TEA
2002
9788850201853
Baltasar Gracián y Morales, gesuita, trattatista di chiara fama nel primo Seicento spagnolo. Il testo che ci apprestiamo ad affrontare fu quello che destinò al suo autore maggiore successo e fortuna; in Italia, le prime traduzioni videro la luce per mano di un anonimo, in Parma, nel 1670. L’opera conobbe ottima diffusione durante l’Illuminismo (sono attestate numerose traduzioni in tutta Europa), in epoca di accesi, rinnovati interessi per gli aspetti filosofici del trattato: oltre l’epoca illuminista, vale la pena ricordare il successo della traduzione tedesca curata da Schopenhauer.
L’“Oracolo” venne pubblicato per la prima volta nel 1647. Il titolo originario dell’opera era decisamente più articolato: “Oracolo manuale e arte di prudenza, tratta dagli aforismi che si trovano nelle opere di Baltasar Gracián”; tuttavia, il curatore dell’edizione italiana pubblicata nel 1986, Antonio Gasparetti, ci assicura che le trecento massime o aforismi presenti nel testo non sempre provengono dai testi precedenti, provvedendo puntualmente ad espungere la seconda parte del titolo dell’opera – esattamente come fece il suo predecessore nel 1670. Non sono sottovalutabili, tuttavia, i frequenti richiami all’ “Eroe” (pubblicato nel 1636) e al “Saggio” (1646): a testimonianza della viva affinità tra queste opere, le non sporadiche loro aggregazioni in ristampe successive al 1873.
L’“Oracolo” è un manuale etico volto ad esaltare l’importanza della prudenza e della disciplina sociale: ma non solo in questo aspetto è prossimo alla di poco antecedente “Dissimulazione Onesta”. Per una curiosa analogia biografica, infatti, l’autore fu protetto, in un delicato frangente della sua esistenza, da un nobile appartenente alla casata dei Carafa, il viceré di Aragona e Duca di Nocera Francesco. Le difficoltà principali, nella carriera letteraria del Gracián, furono legate ai dissapori e alle incomprensioni con la Compagnia dei Gesuiti: parrebbe ciò sia avvenuto per la mai domandata approvazione alla pubblicazione dei libri, contrariamente alla prassi vigente nella Compagnia. Non è difficile, ciononostante, risalire ai conflitti politici che frequentemente il letterato dovette affrontare: gli equilibri di potere all’interno dei Gesuiti erano assai fragili, e in più di un’opera Gracián aveva criticato l’opposta fazione. Questo suo inno alla prudenza, dunque, non stupisca: il contesto sociale pretendeva un atteggiamento di questa natura. La terza massima del libro esplicita quanto si andava dicendo: “Il silenzio prudente e cauto è il santuario della saggezza”.
La menzogna è saltuariamente presente in questo testo: talvolta è nitidamente chiamata in causa, altre volte si assiste ad un faticoso tentativo di alludervi senza nominarla. La prima attestazione interessante è quella del tredicesimo aforisma, intitolato: “Operare intenzionalmente, sia con franchezza, sia con doppiezza”. “Milizia è la vita dell’uomo, contro la malizia dell’uomo. La sagacia si batte con ben studiati stratagemmi: non agisce mai nel modo previsto; accenna, sì, un movimento, ma solo per trarre in inganno; abbozza destramente un gesto in aria, e opera poi in un’impensata realtà, sempre attenta a smentire l’intenzione mostrata. Accenna un proposito […] poi subito fa tutto l’opposto, riuscendo vincitrice per la sorpresa che suscita”. Finalmente, più avanti, intravediamo una strada per scoprire le reali intenzioni di un uomo malizioso: “La penetrante intelligenza la previene stando all’erta; la spia con cautela; capisce sempre il contrario di quel che la sagacia vorrebbe farle intendere, e s’accorge subito di qualsiasi tentativo d’inganno” (p. 39, massima 13).
Sembra di assistere ad uno scontro strategico, ad una lento, intenso, complicato confronto scacchistico. Le strategie sanno essere ambigue oltre ogni limite, perché: “La simulazione s’accresce nel vedere sventato il primo artificio, e la sagacia tenta di trarre in inganno con la verità medesima (…), fa un artificio della stessa franchezza, fondando la propria furberia sul più grande dei candori” (frammento tratto ancora dalla 13° massima).
Gracián sembra, infine, persuaso che l’intelligenza sappia sventare gli artifici e gli inganni: onestamente, la possibilità che l’inganno conosca il travestimento supremo della “verità” sembra contraddirlo. Insisterà, comunque, nella venticinquesima massima, nel sostenere che il saggio è il “buon intenditore” e che le verità “che più ci importano ci vengono sempre dette a mezza bocca: chi è perspicace le colga a volo e le intenda”.
