Ilisso
2003
9788887825572
“Se esiste una parola per dire i sentimenti dei Sardi nei millenni di isolamento tra nuraghe e bronzetti forse è felicità. Passavamo sulla terra leggeri come acqua, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia tra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenti verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta” (p. 24).
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Dai mitici S'ard, “danzatori delle stelle” orientali, sino alla sconfitta per mano d'Aragona (1409): tutta la leggenda e la storia del nobile popolo sardo nelle parole di un artista grande e sfortunato come Atzeni, raccontate – nella finzione letteraria – da un bambino cresciuto tenendo tutto in memoria, per trentaquattro anni, erede dei segreti del custode del tempo Antonio Setzu. Sono pagine giocate per brevi frammenti, singhiozzi, bozzetti; epiche e spezzettate, rapsodiche ed elegiache al contempo. Si parte dalle più remote profondità del tempo. Dai giorni in cui un misterioso popolo, esule dalla sua patria, approdò nell'isola che per sempre lo avrebbe ospitato. Ventuno sopravvivemmo, canta Atzeni, “e dovemmo imparare a coltivare i frutti e le erbe, a catturare e mungere le pecore e le capre. (…) Non dimenticammo i numeri. Confondemmo le distanze, forse. La conoscenza si fermò. Smettemmo d'essere sacerdoti” (p. 16). E da quei ventuno la popolazione crebbe sin quando non furono ventuno i villaggi, e per “ogni gente le altre venti erano estranee o nemiche” (p. 16).
“Eravamo gente alta e stando nell'isola siamo diventati piccoli perché tutto trapiantato nelle isole di questo mare diventa più piccolo, più scuro, più gustoso? O gente piccola già in origine? Piccoli di statura, scuri di pelle, abituati a pensare, ragionare, contare, mai concordi fra noi. Così siamo tuttora, fatti salvi gli imbecilli che non mancano e nessuna legge potrà mai limitare” (p. 14).
E quando, moltiplicandosi in numero e valore, le genti dei villaggi si massacravano almeno una volta l'anno, il saggio Umur disse: “Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori” (p. 23). Cantare, suonare – scrive Atzeni – coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare danzare era la loro vita. Vennero i Fenici, parlavano una lingua amica e chiedevano cooperazione: ne derivò amicizia. I nuovi ospiti non volevano guerre, erano pochi e la ricchezza era la loro unica passione; fondarono un villaggio, Kar Ale, e prosperarono.
Nel Nord dell'isola – e nella Corsica, che si giurava fosse disabitata – vennero gli Etruschi, in fuga dai Romani. Come i Fenici, portarono nuovi dèi. Ma assieme, portarono l'angoscia e la paura per l'avvento degli aggressivi Figli della Lupa; già Puni e Liguri li avevano messi in guardia. Invano. I Romani conquistarono Karale, fecero tanti schiavi e massacrarono donne e bambini. “Mille anni di guerra, disse Antonio Setzu. Questo furono per noi i Romani. Mille anni di guerra” (p. 52). Non quotidiana. I Sardi furono sul punto di vincerli.
“Apparve Amsicora. Vagava per i villaggi. Diceva di essere della gente di Mu e cresciuto a Roma, per questo aveva nome Romano. Diceva che era il momento di attaccare Karale per espugnarla (…). Tre genti lo raggiunsero” (p. 52). Qualcuno pensava fosse un impostore. Venne comunque sconfitto. Venne Uomo, ribattezzato Lucifero da qualcuno a Roma, per insegnare la storia di Gesù; e da allora i Sardi si riconobbero nella sua parola. Sempre combatterono contro il morbo nero, la malaria, che falciava la popopolazione di Karale.
“Dobbiamo la sopravvivenza in libertà a tutti i barbari che trovi nei libri di storia: goti, burgundi, celti, germani, unni, vandali e tutti i popoli che attaccarono l'impero prima mettendolo in ginocchio poi atterrandolo e infine distruggendolo, dando fine alla nostra guerra millenaria. Facemmo la nostra parte non cedendo il cuore dell'isola” (p. 81).
Romani e Bizantini maledivano le febbri di Karale e le incursioni dei briganti: gli storici savoiardi cercarono di sporcare la storia. “Tentavano di spezzare il filo che lega la sovranità dei sardi alla terra dei sardi; volevano dimostrare che quella sovra nità era stata perduta più e più volte, fin da epoche antichissime; volevano dimostrare ch'eravamo 'terra dell'impero', era l'unico elemento che giustificasse, secondo una distorta concezione del diritto, l'usurpazione savoiarda del titolo di re di Sardegna” (p. 90).
Sostiene Atzeni che tutto finisca con l'avvento degli Aragonesi, quando Karale diventa Caglié, e quando scompare la civiltà fondata sui giudici; da quel momento in avanti, l'indipendenza sarda si colora di un'autonomia che suona come servitù, o si tinge di sconfitta. L'orgoglio e la storia non mutano, e la speranza di restituire linfa e senso alla perduta leggenda del popolo dei danzatori delle stelle non conosce termine.
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Ultimo romanzo di Sergio Atzeni, concluso nell'agosto del 1995, una manciata di giorni prima della morte dell'artista nel mare dell'isola di San Pietro, “Passavamo sulla terra leggeri” è un congedo doloroso, e toccante: un lascito testamentario di uno scrittore intenso, lirico e massimalista, dedicato e rivolto a tutti gli intellettuali e i letterati isolani. Nella mia biblioteca capitolina, andrà idealmente ad affiancare Cambosu (“Miele amaro”) e l'Iliade e l'Odissea in limba sarda. Onore al popolo sardo, e ai suoi poeti.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Sergio Atzeni (Capoterra, 1952 – Isola di S. Pietro, 1995), scrittore sardo.
Sergio Atzeni, “Passavamo sulla terra leggeri”, Ilisso, Nuoro, 2003. Collana “Scrittori di Sardegna”, 7. Nota introduttiva di Giovanna Cerina.
Prima edizione: Mondadori, 1996.
Gianfranco Franchi, luglio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.