nascondere o umiliare la pietra originaria. Pirano ha mantenuto la sua grazia veneziana perché i nuovi amministratori hanno distrutto la sua vecchia baia, la baia di Portorose, trasformandola in una terrificante passeggiata turistica, tutta alberghi e centri benessere, e accompagnando la fondazione del nuovo, sfavillante borgo turistico con abbondante edificazione di case, alberghi e casupole, e ristoranti e buffet di ogni ordine e grado. Perché è successo tutto questo?
L’ultimo direttore del glorioso quotidiano “L’Arena di Pola”, il socialista Guido Miglia, spiegava, nei suoi fondamentali “Bozzetti istriani” [1967], che “coloro che avevano il potere non hanno saputo distinguere ciò che era difendibile da ciò che in qualunque caso si doveva perdere: non hanno saputo distinguere un’Istria veneta da un’Istria slava: per confondere questa con quella, abbiamo perduto tutto, e non ci siamo quasi accorti di ciò che stavamo perdendo. Coloro invece che hanno capito la propria sorte, cioè gli abitanti dei luoghi sacrificati, hanno lasciato ogni cosa più cara, ed hanno ricominciato tutto da capo, in un silenzio doloroso”. E ancora, sempre Guido Miglia, sempre nel 1967 spiegava: “Oggi poco è rimasto di quanto noi abbiamo lasciato, e quel poco tende a diventare un mito nella nostra fantasia: eppure sembra giusto tramandarlo così anche ai nostri figli, che molte volte non possono comprendere, perché essi stanno formandosi altrove, e non sanno la spina dei loro padri”.
Sarebbe forse bastato poco per evitare un simile, a volte irreparabile disastro: sarebbe bastato che il socialismo propagandato dalla nuova amministrazione fosse stato quello dell’utopia originaria, e quindi davvero fraterno, solidale e rispettoso di ogni diversità, come un cristianesimo nuovissimo. Sarebbe bastato che nessuno dimenticasse che l’Istria non era e non poteva diventare parte di una nazione chiamata “Jugoslavia”, perché l’elemento slavo, in Istria, era storicamente minoritario, se non in qualche campagna e nel paese di Fontane, e di Pisino: l’Istria doveva e poteva diventare qualcosa d’altro, una nazione cuscinetto, autonoma, multietnica e multiculturale, e tuttavia capace di restare fedele alla sua storia, ai suoi toponimi, al suo dialetto. Oggi, chi viene da sangue istriano torna nella terra degli antenati come un pellegrino: si va in una terra santa, a pregare e piangere quel che è stato, a difenderlo e tutelarlo, almeno nella memoria. E nel sogno.
Gianfranco Franchi, marzo 2015
Prima pubblicazione: rivista Galatea