Lupetti
2008
9788883912283
Il Novecento è stato un secolo buio: è stato il secolo delle guerre più atroci della storia dell’umanità, del potere soffocante, umiliante e disumanizzante d’una burocrazia ciclopica, e della trasformazione esplicita dello Stato in Regime dittatoriale, franco omicida della libertà dei cittadini e avvelenatore della loro coscienza. Ne siamo usciti indeboliti, spaventati e scossi, decimati e tuttavia illusi che il ritorno dei regimi ad apparentemente democratiche forme statali significasse il principio di una rigenerazione, e di un cambiamento epocale: cambiamento che sembra eccezionalmente lontano, nel 2008, destabilizzando le vite dei cittadini e deprimendo le loro speranze. L’incubo peggiore è che certa pervasiva presenza di un’istituzione come quella dello Stato abbia soltanto mutato strategie e tecniche di condizionamento, e di controllo della cittadinanza: la dissoluzione dei regimi va letta piuttosto come una trasformazione. Una trasformazione intelligente, e astuta.
È la letteratura, adesso, che deve saper scoprire i punti deboli di questa nuova macchina tritura-umanità. Negli anni Venti, un artista come Zamjatin era in grado di trasfigurare il raccapriccio, il dissenso e il disprezzo per un regime assassino e indecente come quello socialista sovietico in un’opera che rappresentava uno scenario plausibile di decadenza dell’umanità e divinizzazione dello Stato. Zamjatin pagò il suo coraggio e il suo genio con la costrizione all’esilio, e con una censura in patria che durò sino al termine della parabola liberticida del comunismo, due decenni fa.
Tuttavia, influenzò profondamente (“Noi” è del 1920) una serie di artisti che in Europa – che qui in Italia – conosciamo diversamente bene: George Orwell, Aldous Huxley, William Bordewijk. La fortuna editoriale del gran romanzo di Zamjatin, nel nostro benedetto assurdo belpaese, è stata episodica e grottesca; è per merito di Bigalli e Rizzardini e della loro collana “I Rimossi” se, appena ventiquattro anni dopo l’introvabile (e misteriosamente mai ristampata) edizione Feltrinelli, l’opera può tornare a circolare nelle abitazioni dei letterati e dei cittadini appassionati di letteratura della distopia.
A cosa serve, oggi, “Noi”? Serve a non dimenticare come il regime comunista trattava gli artisti estranei alla supina adesione al suo verbo. Serve a non dimenticare come la cultura e certa editoria italiana siano state, sino a pochi decenni fa, vittime in più d’una circostanza d’una sinistra sottomissione ai diktat moscoviti. Fedeli alla linea. Rossa. Serve a interiorizzare un paradigma che appassionò e ispirò artisti occidentali. È un’esperienza estetica fascinosa, triste e decisamente godibile. Rinvio quanti fossero interessati a una visione d’insieme delle vicende biobibliografiche di Zamjatin a esaminare i link pubblicati al termine di questo capitolo; passo quindi a una breve analisi della struttura e del senso dell’opera.
L’opera si presenta come un diario; è suddivisa in quaranta note, ciascuna introdotta da un breve sommario. Il narratore – in prima persona, intradiegetico, non onnisciente – scrive “per gli antenati” (p. 22: “selvaggi, lontani antenati…”) da un futuro inquietante che possiamo così sintetizzare: tutti i cittadini hanno perduto nome e cognome, sono individuati da numeri. Numeri integrati alla perfezione – per così dire – nell’unico Stato che regge e governa il mondo. Autorità unica di questa terra, il Benefattore. Niente più nazioni, niente più guerre: Tavole delle Leggi eque per tutti e da tutti condivise. L’informazione è garantita dal Giornale dello Stato.
La linea dello Stato Unico è retta. L’unica possibile per un mondo del genere. I cittadini – d’ora in avanti: numeri – non hanno più nessuna forma di vita privata; le pareti degli edifici sono trasparenti. Per i momenti dedicati al previsto diritto all’accoppiamento esistono sobrie tendine. Tutti, finalmente, sono uguali: sono previste due ore di svago al giorno, durante il pomeriggio e la sera. Durante la notte si deve, inevitabilmente, dormire (p. 49). Preferibilmente senza sognare: il sogno è considerato “seria malattia psichica” (p. 29). L’alimentazione dello Stato Unico è ben diversa da quella che conosciamo; la parola “pane” è un’allegoria poetica per quel cibo universale che è diventato la nafta.
