Marsilio
2010
9788831799652
Memorie di un autore tv e di un giornalista d'inchiesta caro a Sergio Zavoli ed Enzo Biagi: uno che sembra consacrato alla sua professione con una dedizione incrollabile, uno che vive ogni reportage come una battaglia per restituire verità, luce e giustizia a chi vive nell'ombra, da vittima dell'arroganza e delle prepotenze. Uno che non ha dimenticato affatto cosa il giornalismo d'inchiesta sia. Quello vero. La bella notizia è che Nevio Casadio esiste, e non è una creatura letteraria: Casadio si direbbe uno dei pochi grandi esempi superstiti del giornalismo televisivo d'una volta, etico e onesto: un esempio capace di fronteggiare, con dignità e orgoglio, la volgarità, la grettezza e la mediocrità del circo catodico forzista. Uno capace di emozionarsi, entrando nella redazione de “Il Mattino”, pensando alla memoria di Gian Carlo Siani, collega partenopeo massacrato a ventisei anni dalla camorra e dalla politica, e di emozionarsi restituendo questa lezione di civiltà e di responsabilità: “Un cronista, quando affronta le pieghe delle inchieste sul malaffare, agisce in solitudine, affonda le mani in un catino d'acqua nera, le immerge nel fango, all'oscuro di quel che estrarrà. […]. A volte, rimestando con le mani nel fango, qualcuno incappa in una mina o tarantola che lo trascinerà con sé, come capitò a Gian Carlo Siani, come capitò a Ilaria Alpi e a Miran Hrovatin, e a quella schiera di cronisti che sempre più ingrossa le fila di giornalisti massacrati nel mondo, ogni anno” [p. 196]. Questo pensiero dovrebbe nutrire le aspirazioni di chi scrive – non certo l'opportunismo partitico e politico, non certo il servilismo e il carrierismo, non certo la tenace sudditanza nei confronti del padrone di turno. Non certo la capacità di servire qualunque padrone, purché pagare sappia e possa.
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“Nel silenzio un canto. Storie di ingiustizie, dolore e riscatti”, è una raccolta di reportage, e di interviste e ritratti di figure notevoli e antieroiche del nostro tempo: militanti per la pace, intellettuali e poeti. Casadio racconta l'India dei dalit, i centosessanta milioni di intoccabili, vergogna d'una nazione democratica da almeno mezzo secolo, e racconta delle vittime dello tsunami; racconta i martiri del giornalismo, gli Enzo Baldoni e gli Almerigo Grilz di tutto il mondo, caduti in Somalia, Pakistan, Russia, Venezuela, Messico, Iran, India, Sri Lanka, Filippine, e accenna ai tanti, troppi reporter messi sotto inchiesta, aggrediti o minacciati – parte di quel terzo della popolazione del mondo dove non esiste libertà di stampa, o è decisamente parziale, come nella nostra decaduta nazione, fosco sultanato da un bel pezzo.
E poi Casadio racconta, per esempio, l'alienazione di certi sedicenti lavori leggeri, quelli che ti costringono a stare inchiodato a una scrivania per fare un lavoro meccanico per ore, ogni giorno, per tanti anni – e la testa che prende e se ne va via lontano, quando ti accorgi che sei come una di quelle bestie recluse nelle batterie. È un racconto che fa male.
Il reportage più impressionante è quello dedicato ai martiri del lavoro, e alla tragedia degli infortuni sul lavoro, qui in Italia: terzo mondo. Si chiama “La ballata di Giuliano” ed è la sintesi d'un viaggio tra vessazioni e ingiustizie italiote, raramente raccontate a dovere dai media, raramente fronteggiate con determinazione dai nostri politici. Vittime del lavoro: “Truppe abbattute in una guerra ordinaria, che si compie ogni giorno nei luoghi diversi dove si produce qualcosa. L'Italia in quel 1999 contò un milione di infortuni di cui il 30 percento invalidanti e 1208 mortali”. E 170mila sono stati gli invalidi permanenti tra 1995 e 2000, e 6mila morti. Casadio parla chiaro: queste morti, e questi infortuni, raccontano l'intreccio perverso tra la smania del profitto e la piaga dell'illegalità. E raccontano di un'Italia che sembra tornare nel precipizio degli anni Cinquanta, quando tutto era permesso: i lavoratori sembrano aver dimenticato i loro diritti, nelle aziende mancano i delegati alla sicurezza, spesso non c'è nessuna presenza del sindacato. Nessuna. L'unica certezza è quella dei doveri, imposti dal padrone, e spesso neanche sanciti da un contratto scritto. Già, nel nostro neoterzomondismo stiamo diventando la nazione del lavoro in nero, e delle morti bianche. Si chiamano “bianche”, spiega Casadio, “perché non lasciano traccia”. Spesso nemmeno sui giornali – soprattutto quelli che tendono a evitare di dare troppo risalto ai guai dei loro azionisti, o dei loro inserzionisti pubblicitari. A volte, maledizione, fanno anche politica.