Assolutamente eloquente è l’ottantesima voce, Attenzione ad essere informati. “Ciò che possiamo vedere noi stessi è il meno; per la maggior parte delle cose, ci si avvale di informazioni: viviamo sull’altrui buona fede. L’orecchio è la seconda porta della verità, ma è la porta principale della menzogna. Di solito la verità è quella che si vede, e solo in via eccezionale la si ascolta(…) sempre porta seco qualche impurità raccolta dagli affetti attraverso i quali è passata. (…) La riflessione serve a respingere il falso”. Poteva essere interessante, qualora Gracián fosse stato nostro contemporaneo, conoscere il suo parere sulla veridicità di ciò che si vede: a partire dalle illusorie velleità realistiche di certi movimenti artistici, sino a certe costruzioni filmiche, cinematografiche o televisive, spacciate per documenti ufficiali. Verosimilmente avrebbe insistito sul ruolo della riflessione e sull’acume dell’intelligenza: ma avrebbe dovuto almeno appaiare la vista all’udito, come porta principale della menzogna. Se è comprensibile e giustificabile, allora, la sua sfiducia seicentesca nell’integrità della comunicazione verbale, a noi contemporanei spetta logicamente ampliare le ragioni della sua sfiducia, dacché godiamo di nuove tecnologie e di un nuovo sistema culturale. Apro una breve parentesi per segnalare un’interessante epifania della menzogna in un’opera coeva a questo “Oracolo”: Il Tartuffo di Molière (1664): singolare, soprattutto, perché ad imporre una “verità menzognera”, come vedremo, non è il protagonista, l’impostore Tartuffo, ma il suo ospite. Ecco il frammento: Orgone, il padre, ha convocato una delle figlie, Marianna, per una comunicazione segreta. Desidera che lei dichiari di voler sposare Tartuffo.
“O:Che cosa pensi tu di Tartuffo, il nostro ospite? M: Chi, io?O: Tu, sì, Sta attenta a come rispondi. M: Ahimè, dirò di lui tutto quel che vorrete. O: Questo è parlare giusto. Mi dirai dunque, figlia mia, che tutto in lui risplende di altissimo merito, che ti ha toccato il cuore, e che ti sarebbe gradito vederlo scelto da me per tuo marito. Eh? M: Eh? O: Che c’è?M: Scusate? O: Che cosa? M: Ho capito male? O: Come? M: Chi dovrei dire, padre mio, che mi ha toccato il cuore, e che mi sarebbe gradito veder scelto da voi per mio marito? O: Tartuffo. M: Ma non è assolutamente vero, papà, ve lo giuro. Perché dovrei dire una bugia come questa? O: Ma io voglio che sia la verità: e a te deve bastare che io così abbia deciso”.
In questo frangente, assistiamo ad una contrattazione di una nuova verità: l’autorità paterna si impone. Al di là dell’esito della vicenda nell’opera del Molière, questo frammento mi sembra di grande interesse come dimostrazione d’una imposizione d’una verità artefatta mediante un dialogo: senza nessuna dissimulazione, Orgone intima alla figlia di asserire il falso per assecondare la sua volontà; sebbene afflitta, inizialmente almeno Marianna sembrerà arrendersi all’ordine dell’autorità. La memoria riporta ad una scena ambientata in una pregevole opera di fantascienza novecentesca: ad uno degli interrogatori di “1984” di George Orwell. Non avveniva forse che mediante tortura il protagonista fosse costretto ad affermare che “a volte due più due fa cinque”? Il principio è il medesimo. La letteratura testimonia che un’autorità, in differenti contesti e in differente veste, può imporre la sua verità, pur ammettendo e addirittura riconoscendo che sia una menzogna. Chiudo il breve inciso e torno ad analizzare il trattato di Baltasar Gracián.
Emblematica questa sua definizione della verità, nella voce centoquarantaseiesima: “La verità giunge sempre tardi e per ultima, zoppicando a fianco del tempo: chi è saggio le riserva una metà del senso dell’udito, che la natura ha opportunamente diviso in un doppio organo”. Procediamo: la doppiezza, gli artifici e gli inganni si direbbero talvolta necessari per vivere serenamente, allorché leggiamo nel diciassettesimo aforisma, Mutar modo nell’operare: “Non si deve agire sempre ad un modo (…) né si deve agire sempre con franchezza (…) né si deve agire sempre con doppiezza, perché dopo la seconda volta avranno scoperto il trucco”. Il bugiardo, una volta riconosciuto come tale, soffre infatti di due mali: non crede, e non è creduto (154°).