In questo ameno contesto, la dottrina principe è quella della Ragione: adesso lo Stato Unico vuole estenderla a tutto l’universo, pianeta per pianeta, per portare la certezza matematica della felicità ai popoli alieni rimasti estranei al comunismo; per questo, D-503, il narratore del diario, sta costruendo un Integrale Elettrico che cambierà per sempre la storia dei popoli del cosmo. Uniformandola a quella dei numeri dello Stato Unico.
Si vive in un mondo in cui chi volesse essere “originale” andrebbe a infrangere l’uguaglianza. L’uguaglianza è fondamentale: garante totale, il nuovo Dio.
Il nuovo Dio è lo Stato (p. 39), naturalmente. L’anima è una malattia. Non racconterò altro del mondo raccontato (trasfigurato) da D-503, auspicando che il lettore abbia già inteso la centralità dell’opera e dei suoi assi portanti, e la peculiarità delle critiche rivolte nei confronti della deviazione più orrida dello Stato Moderno. Mi limito a segnalare che, come chi ama il genere non dubita, sarà una figura femminile a destabilizzare – quanto provvisoriamente sarete voi neofiti a scoprirlo – l’equilibrio di D-503. Non mancherà l’incontro con il Benefattore.
Tempo fa, scrivendo dell’ultima utopia del Novecento – l’ultima: da oltre cento anni siamo inondati da distopie – ossia la dimessa “Island” di Huxley, pensavo che siamo tutti avvertiti e sensibilizzati a proposito delle possibili derive di questa abnorme istituzione che è lo Stato Moderno: e che forse questo è il momento storico di tornare a sognare e congetturare, come nei secoli scorsi, una società e un mondo migliori e più vivibili. La ricerca della felicità e della serenità di ogni cittadino non può e non deve coincidere con una insensata, generica e imposta uguaglianza: la menzogna comunista deve essere definitivamente accantonata. La strada del futuro va tracciata: servono idee per sentieri nuovi di ricerca e di costruzione di uno Stato diverso. È questa una delle grandi sfide dei letterati di questo secolo; tornare su certi binari. Anche per omaggiare, mettiamola così, il sacrificio di quegli artisti che pur di testimoniare il loro senso di giustizia e libertà hanno compromesso la loro esistenza, vedendo oscurate o cancellate le loro creazioni. Restituire vita a “Noi” di Zamjatin significa credere nella speranza.
La fiamma non s’è mai spenta, la fiaccola è accesa. Siamo pronti a sprofondare nel nuovo medioevo con la consapevolezza che l’umanità risorgerà solo grazie all’intelligenza, alla sensibilità e allo studio: all’amore per il prossimo, e all’odio per le oligarchie che dominano ogni nazione, decretando la possibilità di vita e circolazione delle opere d’arte. Oggi, ben lo sappiamo, la censura s’è fatta adulta e astuta. Non serve far sparire i dissidenti, basta farli circolare in poche copie. Combattiamola, allora, sostenendo quelle opere che possono ancora cambiare la storia.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Evgenij Ivanovich Zamjatin (Lebedjan, Russia 1884 – Parigi, Francia 1937), ingegnere navale e scrittore russo. Fu drammaturgo, saggista e romanziere. Esordì pubblicando il libro di racconti “La vita in provincia”, nel 1913. Insofferente nei confronti del regime sovietico, emigrò a Parigi, dove morì.
Evgenij Zamjatin, “Noi”, Lupetti, Milano 2007. Collana “I Rimossi”, 03. Traduzione di Barbara Delfino. Cura e postfazione di Stefano Moriggi.
Prima edizione: “My”, 1922. Scritto nel 1920. Prima edizione italiana: Feltrinelli, 1984. Traduzione di Lo Gatto.
Adattamento cinematografico: per ora, “Wir” – film per la tv tedesca del 1981, per la regia di V. Jasny.
Gianfranco Franchi, aprile 2008.
Prima pubblicazione: Lankelot.