Altrove, in “Viaggio di un reggiseno”, il bravo e onesto giornalista ci accompagna sino in Albania, laddove accade che imprenditori italiani con scarsi scrupoli vanno, sciagurati, sfruttando e seviziando la manodopera locale. Una delle notizie più scioccanti è quella della vicenda delle perquisizioni a fine lavoro. A quanto pare, certi padroni si sono convinti che sia necessario prendere e far controllare a dovere le proprie operaie, a fine giornata, per vedere se si sono messe indosso una mutandina o un reggiseno freschi di fabbricazione. L'operaia intervistata riferisce: “Vogliono vedere se abbiamo rubato qualche pezzo. Qualche nostra collega, tra le più giovani, potrebbe essere tentata di indossare un reggiseno bello, fatto da noi con le nostre mani. Che non potrebbe permettersi con lo stipendio che riceve. È una persecuzione che ci umilia. Dicono che è una cosa normale […]”. Come no. Naturale, più che normale. Proprio.
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Veniamo a qualche annotazione relativa alle pagine su intellettuali e scrittori cari a Nevio Casadio. Si staglia il primo frammento, “Il giudizio universale di Dario Bellezza”, in cui Casadio restituisce il ricordo del suo incontro col poeta malato, malato della peste del nostro secolo, nei suoi ultimi giorni di vita – quelli eternati dal bel libro di Maurizio Gregorini, “Il male di Dario Bellezza”. Bellezza aveva una mano “stanca, di bambina ferita. O di foglia strappata e appassita”. Il poeta gli raccontò della sua vita infelice, da malato, dello stato di assedio figlio del dolore, della malattia e della morte; raccontò del suo rapporto con Dio, della nostalgia del caffè, dell'amore grande che portava alla vita. Casadio impedì alla troupe di riprendere qualcosa di diverso dal viso di Bellezza. Niente pareti, niente oggetti, nessuna atmosfera. L'artista, l'esperienza, la sofferenza, l'eternità: la morte. Partecipato e lirico l'omaggio al poeta dei “Canti orfici” nel quarto pezzo della raccolta, “Le vele di Dino Campana”; notevole invece la memoria dell'incontro con Ada Merini, avvenuto quando la poetessa non era ancora divenuta diva, nel 1996: si va per una Milano oggi irriconoscibile parlando d'arte, di mistero, di pazzia e di dolore.
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Stupendo ed essenziale “Il prete e il chirurgo”, un omaggio a due figure esemplari del nostro tempo. Il prete è Giulio Albanese, prete-reporter, uno che “si buttava come prete in Ruanda, Mozambico, Sudan e nelle terre brute dalle mille barbarie sconosciute al mondo che conta. Erano queste le sue mete, dove portava parole e gesti di speranza e carità”. E come giornalista restituiva la verità ai cittadini. Il chirurgo, invece, è il grande Gino Strada, che un giorno decise di lasciare la sua vita borghese e milanese per andare incontro agli ultimi, vittime delle guerre in tutto il mondo, fondando quello stupendo disegno di resistenza al male e alla violenza che è Emergency. Casadio ricorda: “Strada sbarca, resiste e opera per la vita negli scenari di guerra. Dove vengono ammazzati quasi sempre gli ultimi. In queste guerre, a sentire qualcuno, fatte per portare la pace”. Già. Casadio considera sia Strada che Albanese dei pacificatori, l'uno religioso nel segno di Dio, l'altro laico nel segno dell'uomo: “eppure entrambi profeti, discesi dai tetti alle cloache di turno”.
E da don Giulio Albanese il passo a Padre Alessandro Zanotelli, già direttore di “Nigrizia”, è breve: siamo nel terzo pezzo, “L'inferno di Korogocho”, in una delle tante baraccopoli di Nairobi. Zanotelli inizialmente non vuole farsi intervistare con le telecamere accese, perché, bontà sua, “non crede molto nella televisione italiana”, ma Casadio sa presentarsi a dovere, sa parlargli a cuore aperto. E così ci presenta un uomo che ha “buttato ogni giorno la vita, da sempre, per una causa che vale, per lui, la liberazione dei poveri, il mondo degli ultimi, alle prese con un ordinario martirio”. Quell'uomo ricorda a noi e a Casadio che viviamo in un sistema infame e maligno dove il venti per cento dell'umanità si nutre dell'ottanta per cento delle risorse: 40 milioni di persone ogni anno muoiono di fame, “sacrificati al molok del denaro”. E secondo la banca mondiale 800 milioni di persone “sono inutili, non hanno futuro”. Quell'uomo ricorda a noi e a Casadio che il Vangelo è “il Dio degli ultimi, degli schiavi, delle prostitute, degli emarginati, di tutti coloro che vivono nei sotterranei della vita e della storia. E come il Vangelo è rimasto fedele a quel Dio fuori le mura, rimane fedele a questa gente, di questo sono profondamente convinto”. E noi con lui.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Nevio Casadio, giornalista e saggista italiano. Ha lavorato, in Rai, con Zavoli e Biagi. Ha vinto per tre volte il premio giornalistico “Ilaria Alpi”.
Nevio Casadio, “Nel silenzio un canto”, Marsilio, Venezia, 2010. Prefazione di Ettore Mo.
Gianfranco Franchi, aprile 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.