Non pensavo che la vita fosse così lunga. Gloria e tragedia di Tiberio Mitri

Non pensavo che la vita fosse così lunga. Gloria e tragedia di Tiberio Mitri Book Cover Non pensavo che la vita fosse così lunga. Gloria e tragedia di Tiberio Mitri
AMADEI Aureliano, FALCONE Alessandro, PALOMBINI Gian Piero
Iacobelli
2010
978-8862520829

Tiberio Mitri, pugile e patriota giuliano classe 1926, scomparso a Roma nel 2001, fu un atleta capace di sopravvivere alla povertà, all'educatorio, alla guerra e alla Risiera di San Sabba per diventare campione d'Europa nel 1949 e nel 1954. Amatissimo per la sua eleganza e per il suo stile, sul ring, conquistò italiani e francesi con disinvoltura e naturalezza; onorò Trieste con i suoi successi negli anni più delicati – quelli in cui si stava decidendo delle sorti della città di San Giusto, e delle cittadine istriane. Onorò Trieste incarnando il suo spirito combattivo, nel momento necessario. Mitri fu il mito di Nino Benvenuti, grande campione istriano, adottato da Trieste come tanti altri esuli; fu grande amico di Gassman e di Totò, fu uno degli attori de "La grande guerra" di Monicelli. E fu un combattente-poeta che si ritrovò a prendersi a cazzotti con le cose della vita, e senza accorgersene spesso si prese a cazzotti da solo, finendo vittima delle droghe e dell'alcol: «Credevo che la vita durasse di meno ­e poi mi piaceva divertirmi», raccontò, poco prima di morire, in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera. «Ma neanche il divertimento era importante per me. Importante era il pugilato». Proprio come per il suo grande rivale e alter ego, l'americano Jake La Motta, il "Toro Scatenato" di Scorsese.
Ma Mitri non è solo questo. Due figli morti ammazzati dai mali del secolo, dal brown sugar il primo, dall'hiv la seconda. Tante donne. Pochi veri amori. Un sacco di amici pronti a dargli una mano, a Trastevere soprattutto, e nonostante tutto. A febbraio sono dieci anni da quando Tiberio se n'è andato, investito da un treno, qui, nell'Eterna che l'aveva adottato. A ricordarlo a dovere, con semplicità e con passione, una biografia asciutta e romana: Non pensavo che la vita fosse così lunga (Iacobelli, 110 pagine, € 12) scritta dal regista Aureliano Amadei (padre di “Venti sigarette a Nassirya”, libro e film), dal giornalista sportivo e videomaker Alessandro Falcone (esordiente), dal documentarista Gian Piero Palombini, autore del documentario, prodotto in collaborazione con Rai Educational e Cinecittà Luce, da cui è derivato questo libro. Un buon libro capace di restituire il ricordo d'un atleta che è stato più di un pugile e più di un attore: è stato un simbolo, nel bene e nel male, di Trieste, una delle più contraddittorie incarnazioni della sua moderna essenza, della sua dolorosa decadenza. Ma Trieste si risolleverà: e combatterà per tornare a essere grande con l'eleganza del suo campione prediletto, prediletto tanti anni fa. È nelle cose, sta per succedere, succederà.