Dunque, l’uomo deve essere un astuto giocatore: sapere simulare e dissimulare al contempo, studiando con grande attenzione i propri avversari. Sembra sgretolata l’idea della coerenza e della idealistica strenua difesa della verità: nei rapporti umani, un atteggiamento di invariabile franchezza o di invariabile doppiezza è destinato a fallire. Colui che costantemente si batterà per la verità, giudicherà tradimento la dissimulazione: ma a costo di scontrarsi con “l’amicizia, il potere, perfino la propria convenienza” (29°). Del resto, (43°) la verità “appartiene a pochi e l’errore invece è comune e diffuso”. La saggezza più pratica, allora, è quella suggerita dall’Accetto: saper dissimulare (98°). Nella centottantunesima massima, intitolata “Pur senza mentire, non dire tutta la verità”, Gracián svela la sua posizione: “Non c’è cosa che richieda cautela più che la verità; dirla è come farsi un salasso al cuore. Occorre tanta abilità per saperla dire, quanta se ne richiede per saperla tacere. Con una sola menzogna si perde tutta quanta la stima dovuta all’integrità”.
L’ingannato viene considerato sciocco, e l’ingannatore falso. Può divertire i politologi la garanzia offerta dal Gracián: “Il sapere dissimulare è una gran dote per chi governa” (88°). Mi sembra opportuno non commentarla altrimenti che con il sesto “Essay” di Francis Bacon: “La dissimulazione non è che un sottogenere della politica o della saggezza, poiché sapere quando dire la verità e dirla, richiede tagliente arguzia e altrettanto forte coraggio; pertanto i politici più deboli sono grandi dissimulatori”.
Nella diciannovesima massima, scopriamo che la speranza è la più grande falsificatrice della verità: la prudenza deve intervenire a correggerla. Questa accusa rivolta alla speranza è piuttosto interessante, poiché rappresenta una novità. Gracián argomenta così: “La verità non può mai stare alla pari con quel che l’immaginazione concepisce, perché è facile fantasticare le cose più perfette, ma è assai difficile poi realizzarle”.
Che l’immaginazione sia nemica della verità può essere pacifico; che la prudenza sia la sua migliore difensora ne è allora logica conseguenza. Altra nemica della verità è l’esaltazione del prossimo: l’uomo prudente preferisce infatti difettare che eccedere nelle lodi, consapevole com’è della rarità dell’eccellenza (41°). La verità è pericolosa (210°), e per pronunciarla è necessario l’artificio. In questa affermazione, ultima ad essere selezionata in questa interessante esposizione, salutiamo un nuovo favorevole auspicio per la nostra ricerca.
Solamente pochi anni prima della pubblicazione dell’“Oracolo”, Tommaso Campanella, nella “Metafisica”, elaborata tra 1603 e 1610 e pubblicata nel 1638, sosteneva che l’unico maestro degno di verità fosse Dio, e che egli ci parlasse o nella lingua delle cose o nella lingua della rivelazione. Gli uomini, per quanto possa dipendere da loro, sono tutti mentitori (“Homines vero omnes mendaces”), perché hanno paura o perché sono ignoranti o perché non vogliono altrimenti. Essi sono credibili solo quando parlano come testimoni di cose che hanno letto nel libro di Dio, il quale è l’universo, oppure quando le hanno dalla bocca di Dio come scrittori da lui incaricati (“ut divini scriptores).
Per concludere, a proposito della naturale mendacità degli uomini, Jorge Luis Borges, nella sua poesia dedicata a Baltasar Gracián, trarrà un giudizio emblematico della sua opera. Nelle ultime tre strofe, immagina che l’anima del trattatista sia stata assunta in gloria, e: “Che provò mai fissando intensamente / e gli Archètipi e gli altri splendori? / Forse pianse e si disse: Vanamente / cercai alimento in fisime e in errori. / Che avvenne quando Dio gli sfolgorò / il Vero, suo retaggio inesorabile? / Forse il sole di Dio lo abbacinò / nel pieno della gloria interminabile. / Conosco altro finale. In sue piccine / astuzie immerso, Gracián quella gloria / neppure vide e arrovella la memoria / in emblemi, bisticci e cavatine”.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Baltasar Gracián y Morales (Belmonte, Zaragoza, 1601 – Tarragona, 1658), filosofo e scrittore spagnolo, gesuita.
Baltasar Gracián, “Oracolo manuale e arte di prudenza”, Tea, Milano, 1986. A cura di Antonio Gasparetti.
Prima edizione: “Oráculo manual y Arte de prudencia”, Città, 1647.
Gianfranco Franchi, “Lankelot”. 2002.
Originariamente integrato nella tesi di laurea “La menzogna nella letteratura del Novecento”. A ruota, pubblicato su Lankelot.