Nino Benvenuti, nella prefazione, spiega bene cosa poteva signficare nascere a Trieste negli anni Venti, come Mitri: «Una di quelle combinazioni che ti legano indissolubilmente a un'esistenza difficile. Esasperata, nel suo caso. Crescere in un tempo in cui i solchi tracciati dalla Prima Guerra erano ancora profondi e le ferite ancora aperte, significava sofferenza». Tiberio Mitri fu bambino negli anni in cui Trieste tornava (o diventava) finalmente italiana. Non poté che crescere con tanto amor di patria, e questo a dispetto della dolorosa parentesi nell'educatorio, e degli anni passati a conquistarsi spazio e rispetto con la prepotenza e con la forza. L'educatorio era un sinistro incrocio tra un orfanotrofio e un riformatorio.
Noi italiani ereditammo e riabbracciammo Trieste che era un gioiello. Come scrivono Amadei, Falcone e Palombini, piazza Unità era (ed è) una delle più belle piazze della Mitteleuropa, nel porto fioriva una grande attività e le boutique del centro erano degne di quelle di Vienna o di Budapest. Tutti ci invidiavano Trieste. Col tempo, la città diventò frontiera, e non più porto cosmopolita. Si snaturò. Si irrigidì. Si spogliò di quello spirito europeo, libertario e avanguardista che aveva ispirato Svevo e Slataper, e fatto innamorare James Joyce.
Nel 1941, raccontano gli autori del libro, Tiberio Mitri quindicenne ciondolava per le strade del quartiere, lavoro manco a parlarne, al limite qualche lavoretto in porto. La sua famiglia era poverissima, la mamma era vedova da un pezzo. Tempi duri. Mitri s'allenava nella palestra "Quis contra nos" grazie a un documento falso. Era uno che aveva già imparato a prenderle e a darle a dovere. E sapeva sfidare i pugili più quotati. Si arruolò in Marina, barando sull'età, e si ritrovò presto a dover salvare la ghirba dalle bombe alleate. Post 1943, tornato a casa in attesa di decidere da che parte stare, nel delicato contesto giuliano-dalmata, si ritrovò prigioniero dei nazisti nella Risiera di San Sabba. Detenuto comune, e quindi destinato ai campi di lavoro: gli ebrei, atroce ricordarlo, venivano eliminati sul posto e bruciati nei forni. Unico stimma del genere in tutto il territorio italiano. Tiberio sopravvisse. Mitri riuscì a scampare al destino degli altri prigionieri comuni arruolandosi nella Milizia ferroviaria: «Pensavo questa è fatta, sono uscito da San Sabba, mi sono salvato dalla Germania, scapperò un giorno anche dalla milizia», scriveva il pugile nel suo vecchio libro "La botta in testa". Ma intanto si trovò costretto a vivere quel periodo di terribili odii e di vendette tra concittadini e consanguinei, e tra slavi e italiani, e sopravvisse ai giorni dell'occupazione titina di Trieste nascosto in un rifugio segreto.
Nel dopoguerra, il destino dell'amata città appeso a un filo, Mitri sembrò mettere la testa a posto, e cominciò a lavorare tra porto e comune, mostrando d'essere cambiato. Soffriva la vita d'ufficio, questo sì. Ma lavorava sodo. Il richiamo della boxe lo strappò a quello che sembrava un destino ordinario e piccolo borghese: Tiberio diventò un gran peso medio. Fu guidato da un atipico allenatore artista, Bruno Fabris, empatico e pieno di sentimento. Campione d'Italia a neanche ventidue anni, campione d'Europa a ventitre, incarnò l'amore di tutti per la nostra magnifica e ferita Trieste sposando la Miss Italia triestina Fulvia Franco, nel 1950. Tiberio e Fulvia rappresentavano l'italianità e l'orgoglio d'un pezzo del nostro paese che non dovevamo perdere, a nessun costo. Quando Mitri sfidò "Toro Scatenato" Jake La Motta, campione mondiale italoamericano, nella leggendaria cornice del Madison Square Garden, complice – dicono – un'organizzazione dell'evento non estranea a manovre dei padrini dell'epoca, fu sconfitto con onore, ai punti: ma si ritrovò invischiato nei loschi traffici della mafia, intrecciati alla boxe. Non fu facile né immediato tornare in Italia, prima a Trieste e poi a Roma. L'immagine vincente di Mitri non esisteva più: era diventato un perdente di lusso. Come se non bastasse, era sotto contratto per altri cinque anni di match al Madison Square Garen. Morale della favola: il mito declinò, i soldi sparirono, serviva fantasia per reinventarsi il futuro e gabbare quelli del Madison Square. E allora un nuovo futuro s'incarnò. Roma, 1951: il venticinquenne Tiberio Mitri aprì un bar, con l'aiuto dei suoceri. E un anno più tardi si ritrovò a fare l'attore al cinema, in una commedia con Walter Chiari ("Era lei che lo voleva" di Marino Girolami). Il pugilato sembra perdere importanza, apparentemente. Complice l'ambiente capitolino, Mitri tornò a buoni livelli professionistici ancora una volta, conquistando il titolo di campione d'Europa nel 1954. 1954: un anno fondamentale. L'anno in cui ci restituirono Trieste. L'anno in cui Trieste ufficialmente tornava all'Italia. Coincidenza? Dico di no. Fu una grande festa. Ma per Mitri la sua vittoria sportiva fu un'illusione, perché il pugile triestino ormai si sentiva un divo, ed era più adatto al cinema. E al cinema si dedicò, con sempre maggiore convinzione, subito dopo aver perduto il titolo europeo. Al cinema e alla bella vita. Alle donne, dopo la separazione con Fulvia Franco, al mangiare e al bere. Bere tanto. Un nuovo amore, Helen, e una bambina, Tiberia, non cambiano l'andazzo: «Le risse si fanno sempre più frequenti, complice anche l'abuso di alcol. Per farlo scattare basta uno sguardo di troppo alla ragazza che gli siede a fianco. Ed episodi di questo tipo capitano spesso. È un ex pugile e per la legge il suo pugno equivale a un'arma perché con la sua tecnica una banale discussione può trasformarsi in tragedia». E Mitri lo sa bene. La leggenda urbana dell'ex pugile che chiama l'ambulanza prima di pestare cinque coatti che insultavano la sua donna nasce proprio allora. Fondata su un episodio realmente accaduto. Il resto raccontare si potrebbe, ma passa la voglia. Droga, arresti, scazzottate, tanta tristezza, la morte dei figli. Sì, Mitri è morto vecchio, solo e triste. Se la passava male. Però, il giorno prima di morire, si presentò – raccontano gli autori – nella palestra del suo giovane amico Giorgio Perreca. Domandò i guantoni. Tutti stupiti. L'istruttore esaudì la sua richiesta. E allora Tiberio il triestino infilò una sequenza da manuale della boxe, jab, altro jab, e poi montante, e poi un gancio. In palestra tutti zitti a guardare quel vecchio fenomeno che danzava per l'ultima volta. E poi niente. Tiberio si slacciò i guanti, salutò con triestina scontrosa grazia, e sorrise. Il giorno dopo se ne andava, il giorno dopo se ne sarebbe andato, e lo sapeva già.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Aureliano Amadei, Alessandro Falcone, Gian Piero Palombini, “Non pensavo che la vita fosse così lunga. Gloria e tragedia di Tiberio Mitri”, Iacobelli, Roma 2010. Prefazione di Nino Benvenuti. Copertina di Maurizio Ceccato.

Approfondimento in rete: Wiki su MITRI
Gianfranco Franchi, Dicembre 2010.

Prima pubblicazione dell'articolo: “Secolo” del 14 12 2010, pagine 8 e 9. Tutti i diritti appartengono al “Secolo”. L'articolo è poi apparso su Lankelot in versione leggermente più estesa.

Tiberio Mitri, pugile e patriota giuliano classe 1926, scomparso a Roma nel 2001, fu un atleta capace di sopravvivere alla povertà, all’educatorio, alla guerra e alla Risiera di San Sabba per diventare campione d’Europa nel 1949 e nel 1954.